Di Anna Simone
Chi ha avuto modo di avere tra le mani il famoso compendio di Cesare Lombroso e di Guglielmo Ferrero “La donna delinquente, la prostituta e la donna normale”, peraltro riedito da poco, sa anche che sinora la letteratura criminologica e socio-giuridica non aveva ancora avuto a disposizione una contro-storia, altrettanto onnicomprensiva, corredata da una mole magnifica di materiale empirico (perizie psichiatriche, esami somatici, cranometrie e cartelle cliniche) di quella stagione positivistica. Un materiale cercato con cura e attenzione presso il fondo dell’ex manicomio di San Benedetto in Pesaro, letto e studiato per rovesciare quel famoso “discorso dell’800” restituendo storie di vita e dignità di soggetto ad una donna in primo luogo, Maria F., e a tante altre vite “minori” dimenticate negli stessi archivi o raccontate al presente attraverso griglie di notiziabilità del crimine, o più semplicemente di condotte ritenute a priori anormali, dai mezzi di comunicazione di massa. Questo immane lavoro ora c’è e ce lo ha regalato una ricercatrice irpina dell’URIT, un gruppo di ricerca diretto da Antonello Petrillo presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.
Quello di Stefania Ferraro, “La semimbecille e altre storie. Biografie di follia e miseria: per una topografia dell’inadeguato”, appena edito da Meltemi (pp. 367, euro 28) è, dunque, in primo luogo un contro-compendio straordinario atto a ridisegnare in diacronia e sincronia, al passato e al presente, dentro e fuori le vite delle dirette e dei diretti interessati, una storia sociale della follia e della miseria in grado di intersecare tutto: epistemologia, biografie, mutamento sociale, crisi del welfare contemporaneo e costruzione sociale della “vittima”, sapere critico e posizionamento femminista. Come se l’autrice, con la sua scrittura narratologica che arriva dritta a cuore e coscienza, abbia ad un certo punto deciso di far incontrare Michel Foucault, Pierre Bourdieu, Robert Castel, Erving Goffman, la stessa criminologia positivistica e molti altri con Maria F. –denominata “semimbecille” dal dottor Piazzi, lombrosiano di Ferro agli inizi del ‘900- e mille altre vite di uomini e donne “infami” e, contemporaneamente, fare in modo che lei stessa incontrasse e vivesse con le storie di vita di questi attori sociali condannati dal potere psichiatrico, medico, politico, al passato e al presente, per restituircele dando a loro e a noi la possibilità di dire la verità sul potere. Una sociologia della devianza materialissima, femminista e, al contempo, in grado di fornire un quadro completo, empirico, epistemico su come le teorie dell’etichettamento e la violenza di una forma di esclusione sociale cruda e violenta -con le donne in primis, ma anche con gli uomini- passasse, praticamente inosservata, allora come oggi.
La ricchezza epistemologica del volume si innesta, come dicevamo, tra il “discorso dell’800” delle scienze medico-psichiatriche, della criminologia e della “statistica morale” con quella che oggi potremmo definire come “colonizzazione delle neuroscienze” in tutti gli ambiti delle scienze umane e sociali, con l’intento più o meno esplicito, di azzerare tutto il sapere critico che le stesse scienze umane sono andate stratificando a partire dagli anni ’70. Il “biologismo”, d’altronde, non è solo tratto costitutivo della criminologia positivistica di fine Ottocento, ma costituisce traccia e segno imperante di molte metodologie di indagine penale, primo fra tutti il profiling, così come format televisivi a sfondo giallistico e struttura stessa del processo penale, gran parte del senso comune. Quante volte oggi una donna per essere creduta deve innanzitutto essere difesa da accuse sommarie relative ai suoi stati d’animo o alle sue condotte sessuali sempre centrate sulla partitura donna perbene/donna permale? E allora Maria F, moglie, madre, mai donna, molestata dal suocero ripetutamente, quando ammazza quest’ultimo diventa un caso di “semimbecillità”, diventa “sciatta”, affetta da “pazzia morale”, “impulsiva e affetta da demenza precoce”, “quasi cretina”, “irritabile”, anziché solo rea di aver commesso un omicidio punibile con il carcere e non certamente con l’esperienza, che la condurrà alla morte, del manicomio criminale. La storia di Maria, che Stefania ricostruisce con attenzione e lucidità, dimostrando come le molestie del suocero non verranno mai annoverate come il vero movente del suo atto a fronte del bisogno sociale di etichettarla come “pazza”, in realtà è anche e soprattutto una storia paradigmatica di un altro concetto che ha prepotentemente determinato il contesto culturale sulle modalità attraverso cui etichettare alcune condotte femminili.
