di Xhejn Xhindi
Abstract
All’interno dei quadri teorici condivisi dagli Science and Technology Studies (STS) e dai nuovi materialismi, i quali non si limitano a criticare la scienza dominante, ma tentano di districare il modo in cui produce la cosiddetta verità scientifica, le tecnologie del corpo in generale e le tecnologie riproduttive in particolare portano una specifica ambivalenza. Le tecnologie di controllo delle nascite ne sono un esempio, dove la stessa tecnologia viene descritta portatrice sia di una genealogia oppressiva, sia di un potenziale di liberazione. In ogni caso, diversi approcci nascono da questa ambivalenza. Questo scritto tenta di esplorarne due: uno è quello della scienziata femminista e studiosa STS canadese Deboleena Roy che, nel suo libro Molecular Feminisms. Biology, Becomings and Life in the Lab (2018) suggerisce che un approccio femminista al lavoro al banco di laboratorio crea tecnologie del corpo diverse e migliori, posizionandosi quindi all’interno delle cosiddette politiche ontologiche. L’altro è quello di Laura Tripaldi, ricercatrice transdisciplinare italiana che, nel suo libro Gender tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne (2023) utilizza la storia della tecnologia come strumento per illuminare meglio l’ambivalenza interna delle tecnologie contracettive, in modo da stimolare un’ampia riflessione politica pubblica. Situandosi entrambe nell’ampio campo dei nuovi materialismi, le due studiose partono dallo stesso problema, ma si rivolgono a pubblici differenti e hanno obiettivi differenti, ingaggiando di conseguenze metodologie diverse. In questo modo, una lettura corale delle due ci aiuta a visualizzare parzialmente la molteplicità di livelli su cui l’ambivalenza delle tecnologie agisce, formulando così uno sfaccettato problema epistemologico, ontologico e politico.
La produzione di oggetti nelle realtà materiali che viviamo eccede ogni semplice categorizzazione. La proliferazione di ibridi – entità né naturali né artificiali – ha scosso il tessuto ontologico su cui si è formata l’identità moderna come una corsa agli armamenti scuote gli assetti geopolitici attraverso le guerre. Una volta costruite le armi, ovvero, una volta messo in moto un concatenamento di relazioni materiali e virtuali tese verso la guerra, è impossibile – o, meglio, storicamente inedito – un disarmo pacifico. In altre parole, alla produzione di armi segue una loro effettiva scarica sui territori prontamente resi sacrificabili. Allo stesso modo, l’età moderna si è contraddistinta per la produzione senza tregua di oggetti di laboratorio, su cui i moderni credevano di poter mantenere il controllo. Quello che si è dato, invece, è un loro eccesso dai laboratori, così come dai canoni già ristretti della filosofia. Questo eccesso è stato talmente incontrollato da imporsi in ogni luogo sul modo in cui si pensa – quanto del proprio senso comune si forma sui social?; si agisce – su quanti farmaci diversi si regge il sentimento di sicurezza garantito dall’avere una routine?; e si esiste come corpi estesi – misurare le sostanze sintetiche che attraversano (e si fermano) nel nostro organismo basterebbe per decretare l’avvento dell’Antropocene: sfogliare i nostri tessuti molli è molto più facile, del resto, che scomodare gli strati geologici della Terra. Mentre, però, pensare al mondo con le armi sembra poco desiderabile, al contrario, molte voci ingaggiate nel pensare con gli (altri) oggetti di laboratorio – batteri, ormoni, protesi, computer, cellule… – si sono impegnate nel dispiegarne la poliedricità, al di là di ogni facile condanna o entusiasmo. Che questo sia avvenuto a causa di una presa di coscienza della realtà già attuale di tale proliferazione; o di una sorta di fiducia teleologica nel progresso degli artefatti umani e più-che-umani, ovvero della tecnologia, non è semplice dirlo. In ogni caso, l’esercizio di pensare con gli ibridi è stato indicato da più parti come una necessità storica.
