di Cristina Morini
(pubblicato su http://effimera.org/la-scelta-di-carla-di-cristina-morini/)
La donna non va definita in rapporto all’uomo.
Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà
Manifesto di Rivolta Femminile, Roma, luglio 1970
Si addentra profondamente nel territorio affascinante della ricerca della autonoma modalità espressiva, creativa e politica dell’altro (“la donna è l’altro rispetto all’uomo”), il libro di Giovanna Zapperi, Carla Lonzi, un’arte della vita, pubblicato da poco per DeriveApprodi nella collana Opera Viva. Una ricostruzione dettagliata dell’esistenza e dell’opera della teorica femminista italiana che è stata anche critica d’arte. Un lavoro di grande ricchezza, svolto ricorrendo ad archivi non sempre facilmente consultabili, che ci restituisce, attraverso uno scavo ragionato, tutta la forza di un pensiero che ha preteso di coincidere con i percorsi della vita. Pensiero e vita, così strettamente intrecciati, così esigenti, così necessitati a rispettarsi, a essere coerenti, l’uno con l’altra. Ricorda Lonzi, dalle pagine di Zapperi, a sua volta critica d’arte: “Il femminismo è stata la mia festa”. E allora queste pagine ricostruiscono con passione una scoperta sorprendente, nel maturare di parole capaci di celebrarla, provando allo stesso tempo a capire se esiste un trait d’union tra la formazione e l’attività professionale di Lonzi e la sua piena manifestazione politica nel femminismo.
Scrive Giovanna Zapperi, nell’introduzione:
“Carla Lonzi è stata una critica d’arte, femminista, scrittrice e poetessa italiana. Scrivo queste parole e già mi rendo conto quanto queste definizioni rischino di essere inadeguate a descrivere il percorso di una donna che non ha mai smesso di lottare perché la sua vita non fosse ridotta a un insieme di ruoli, di categorie e di identità”.
Disfare, perciò, ruoli “che collegava alla sua oppressione, nel tentativo di connettere la sua impresa soggettiva a un’impresa collettiva”. Rendersi autentica, distaccandosi dal proprio contesto professionale e culturale per elaborare “una propria personale versione del femminismo”.
Ci racconta, Zapperi, della doppia vita di Carla che nel 1969 abbandona il mondo dell’arte e della critica d’arte dopo la stesura del testo Autoritratto, nel quale aveva raccolto 14 conversazioni con artisti dell’epoca (una sola donna tra loro, Carla Accardi). Il lavoro su Autoritratto, nota Zapperi, già mette in luce una sensibilità che passa attraverso “l’invenzione di una scrittura basata sulla soggettività, sulla partecipazione”, e da un desiderio “anti-disciplinare e indisciplinato”, “antiaccademico”, desiderio di “una pagina che non sia una pagina” “di un testo che porti traccia dell’immediatezza della condivisione”. In realtà, Lonzi va perfezionando, pur tra contraddizioni, la convinzione che l’arte sia implicata in un rapporto sociale dove è impossibile creare relazioni autentiche e sperimentare forme di vita basate sul riconoscimento reciproco. Da lì comincia a spostare la sua ricerca politica di autenticità e autonomia verso il pensiero e la pratica delle donne, verso l’emergere di una nuova soggettività femminista.
Così, dal 1970 si dedica al femminismo, in un’impresa totalizzante, fertile e febbrile, che cambia di segno alla sua esistenza. Cerca soprattutto di connettere la sua esperienza soggettiva a un’opera collettiva, un processo creativo basato sulla pratica dell’autocoscienza e sulla scrittura: il gruppo è l’unico luogo in cui è possibile “divenire soggetto”, strappandosi a rapporti di forza patriarcali ed eterodiretti.
