La rivoluzione possibile. Cura/Lavoro: piacere e responsabilità del vivere

I materiali del convegno

Il luogo è quello che dal 1899 ha ospitato le campagne e le lotte dell’Unione Femminile Nazionale.
Il giorno è sabato 18 febbraio, a Milano. Il tema, la complessa riflessione sulla tematica cura/lavoro.

L’iniziativa è promossa da Libera Università delle Donne, Libreria delle Donne di Milano, Gruppo del mercoledì di Roma, a partire anche dal confronto maturato nell’ambito dell’Agorà del Lavoro di Milano (quella che M.G. Campari – nella sua nota sintetica alla giornata – definisce una “piazza pensante” che da circa un anno tiene riunioni mensili pubbliche su questi e analoghi argomenti).
La mattinata è incentrata sul tema “Il pensiero delle donne: nodi problematici” e vede la partecipazione di Maria Luisa Boccia, Antonella Picchio, Maria Benvenuti e Liliana Moro sotto il coordinamento e l’introduzione di Maria Grazia Campari.

Nel pomeriggio il dibattito si focalizza su “Quali pratiche politiche”, con gli interventi di Lea Melandri – anche coordinatrice – Bianca Pomeranzi, Eleonora Cirant, Nicoletta Buonapace e Giordana Masotto.
M.L. Boccia introduce la questione che poi, a più riprese, troveremo anche negli interventi delle altre: cosa c’è nella cura che non è risolvibile solo con il lavoro di cura (quello che all’UDI chiamiamo manutenzione)? Nella cura cioè si percepisce un’eccedenza: essa costruisce una dimensione che le donne non tralasciano per amore delle relazioni e per sostegno alla qualità del vivere; è un collante, non solo un fattore produttivo di ricchezza e di sapere. Il concetto è ripreso, nella seconda parte della giornata, da Giordana Masotto che insiste su quel qualcosa che non trova una soluzione neppure nel welfare. Masotto matura un’ampia riflessione sulla dualità della percezione del sociale (pubblico vs privato) che non può più sussistere se si vuole creare un nuovo concetto di bene comune (e beni comuni). Senza una conversione del quotidiano ha poco senso la conversione della macrostruttura economica, ecologica, etc.

In un tempo in cui tutto è incuria (politica, sociale, relazioni) il valore della cura viene fatto proprio da più parti, insieme a conciliazione e parità, tanto da trasformarsi nel cavallo di battaglia di azioni politiche, istituzionali e di movimento che disconoscono il riferimento della cura alla dimensione femminile. Il mancato riconoscimento di un assunto femminile strettamente legato all’attenzione verso l’intorno e alla relazione si ritorce spesso contro le donne che si vedono quindi defraudate di un percorso – anche politico – che prima hanno dovuto subire e trasformare per sopravvivere, e che adesso viene acquisito come un dato valoriale da sistemi che non ne riconoscono l’origine.

Di spessore teorico l’intervento di Picchio che solleva il dubbio che fra cura e lavoro di cura non vi possa essere una separazione. Picchio ha il merito di rilevare che spesso, nell’immaginario collettivo, il riferimento alla cura riporta immediatamente ad un qualcosa da sopportare (i lavori domestici per esempio), piuttosto che ad una dimensione di relazioni da coltivare. Picchio evidenza la necessità di spostare su un piano sociale di scontro politico dichiarato i nostri desideri: solo il conflitto infatti può trasformare il concetto di cura.
A questo si aggiunge che la dedizione alla cura potrebbe anche trasformarsi in una leva femminile per allargare la consapevolezza dei propri desideri, autorizzando tutti a immaginare una diversa organizzazione del lavoro per una vita qualitativamente migliore.

Il doppio sì è l’assunto di partenza della relazione di Maria Benvenuti. Una pratica collettiva potrebbe quindi esercitarsi sulla consapevolezza dei proprio bisogni e desideri, ad esempio ponendo l’accento sulla problematica del tempo imposto e non scelto, sull’organizzazione del lavoro piuttosto che sul salario.
Le pratiche possibili che si potrebbero prospettare vertono su una necessità – a detta di Lea Melandri – di portare allo scoperto esperienze naturalizzate per secoli. Tale percorso dovrebbe consentirci di sentirci non conformi ai modelli che ci portiamo dentro a livello profondo e che si sono acuiti con il passare del tempo.
Si potrebbe quindi iniziare considerando la cura criticamente, dall’angolo visuale della libertà di scelta, scontrandosi con il sistema che chiede alle donne sempre maggiore dedizione per tappare falle sempre più ampie. Questo è il momento di acuire il conflitto, perché per molte ne va della sopravvivenza.

E’ evidente che in questo percorso si riformulano questioni legate all’animazione sociale, alla costruzione di reti di supporto sociale e di fronteggiamento, alla riappropriazione di beni comuni per farli trasformarli di nuovo in beni collettivi a partire dalla costruzione di relazioni. In questa riflessione si colloca a pieno titolo la riformulazione di un discorso che unisce donne e uomini rendendoli soggetti interi, non semplici risorse.
M.G. Campari sostiene la necessità di un “dare noi un ordine, considerando che su questi problemi il silenzio maschile è profondo”.

Report a cura di Valentina Sonzini

 

Redazione

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