Il concetto di ibrido, così come quello di eccedenza e ambivalenza, risulta particolarmente calzante per le tecnologie riproduttive: come scrive Melinda Cooper, «dove finisce la (ri)produzione e dove inizia l’invenzione tecnica, se la vita è messa al lavoro al livello cellulare o microbiologico?»[1] (Cooper, 2008, p.8). Questa citazione appare nell’introduzione del suo libro Life as Surplus. Biotechnology and Capitalism in the Neoliberal Era dove, non a caso, l’autrice testimonia lo stretto legame tra la proliferazione di ibridi e il progetto neoliberista di investimenti nelle biotecnologie durante gli anni ‘80 di Reagan. Tramite questa contestualizzazione imprescindibile è utile quindi rilevare che la necessità di pensare con gli oggetti di laboratorio si è posta contestualmente ai luoghi dove più venivano prodotti, formulando un tessuto teorico ancora oggi pieno di vita: dai nuovi materialismi agli Science and Technology Studies, passando per le epistemologie femministe e decoloniali, molte delle riflessioni sulla scienza sono maturate nel contesto accademico – e non – degli Stati Uniti e del Nord America. Queste ultime sono nate anche a causa di una evidente ambivalenza che vede, ad esempio, negli stessi anni, tanto lotte femministe contro le nuove biotecnologie, considerate dannose ed oppressive; quanto la profezia ottimistica della liberazione dall’oppressione di genere grazie alle tecnologie del corpo, come testimonia il celebre testo del 1970 La Dialettica dei Sessi di Shulamith Firestone. Il concetto di ambivalenza, non a caso utilizzato diffusamente nel libro Gender tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne (2023) dalla sua autrice Laura Tripaldi. Ricercatrice interdisciplinare italiana che scrive nell’ambito dei nuovi materialismi, Tripaldi restituisce una proprietà delle tecnologie che aiuta a comprendere com’è possibile che intorno ad uno stesso oggetto, pur dentro premesse concettuali apparentemente condivise, come nel quadro dei femminismi, si siano prodotte posizioni tanto divergenti. A questo quesito si rifà anche Deboleena Roy, microbiologa canadese con origini bangladesi che nel 2018 pubblica Molecular Feminisms. Biology, becomings, and life in the lab. Qui, utilizzando la nozione di “costruttivismo rischioso” (risky constructivism) di Isabelle Stengers, sottolinea l’importanza di non abbandonare le scienze come campo problematico, ma di «imparare a prendersi rischi nella ricerca scientifica e cercare momenti di perplessità comune con altri (più tradizionali) scienziati» (Roy, 2018, p.83).
Nel tentativo di evitare la polarizzazione che vede entusiasmo cieco della scienza da una parte, o sua totale critica dall’altra, ma da entrambe le parti nessuna effettiva messa in discussione delle sue specificità, molte pensatrici hanno quindi cominciato a invitare a problematizzare la scienza dall’interno dei suoi laboratori. I nuovi materialismi nascono anche a partire da questo sforzo portato avanti da figure che rompono gli antipodi, mettendo insieme il praticare le scienze e il praticare i femminismi in una nuova posizionalità di ricerca (come testimoniano, ad esempio, Donna Haraway, Evelyn Fox Keller e Karen Barad). Si tratta di un incontro di traiettorie teoriche che partono tanto dalle riflessioni femministe sulla questione del corpo quanto dalle riflessioni femministe materialiste sulla scienza, volte alla messa in discussione del determinismo biologico nelle scienze e dei dualismi di genere nella società. Queste traiettorie hanno preso vita, tra le altre, in una rilettura femminista di Deleuze&Guattari, promossa da autrici come Claire Colebrook, Elizabeth Grosz e Rosi Braidotti, che è risultata fondamentale per pensare alla materialità in quanto processi. È in questo ampio contesto di pensiero che si situano, anche se in modi diversi, sia Roy che Tripaldi, popolando lo spazio multidimensionale della tecnologia con preoccupazioni divergenti, ma strettamente interrelate.