La storia non può essere pensata in termini lineari, il divenire femminista di Carla Lonzi è il culmine di una attualità creatrice, “in cui passato e presente si ricompongono in una nuova configurazione”. Lonzi allora contrappone il presente ai grandi sistemi interpretativi dell’uomo (da Hegel, a Marx, da Freud al leninismo), tutti proiettati verso il futuro. “Il presente è il tempo del femminismo”, scrive Zapperi, scarto temporale rispetto alla dominazione maschile che permette finalmente alla donna di pensarsi come soggetto storico. Si sputa su Hegel, sulla dialettica servo-padrone, sulla dicotomia tra struttura e sovrastruttura. Per Lonzi diventa sottrazione “al credo patriarcale”, attraverso una teorizzata deculturizzazione:
“La nostra forza è nel non avere nessuna mitizzazione dei fatti […] L’umanità maschile si è impadronita di questo meccanismo la cui giustificazione è stata la cultura. Smentire la cultura significa smentire la valutazione dei fatti in base al potere” (Sputiamo su Hegel, 1970).
Nell’ottica di fondarsi su un presente decolonizzato, si inquadra anche la riflessione di Lonzi sulla sessualità femminile, sul corpo e sul piacere: il futurismo riproduttivo, la sessualità rigorosamente procreativa che l’uomo ha disegnato per la donna, moglie e madre, è in realtà una forma di occupazione del corpo e della mente femminili. Il piacere clitorideo si pone come momento creativo e autonomo, essenziale per la costruzione del sé come soggetto. Allo stesso modo il ricorso a una lingua e a immaginari interamente declinati al femminile, non oggettivati e oggettivanti, crea lo spazio dell’autonomia, intuendo che “il momento del cambiamento è l’unica poesia” come scriverà Adrienne Rich. La qualità espressiva, spesso evocativa e poetica, della scrittura femminile, viene da un altro mondo e perciò usa altre parole, la modalità dialogica e introspettiva non è espediente ma essenza del soggetto imprevisto, un soggetto che pensa, parla e agisce al di fuori dagli schemi maschili della società.
Naturalmente, la forza di rottura del discorso di Lonzi e di Rivolta Femminile si inquadra in un preciso momento storico, gli anni Settanta, laddove si rafforzano, da un lato, i legami tra vita e politica, tra vita e sapere, dall’altro, si smontano i limiti tra individuo e collettivo, ovvero tra realtà e immaginazione. E dunque va tanto più segnalata l’importanza attuale di questo libro per le riflessioni e le domande che consegna al presente e che possono essere raccolte, a mio avviso, in due filoni principali: il rapporto tra soggettività e collettività; il sistema contemporaneo della produzione sociale e il paradigma dell’artista e del lavoratore creativo-cognitivo.
Nel libro si fa strada una interpretazione non convenzionale di Carla Lonzi, oggi di straordinaria consistenza: Zapperi individua una linea di continuità tra la critica che Lonzi muove all’organizzazione della vita incentrata sul lavoro a discapito delle relazioni, e l’elaborazione e la pratica politica elaborata con Rivolta femminile che rimanda a una visione radicalmente alternativa dell’esistenza. Ha tentato di pensare una pratica artistica – e della critica d’arte – che corrispondesse alla vita vissuta. Ha pensato l’arte come “tecnica di vita”, ma si accorge che l’artista resta inchiodato all’opera d’arte e ai suoi valori, alla sua identità, al suo “lavoro”. Agli occhi di Lonzi, l’artista emerge come il più alienato dei lavoratori, “proprio per la straordinaria coincidenza tra il proprio essere e la propria attività”, analizza Zapperi, che aggiunge: “L’artista incarna perfettamente il paradigma del lavoro contemporaneo, individualista e competitivo”.
