di Isabella Pinto
[Una versione leggermente ridotta di questo articolo è stata pubblicata sulla rivista “Leggendaria” (I. Pinto, La forza delle storie naturculturali, in “Leggendaria”, n.144, ottobre-novembre, 2020, pp. 60-62).]Il lavoro di Anna Tsing ha finalmente oltrepassato gli steccati disciplinari grazie all’intreccio con l’ultimo volume di Donna Haraway, Chtulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto. Eco che risuona nell’articolo di Lidia Curti, “Convivenze tentacolari. Femminismi e fantascienza”, del 2017 apparso nel mitico numero 127 di Leggendaria, Pensare il futuro, così come nel recente Femminismi Futuri, curato insieme a Marina Vitale e Antonia Anna Ferrante, risultato di un percorso di ricerca dell’omonimo gruppo di studiose, ricercatrici e docenti dell’Università di Napoli L’Orientale. Qui, sia Lidia Curti e ancor di più Tiziana Terranova ne sottolineano gli aspetti relativi all’organizzazione antropocenica della (ri)produzione delle piante e agli “intrecci cronopolitici femministi” (Terranova). O per altri versi risuona nel lavoro di Ilaria Bussoni, filosofa e curatrice d’arte, come testimonia la mostra ilmondoinfine. Vivere tra le rovine (Galleria Nazionale di Arte Moderna, Roma 2018), o le scelte editoriali per la collana “habitus” di DeriveApprodi.
Incrociando queste preziose genealogie, la mia scoperta di Haraway, ponte per il lavoro di Tsing, è avvenuta d’altronde nei seminari di autoformazioni del movimento studentesco dell’Onda, tornando come strumento per pensare le politiche dei commons nel Teatro Valle Occupato e successivamente nell’atelier EcoPol di IAPh-Italia (Ecopol, Ilenia Caleo, Federica Giardini, Isabella Pinto, Bodymetrics. La misura dei corpi), per trasmutare in un lungo periodo di ricerca accademica, con tappe indimenticabili nella Utrecht di Rosi Braidotti, in cui ho avuto anche la fortuna di incontri Haraway in carne e ossa. Da questo punto di osservazione mutevole e in divenire assemblo letteratura, teoria e pratiche di commoning, intravedendo materialità vibranti e turbolente, in stretta connessione con i processi di soggettivazione, e il potere delle storie.
Infatti, altro modo per resistere ai problemi aperti dall’era dell’Antropocene, secondo Haraway, è il pensare-con, una pratica che si basa non solo sull’argomentazione filosofica ma anche sull’arte del racconto. Da un lato con Le tre ghinee di Virginia Woolf, indica quel non avere patria in un mondo patriarcale e militarista, e dall’altro con The Carrier Bag Theory of Fiction di Ursula K. Le Guin, l accoglie l’ipotesi di una filogenesi eterogenetica degli esseri umani, rifiutando l’universalità della sanguinosa e mortifera storia dell’Uomo-Eroe. Abbandonare il viaggio di formazione dell’Eroe vuol dire raccontare le storie di chi raccoglie, di chi narra, di chi canta, di chi pensa, di chi partorisce, di chi si prende cura della casa e degli esseri viventi; vuol dire raccontare le storie contenute nelle sacche dei narratori, delle narratici, dei narrator*, in cui si trovano anche “le storie della vita” (Le Guin). Anche per Haraway l’Uomo-Eroe non è l’unico essere vivente sulla Terra, il quale piuttosto si trova in una relazione di compostaggio con il non-umano e il più-che-umano. Qui Haraway gioca a ripiglino con Tsing, estrapolando figurazioni principalmente da The Mushroom at the End of the World e “Feral biologies”. Da quest’ultimo emerge la figurazione dei refugia, paesaggi della rinascita multispecie, e olocenica che stanno correndo il serio pericolo dell’estinzione, come mostrano i tanti rifugiati di ogni specie.