Pensiamo, ad esempio, all’enorme successo riscosso dalla figura dell’isterica nella letteratura medica. Qui Stefania Ferraro ci regala davvero memorabili pagine di ricostruzione degli effetti prodotti dall’uso del concetto come stigma e come “oggetto” del sapere sulle donne, e sulla Salpêtrière di Parigi, angusto luogo presso cui venivano rinchiuse prostitute, donne dei più bassi strati sociali, vagabonde che Charcot studiava come fossero bestie rare da laboratorio. “L’isteria –scrive Ferraro- connessa ai dispositivi di gestione del sesso –sia attraverso il rimando alla dimensione organica e quindi all’utero, sia attraverso la descrizione di istinti sessuali innaturali- rientra nei processi attraverso i quali il potere rivendica a sé, con la legge, il desiderio”. Il desiderio, ovvero quello spazio dell’indicibile oppresso che la stessa isteria genera e scardina in positivo trasformando la stessa, come sapientemente riportatoci anche da Foucault, in un “dire la verità sul potere”.
Tutte queste singole storie negate, che in questo libro emergono in tutta la loro tragica forza, sono sempre posizionate dal lavoro di scavo etnografico che la nostra ricercatrice compie ricostruendo per ogni vicenda il contesto sociale, spaziale, temporale, e allora emerge che tutte queste vite hanno anche a che fare con la miseria e la povertà. La seconda e la terza parte del volume, altrettanto potenti, mirano ad affrontare il tema del post-manicomio, prima nel contesto del welfare e poi nel contesto della liquefazione del medesimo: un mondo fatto di nuovo di saperi esperti che criminalizzano meno, ma de-soggettivano comunque i vissuti e le esperienze perché l’etichettamento, lo stigma e l’esclusione avvengono per eccesso di pietas, come spesso accade se si utilizzano i parametri della “vittimologia”. Il post-manicomio, nell’era tardo-liberale e neoliberista poi, in effetti, procede secondo il principio –individuato bene da Franco Basaglia- della “psichiatrizzazione della società” che si acuisce, senza misura, se associamo la perdita di riferimenti, la désaffiliation (Castel) all’aumento progressivo delle condizioni di miseria, povertà e scomposizione del lavoro.
Il volume è anche corredato da una prefazione di Antonello Petrillo che richiama Bourdieu sulle miserie di “condizione” e le miserie di “posizione” all’interno della crisi del welfare e una post-fazione più centrata sull’uso e il senso delle biografie nel lavoro sociologico e antropologico firmata da Laura Faranda. Ed è proprio su quest’ultimo punto che intendo soffermarmi ancora un po’: cosa può voler dire oggi fare ricerca e scrivere un volume dall’ampio respiro sociologico e socio-giuridico a partire dalle biografie? Nel femminismo la pratica del partire da sé non è mai stata un tornare a sé o un anteporre il proprio “Io” individuale dinanzi alla società e ai suoi dispositivi –come molta vulgata tende a far credere-. Semmai è sempre stata una postura, un gesto, utile per produrre un taglio con tutte le rappresentazioni del sé e del linguaggio ideologico-astratto del potere, un modo per far emergere con forza la parola del cosiddetto “soggetto imprevisto”: le donne, in questo caso. Ecco, quando Stefania Ferraro parla nell’ultimo capitolo di questo libro della sua necessità di restituire alcune biografie comuni (nel libro ci sono anche Mario, Titina, Liliana e altre, altri) per tracciare le linee di una “topografia dell’inadeguato” non ci sta dicendo, banalmente, che al mondo esistono i carnefici e le vittime, i sommersi e i salvati, i ricchi e i poveri e via dicendo. Questo lo sappiamo tutti. Il suo gesto è infinitamente più raffinato e importante perché l’autrice ci dice che il soggetto imprevisto c’è sempre non come “vittima” di un sistema, ma come parola attraverso cui dire la verità sul potere, come corpo che resiste o , come lei sostiene, come incapacità –talvolta persino scelta- di adeguarsi all’adeguabile, ovvero ad un mondo incapace di stare sul gesto autentico della relazione e del desiderio. Esattamente come quando la parola si inceppa e, proprio perché si inceppa, sa parlarci, sa dirci cosa non direbbe mai se parlasse a raffica, se comunicasse senza significare. Un libro molto importante, insomma, anche e soprattutto per chi volesse approcciarsi al femminismo giuridico dal fronte criminologico critico. Grazie davvero a Stefania Ferraro.