Mettendo al centro le istanze dei movimenti femministi statunitensi sulla salute riproduttiva, Roy sottolinea la centralità di riportare queste istanze sul piano molecolare della ricerca di laboratorio. Questo obiettivo contribuisce a delineare uno sforzo teorico che si può articolare su due piani principali. Da un lato, si tratterebbe di produrre una scienza più legata agli interessi del femminismo, in grado di migliorare in modo diretto le condizioni in cui versano i corpi minoritari, come nel caso della creazione di tecnologie riproduttive con effetti collaterali meglio studiati e dunque ridotti. Dall’altro lato si tratterebbe invece di valutare l’importanza ontologica della ricerca di laboratorio, laddove l’incontro tra le istanze femministe molari con le politiche molecolari porterebbe alla costruzione, o “scoperta”, di un tessuto ontologico differente. Anche in Gender Tech (Tripaldi, 2023) le tecnologie riproduttive occupano un posto centrale, dove l’autrice propone una ricostruzione storico-genealogica in forma divulgativa di alcune tecnologie del corpo divenute di massa. Questo approccio, che vorrebbe fare uno «studio materialista delle tecnologie di genere» (p.77), permette di ampliare lo sguardo e seguire le tracce che, dal laboratorio, giungono fino a dibattiti pubblici di ampia portata, i quali hanno un’influenza diretta sui corpi e sull’epistemologia collettiva. Scrive Tripaldi:
Quando parlo di “materializzazione” mi riferisco invece alla collettività di processi storici, culturali, ideologici, biochimici e mediatici che ci permettono di tracciare i contorni di quello che impariamo a riconoscere come “un corpo”. Come le storie delle tecnologie di genere hanno illustrato più e più volte, nessun processo di materializzazione e di per sé buono o cattivo, reazionario o rivoluzionario. Le conseguenze oppressive e violente di queste materializzazioni sono sempre il risultato di un’operazione di occultamento, in cui il risultato di un processo tecnologico viene naturalizzato e privato della sua profondità materiale, storica, culturale e politica (p.112).
Tramite quindi la relazione tra gli approcci di Roy e Tripaldi vorremmo proporre uno sguardo situato dell’ambivalenza delle tecnologie nei nuovi materialismi, che restituisca la difficoltà, ma anche la potenziale ricchezza, dell’ambiguità del loro ruolo nello snodo tra ontologia, politica ed epistemologia.
Molecular Feminisms ha innanzitutto il pregio di contestualizzarsi subito in una vasta, ma ben delineata letteratura. Non si tratta solo di un esercizio accademico: i suoi sforzi sono rivolti a fornire un contesto teorico saldo a chi cerca di praticare la scienza in quanto femminista e chi cerca di praticare il femminismo in quanto scienziata (Roy, 2018, p.12). Il campo ontologico e politico della proposta di Roy è dunque il banco di laboratorio: non è sufficiente, infatti, rivedere in chiave femminista le teorie biologiche già consolidate; lo sforzo principale consiste, in questo caso, nel «supportare il rientro delle femministe dentro il laboratorio per la produzione di nuove teorie biologiche» (p.135). Rifacendosi strutturalmente a Deleuze&Guattari, Roy utilizza i concetti di politica molare e molecolare per affermare che la politica molare dei movimenti sociali femministi può e deve condizionare la politica molecolare di laboratorio, ovvero il perché e il come si agisce a livello microbiologico, che cosa si ricerca, gli interessi di chi vengono portati avanti, verso la produzione di quale tipo di conoscenza si sta andando. Questo movimento che attraversa il molare e il molecolare, mettendoli in relazione tramite un continuo cambio di scala, è un approccio non estraneo a Tripaldi, soprattutto quando in Menti parallele (Tripaldi, 2020) ci invita ad immergerci nella struttura molecolare della realtà per imparare dall’intelligenza dei materiali. Con un gesto simile, Roy contestualizza la nascita stessa della biologia molecolare come debitrice dell’intelligenza dei batteri, soprattutto della loro capacità di “scrivere”, ovvero di trascrivere DNA e tradurre RNA, e di “fare sesso” (Roy, 2018, p.125).