“Feral biologies”, testo di cui rimane solo un traccia bibliografica, nasce da una conferenza tenuta all’Università di Aarhus in Danimarca (2015), e successivamente si trasforma nel saggio intitolato “A threat to Holocene resurgence is a threat to livability” (2017). Grazie a un scambio diretto e generoso con Anna Tsing ho potuto leggere il testo intermedio, che inizia domandandosi: come è possibile attivare pratiche di “sostenibilità” che permettano di avverare il sogno di passare un pianeta vivibile alle generazioni future, umane e non-umane, laddove il termine “sostenibilità” è spesso usato per nascondere pratiche distruttive derivanti dai sistemi di (ri)produzione mortiferi dell’Antropocene? Facciamo un passo indietro. L’Olocene, iniziato circa 12.000 anni fa, era il tempo in cui abbondavano i refugia, paesaggi generati da pratiche agricole itineranti e dalla rinascita multispecie. Prendendo ad esempio alcuni boschi dell’isola giapponese di Honshu, Tsing racconta di come al disboscamento umano succedevano periodi di abbandono, momenti in cui arrivavano altre piante con i loro ecosistemi per rigenerare il suolo, e successivamente essere naturculturalmente sostituite da altre piante ancora, in attesa di una nuova “perturbazione” degli esseri umani, parte integrante del processo di rinascita. La prolifierazione la ereditiamo invece dall’epoca dell’Antropocene, e si caratterizza come esempio di ecologia dell’estinzione. Nella (ri)produzione di piante moderna, esse vengono individualizzate e il loro processo di (ri)produzione standardizzato, divenendo beni da cui ricavare profitti. I refugia sono distrutti e sostituiti dalle piantagioni. Addirittura Tsing mostra come la moria dei Frassini, verificatasi in Europa a partire dagli inizi degli anni ‘90, sia stata causata dallo spostamento delle piantagioni su enormi navi da container provenienti dall’Asia, dove questi semi o giovani alberi sono stai stipati senza suolo e senza ecosistemi. Questo ha fatto si che i funghi “cacciatori”, gli Hymenoscyohus psudoalibidus, ovvero quelli che decompongono la materia vivente su cui si installano, non abbiano mai incontrato funghi “raccoglitori”, quelli che ne limitano l’azione decompositiva e forniscono nutrienti alla pianta. Nelle ecologie di estinzione dell’Antropocene nessuno spazio è stato lasciato ai funghi che danno nutrimento e forza alla pianta, ritenuti superflui in quanto non trasformabili in beni da profitto. Ciò rende di conseguenza possibile la proliferazione dei funghi “cacciatori”, i quali diventano sempre più virulenti e mortiferi.
Passiamo ora a tirare un altro filo dalla matassa che lega Le Guin, Tsing, e Haraway. Le Guin, nel breve scritto sopracitato, afferma l’esistenza di uno “strano realismo”, ribellandosi alla convinzione stereotipata che fa coincidere la Science Fiction con la mitologia della “tecnologia moderna”, fondata sulla linearità progressiva del “tempo-killer-freccia del tecno-eroe” (Le Guin).
Tsing, d’altronde, nota scientificamente che la rinascita olocenica e la proliferazione antropocenica coesistano nel presente, ma per preservare la vivibilità abbiamo bisogno di conservare le ecologie dell’Olocene, e per fare questo abbiamo bisogno di prestargli attenzione, e per suscitare questa attenzione nel maggior numero di persone bisogna raccontare le loro storie, spronandoci a una lettura/scrittura temporalmente diffrattiva (Barad).
Haraway raccoglie entrambe le figure e le articola nello Chthulucene, dove Chthulu- sta per l’alleanza tra il ragno Pimoa chthulhu e il polpo diurno Octopus cyanea, e -cene sta per kainos, “le nuove epoche appena create del denso presente”, ovvero “storie multispecie in via di svolgimento, di pratiche del con-divenire in tempi che restano aperti, tempi precari, tempi in cui il mondo non è finito e il cielo non è ancora crollato” (Haraway). Ciò vuol dire che se nell’Antropocene si aggrovigliano molte più ecologie/temporalità/storie mortifere che vitali, individuare i refugia superstiti, o quelli che tentano di rinascere, e raccontarli, può essere un modo material-semiotico di restare a contatto con il problema.
Mutatis mutandis, la condizione della proliferazione antropocenica è forse quella maggiormente raccontata.
Mi piace ricordare, ad esempio, le pellicole di Alice Rohrwacher, Le Meraviglie e Lazzaro Felice, Omelia Contadina. Quest’ultima, vera e propria azione cinematografica realizzata in collaborazione con JR, eclettico artista francese, è la celebrazione del funerale simbolico dell’agricoltura dei contadini dell’Altopiano dell’Alfina, da anni in lotta contro le monocolture intensive e le speculazioni. Alternativamente, la condizione di rinascita olocenica propria dei refugia si può individuare nei commons e in tutte quei luoghi in cui si applicano pratiche di cura radicali.