Cosicché, il femminismo è per Lonzi il luogo dove è possibile dare consistenza a un diverso rapporto tra arte e vita, sperimentando in concreto che esistono altre modalità, cioè altre forme dell’elaborazione e dell’espressione, che sono politiche e che sono condivise. Matura la convinzione che sia possibile sottrarre le relazioni al meccanismo della competitività della produzione, essendo con ciò precisamente creative e rivoluzionarie. La ricerca frustrante condotta nel mondo dell’arte, la fine della sua storia con Pietro Consagra, che consegna a un lungo dialogo proprio sui temi del lavoro produttivo dell’arte e del tempo improduttivo dell’amore, la indicono a traslare altrove quelle tensioni, cioè il tema irrisolto del rapporto tra privato e pubblico: la risposta, lo sbocco di quelle domande che premono avviene tra le donne, le quali condividono con lei l’immaginazione di un nuovo modo di stare nel mondo, libero dai condizionamenti legati al riconoscimento sociale. Osserva Giovanna Zapperi:
“Il desiderio di Carla Lonzi di essere amata per la sua autonomia e non per il suo servizio offre una alternativa radicale all’idea dell’amore come mera funzione dell’organizzazione patriarcale e capitalista della produzione. La critica del lavoro riproduttivo si allarga al rifiuto del lavoro come unica forma di vita possibile”.
Tutto ciò è enunciato precisamente nel primo Manifesto di Rivolta Femminile:
“Detestiamo i meccanismi della competitività e del ricatto che viene esercitato nel mondo dalla egemonia dell’efficienza […] Riesaminiamo gli apporti creativi della donna alla comunità e sfatiamo il mito della laboriosità sussidiaria. Dare alto valore ai momenti improduttivi è un’estensione di vita proposto dalla donna”.
In un momento come questo, fondato sulla dequalificazione dei saperi e sulla precarizzazione, il percorso di Lonzi, indagato osservando quanto il processo del divenire soggetto sia radicalmente opposto agli imperativi prestazionali del capitalismo, conferma che è impossibile ottenere e rappresentare un’immagine autentica (rispettosa) di se stesse/se stessi senza che la dimensione personale si intrecci con un contesto collettivo. Nella crisi odierna degli ambiti collettivi, noi scrutiamo la drammatica crisi del soggetto stesso, impossibilitato a diventare tale davvero, ridotto a ombra, fragilissimo, colonizzato dalla capacità penetrativa del capitale. La lotta darwiniana che veniamo costretti a ingaggiare rischia di generare non la fine del nostro/a supposto “rivale”, bensì, a ben guardare, la nostra.
La ricostruzione preziosa di un percorso così inciso ante litteram, consente allora di riflettere sulle forme del potere e sulle modalità della produzione culturale, intellettuale, sociale contemporanea. Lonzi anticipa un’insofferenza per contesti che non le consentono di esprimere rotture. Sente di essere costretta a subordinare se stessa a ritmi, posture, riconoscimenti, reputazioni, convenzioni che non le appartengono. Guardando a lei, che dire allora di noi, oggi, immerse come siamo nella retorica della “innovazione culturale e sociale”? Quali tipi di messaggi ci consegna Lonzi, attraverso questo libro di Zapperi? Come declinare il suo discorso, adesso che la riuscita nella vita pubblica è stata esplicitamente imposta come modello di soggettivazione? Oggi che la produttività sociale sembra imporsi sulla vita, si mangia la vita, subordinando a essa ogni altro rapporto? Quanto influisce tutto questo sulle forme della resistenza (ancora una volta, sul rapporto tra soggettività e collettività)? Quanto finisce per ricondurci dentro la normalità dei ruoli, delle funzioni, delle finzioni, dei modelli, l’inevitabile accettazione, che promette di esaudire il desiderio di essere viste, ma anche, più prosaicamente, di sopravvivere? – mentre in realtà ci fiacca, e a poco a poco ci spegne…
Quale, insomma, il rapporto attuale tra l’intelletto generale immerso nella fabbrica sociale, il soggetto imprevisto, le possibilità di un’opera che sia davvero viva?
Giovanna Zapperi scrive, alla fine del suo testo, presentando le opere di una serie di artiste che hanno provato a declinare oggi, sulla scia dell’ispirazione di Lonzi, l’intreccio tra arte, femminismo, creatività e partecipazione: “È in gioco la possibilità di rendere operativa una riflessione che non ha mai cessato di interrogare la creatività come pratica trasformativa, dentro e fuori i confini dell’arte”.
Ribaltare la cultura identitaria e ritrovare una pluralità radicale: ecco il primo passo da fare, facendoci ispirare dalla scelta politica di Carla.