Il movimento che Roy propone, ovvero il passaggio continuo tra molare e molecolare, si inserisce nel quadro concettuale deleuze-guattariano dei divenire. Questo, incontratosi con le istanze del femminismo, si trasforma in un «divenire-con» (Haraway, 2008): per Roy si tratta qui di un movimento che «disturba» l’assetto ontologico prestabilito, mettendo in discussione il paradigma stesso conoscente-conosciuto che abita le scienze “dure” (Roy, 2018, p.79). In questo modo si articola una biofilosofia che tratta la biologia come un evento e la biologia molecolare in termini di processi (p.39). Roy sviluppa il suo concetto di biofilosofia sul doppio filo della formulazione teorica e delle pratiche di laboratorio, servendosi della tecnologia del DNA ricombinante come esempio trainante della sua proposta. Questa tecnologia si basa su «processi di replicazione e ripetizione» in grado di innescare una «proliferazione di differenze» (p.134). Come suggerisce il nome, il DNA ricombinante si ottiene con tecnologie di ricombinazione che, clonando le molecole di DNA (ovvero replicandole fino a creare una popolazione di cellule con DNA identico) di un organismo esterno dentro un organismo ospite, è in grado di formare nuove sequenze non precedentemente presenti nel genoma. Riprendendo il legame deleuziano tra differenza e ripetizione, Roy sostiene dunque la potenzialità insita in questa tecnologia di far emergere nuove «esperienze, affetti ed espressioni». In questo contesto, quindi, la biologia sintetica porta con sé il potenziale del Corpo senza Organi, in quanto ciò che, con la sua stessa esistenza, impedisce ogni possibile categorizzazione trascendente della vita. Il legame tra pratiche scientifiche e quelle immaginative è qui fondamentale, laddove l’utilizzo di figurazioni in grado di suscitare immaginari alternativi è un ingrediente importante nel tentativo di utilizzare le pratiche scientifiche per costruire una conoscenza diversa. La posizione di Roy sulle tecnologie molecolari non riguarda un entusiasmo ingenuo, quanto la convinzione, marcata dalla sua esperienza, del fatto che le tecnologie utilizzate dalle femministe nel laboratorio siano in grado di produrre spazi di alterità e differenza: uno «cyberspazio» (p.156) in grado di produrre nuova conoscenza biologica desiderabile. Roy si rifà ad una esperienza specifica di laboratorio che l’ha coinvolta e da cui è scaturita la sua successiva formulazione teorica.
La ricerca che Roy riporta in Molecular Feminisms muove dalle preoccupazioni dei movimenti femministi per la salute, i quali sospettavano una certa minimizzazione degli effetti collaterali dei contraccettivi basati sugli estrogeni da parte delle case farmaceutiche – e dalle ricerche scientifiche da loro finanziate. Roy testimonia il lavoro di ricerca che ha svolto in un laboratorio di neuroendocrinologia, utilizzando tecnologie molecolari come la clonazionevolte a riconfigurare la conoscenza sulla relazione tra l’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH) sintetizzato dai neuroni dell’ipotalamo e gli estrogeni. La conoscenza tradizionale sui neuroni del GnRH, che formulava l’assenza di un loro contatto diretto con gli estrogeni, aveva portato, secondo Roy, al design di tecnologie riproduttive che venivano studiate soltanto nel loro effetto di regolazione sull’ovulazione e sulla menopausa, senza considerarne i possibili effetti neurologici. Il legame di Roy con la politica molare delle istanze femministe sulla salute riproduttiva sono state la spinta figurativa e immaginativa nel mettere in discussione un «milieu scientifico dove nuove relazioni tra certe molecole erano diventate inconcepibili, e i desideri volti a creare nuove zone di prossimità venivano messi da parte» (p.8). Portando questa spinta a livello molecolare, ovvero immergendosi nella ricerca di possibili effetti neurologici diretti degli estrogeni, Roy cercava qualcosa che potesse spiegare gli effetti collaterali dei contracettivi basati sugli estrogeni che le femministe denunciavano, ma che gli scienziati non consideravano. La ricerca presentata da Roy si conclude illustrando di fatto l’esistenza di un contatto diretto tra i neuroni del GnRH e gli estrogeni, laddove gli effetti neurologici degli estrogeni hanno finalmente dato la possibilità di giustificare a livello neuroendocrinologico gli effetti collaterali accusati. Secondo Roy, quindi, il legame tra molare e molecolare ha portato in questo caso ad un beneficio diretto per le istanze femministe e, allo stesso tempo, ha dato fiato ad una “rottura ontologica”:
Sapevo di aver assistito a una sorta di rottura ontologica che aveva spostato la mia concezione della materia da quella della fissità, della stasi e dell’essere a quella della flessibilità, del cambiamento e del divenire. Era come se una sera fossi andata a letto con una materialità in cui i recettori degli estrogeni non potevano essere avvicinati ai neuroni GnRH. La mattina dopo, mi sono svegliata con una materialità alternativa con nuovi siti di gioco e biopossibilità inesplorate per queste questioni biologiche [corsivo aggiunto] (p.10).