La pratica dell’occupazione è stata una costante nei movimenti politici italiani dal secondo dopoguerra in poi, femministi e non, ma le lotte per i commons sono emerse esplicitamene solo come risposta alle trasformazioni prodotte dalla crisi economica globale del 2008. Così dal 2011, sulla spinta della vittoria del Referendum per l’acqua bene comune, a partire dal Teatro Valle Occupato e abbracciando una dimensione europea, sono fioriti luoghi composti da diverse soggettività umane e da diversi corpi, non-umani e più-che-umani. Tuttavia, la consapevolezza del decentramento di Anthropos sta emergendo solo recentemente, grazie anche alla sedimentazione di vecchi e nuovi saperi generati dal ciclo di lotte che ha visto il ritorno sulla scena pubblica delle istanze femministe, transfemministe e queer, da Non Una di Meno al MeToo, e nella loro unione con le lotte ambientali e antirazziste.
Da testimone modesta, ritengo si sia verificato un passaggio importante lo scorso 19 e 20 settembre, quando si è svolta a Roma un’assemblea nazionale a Lucha y Siesta, Casa delle Donne occupata a Roma nel 2008, intitolata Laboratorio di progettazione partecipata. Verso un nuovo modello di bene comune transfemminista. Un’aggiunta, quella del termine transfemminista, non da poco, perché ha permesso un ulteriore sviluppo del pensiero e delle storie attorno alle pratiche di cura radicali. Per praticare commoning bisogna rimettere al centro i corpi, decentrando l’Umano sia nella direzione del postumanesimo critico femminista (Braidotti), che del femminismo marxista (Federici), che in direzione del compostaggio femminista multispecie (Haraway, Timeto): a contare sono infatti tutti i corpi che fanno parte di quel dato bene comune. Proprio come i Frassini, i funghi Mutsutake e i boschi di sugi e kinoki in Giappone, Lucha y Siesta non sarebbe la stessa senza il suo edificio e il suo giardino; o la Casa Internazionale delle Donne di Roma, che resiste alla privatizzazione del centro storico, in un edificio che abbraccia un giardino rigenerante. In entrambi questi refugia–commons, anche se con modalità diverse, ci si prende radicalmente e reciprocamente cura, su vari livelli, dei corpi schiacciati da molteplici violenze, in una continuità poethica (Da Silva 2014) con gli edifici e gli ecosistemi che ne fanno parte. Tuttavia questi sono paesaggi e “sporte del narratore” che abitano un groviglio mixtopico, (Vallorani, Leggendaria 143/2020, 11). Le istituzioni neoliberiste (pubbliche e private) colonizzano da anni il discorso della partecipazione, dei commons, e della cura per rifunzionalizzarlo in direzione di un soggetto unico e neutro, spogliato della decisione politica, adeguato alla violenta economia speculativa. In questa chiave, la distruzione dei commons assomiglia fin troppo alle ecologie mortifere dell’Antropocene, a differenza delle pratiche di commoning, che parlano invece di una “sostenibilità” per cui i corpi che contano non sono solo quelli decisi dal profitto, dal capitalocene o dall’organizzazione mortifera del plantagionocene, ma quelli che permettono, grazie alle reciproche pratiche di cura radicali, rinascite multispecie.
Testi citati
Rosi Braidotti, Il postumano. La vita oltre il sé, oltre la specie, oltre la morte, Derive Approdi, Roma 2014.
Lidia Curti, “Convivenze tentacolari. Femminismi e fantascienza”, in “Leggendaria”, 127/2017
___________(a cura di), Femminismi futuri, Iacobelli, Roma 2020.
Ecopol, Ilenia Caleo, Federica Giardini, Isabella Pinto, Bodymetrics. La misura dei corpi, IAPh- Italia, Roma 2018.
Silvia Federici, Reincanare il mondo. Femminismo e politica dei “commons”, Ombre Corte, Verona, 2018
Denise Ferreira Da Silva, Toward a Black Feminist Poethics: The Quest(ion) of Blackness Towards the End of the World, in “The Black Scholar, 44 (2), 2014.
Donna Haraway, Chtulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019.
Ursula K. Le Guin, “The Carrier Bag Theory of Fiction” , in Cheryll Glotfelty, Harold Fromm (eds.), The Ecocriticism Reader: Landmarks in Literary Ecology, UGA Press, Athens(Georgia)m 1996, pp. 149-154.
Alice Rohrwacher, Le Meraviglie (2014).
_______________, Lazzaro Felice (2018).
Alice Rohrwacher & JR, Omelia Contadina (2020).
Federica Timeto, Bestiario Haraway, Mimesis, Milano 2020.
Anna L. Tsing, The Mushroom at the End of the World (2015).
____________, “Feral biologies” (2015).
____________, “A threat to Holocene resurgence is a threat to livability”, bozze (per gentile concessione dell’autrice).
Nicoletta Vallorani, Lo sterile “equilibrio perfetto”. L’utopia-groviglio, in “Leggendaria”, 143/2020, pp. 10-11.
Virginia Woolf, Le tre ghinee, 1938, Feltrinelli, Milano 2014.