Vediamo qui dispiegarsi una politica ontologica tutta interna al laboratorio che ci permette di visualizzare come in gioco non vi sia solamente una politica molare in senso ampio, né una politica molecolare in senso stretto, ma una politica ontologica (Puig de la Bellacasa, 2017) dove si lavora direttamente per produrre una realtà diversa. In questo senso, l’appello di Roy di costruire «una conoscenza che le femministe desiderano [corsivo aggiunto]» (Roy, 2018, p.159) diventa la partita ontologica per costruire la realtà che le femministe desiderano. Scrive Roy:
Ancora una volta, questa scoperta dei recettori degli estrogeni di membrana può essere di particolare interesse per le femministe che si battono per la salute e la giustizia riproduttiva, in quanto gli effetti rapidi e diretti degli estrogeni possono contribuire a spiegare gli “effetti collaterali” a lungo osservati che molte donne sperimentano durante l’uso di contraccettivi e terapie a base di estrogeni. La scoperta degli ER nei neuroni GnRH e l’ulteriore scoperta di recettori per gli estrogeni accoppiati a proteine G sia nei neuroni GnRH che in altri tessuti del corpo, offrono alle femministe e ai biologi molecolari l’opportunità di raggiungere non solo uno, ma diversi oggetti di perplessità comuni (p.10).
Anche Tripaldi si concentra sulle tecnologie basate sugli estrogeni, partendo però dalla sua esperienza nel loro utilizzo, che restituisce un vissuto e una narrazione specifica del contesto italiano bianco etero-cis-normato dove il ruolo politico e sociale della pillola ne diventa infrastruttura. Un’infrastruttura ormai così indistinguibile dal proprio corpo da generare «paura» nel momento in cui ne si immagina l’interruzione dell’assunzione (Tripaldi, 2023, p.34). La paura generata dall’interruzione di una lifestyle drug consiste alternativamente nella sensazione di non poter essere più “in sé”, gettandosi in squilibri primordiali, e nel non poter essere più “produttive” senza un silenziatore artificiale della propria “natura” (pp.36-39). Possiamo in qualche modo leggere, anche in Gender Tech, il duplice problema della produzione ontologica – in che modo l’utilizzo di massa della pillola ha contribuito alla definizione del concetto di donna in quanto squilibrio biologico da curare? (p.34) – e del modo in cui la mancata partecipazione delle donne[2] nella produzione di conoscenza scientifica abbia generato tecnologie obsolete e poco desiderabili:
La ricerca di nuove tecnologie contraccettive più adeguate alle esigenze delle donne e con minori effetti avversi è stata quasi del tutto arrestata, concentrando gli sforzi sul rebranding di farmaci basati su una scienza vecchia di oltre cinquant’anni (ivi, p.38).
Questo è lo stesso motivo che spinge Roy a sostenere che le tecnologie molecolari utilizzate in pratiche scientifiche femministe possono contribuire a costruire una conoscenza più desiderabile: «Ho creato un resoconto femminista del cervello, articolandolo attraverso la biologia molecolare. (…) Ho avuto l’opportunità di affrontare le mie preoccupazioni sui problemi della giustizia riproduttiva ad un livello molecolare, che è il motivo per cui ho subclonato[3]» (p.158). Tuttavia, l’attenzione di Tripaldi si spinge più in là, allargando lo sguardo per visualizzare in che modo le politiche molecolari nel laboratorio e le istanze molari del femminismo si concatenano in modo spesso non prevedibile e non controllabile. La questione, infatti, si complica, se cominciamo a vedere che certo una postura femminista dentro il laboratorio può generare oggetti che le femministe desiderano, ma questo non cancella, per esempio, che «la pillola anticoncezionale (…) agisce come sostituto tecnologico coercitivo alla necessità di un’educazione alla sessualità consapevole e sicura» (p.36). Agire come sostituto di qualcosa è effettivamente uno dei ruoli delle tecnologie: come suggerisce Bruno Latour, una tecnologia non è altro che la concrezione materiale di relazioni sociali spesso invisibili (Latour, 2005). L’approccio materialista di Tripaldi è dunque utile per chiedersi che cosa la tecnologia va a sostituire e in che modo: si tratta di una questione imprescindibile e trasversale, perché pertiene ad ogni possibile processo di posizionamento che non è prerogativa dell’agente trained[4], competente. Ne è un esempio il test di gravidanza domestico, oggetto oggi di uso comune che, con la relazione diretta tra persona incinta e supporto tecnologico, rimpiazza la precedente relazione tra persona incinta, esperto che fa l’analisi in laboratorio, e infrastruttura (tendenzialmente animale) che supporta l’analisi:
Il design di Margaret Crane, nella sua assoluta semplicità, non era soltanto un’interfaccia intuitiva di auto-diagnosi: il suo aspetto rivoluzionario consisteva nell’idea che le donne, senza avere alcuna formazione scientifica e senza la necessità di rivolgersi a un uomo più esperto, potessero riprodurre nell’ambiente domestico una procedura che, prima di allora, era stata vincolata a svolgersi dentro le mura dei laboratori scientifici. Riconoscere la legittimità del sapere ottenuto da questa procedura significava avere un’importanza tutto sommato limitata rispetto all’intelligenza contenuta all’interno della tecnologia stessa, una tecnologia che stava diventando sempre più autonoma rispetto alle istituzioni che l’avevano prodotta (Tripaldi, 2023, p.74).
Il quesito diventa, quindi, quali relazioni sociali e quale genealogia incorporate nella tecnologia vanno a costituire la sua propria, autonoma, intelligenza? Mentre lo sguardo di Roy è centrato sull’importanza strategica delle scienziate come produttrici di tecnologie desiderabili, l’esperienza corporea che Tripaldi propone passa dalla molecola all’organismo, dall’organismo al soggetto sociale, per individuare la molteplicità dimensionale su cui è incastonato l’oggetto tecnologico e quindi valutarne l’ambiguità. Il problema che si apre in Tripaldi riguarda quindi anche e soprattutto l’utilizzo di massa delle tecnologie, basato su una coproduzione di chi è competente e progetta le tecnologie, e di chi è incompetente e le utilizza e basta. In questo senso, chiedersi quanto una tecnologia può essere desiderabile è necessario, ma non sufficiente: la sua ambivalenza perdura dal momento in cui la sua presenza nel mondo non richiede che se ne abbia piena coscienza, al contrario: tanto più è invisibile, quanto più si costituisce come infrastruttura politica, ontologica ed epistemologica. Scrive così Tripaldi:
Se la pillola anticoncezionale è una tecnologia decisamente emancipativa, che ha concesso alle donne un controllo senza precedenti sulla loro fertilità, è stata ed è tuttora anche un dispositivo oppressivo, che evidenzia la criticità di qualsiasi intervento tecnologico che non sia sostenuto da una profonda presa di coscienza, scientifica e politica, delle sue conseguenze (p.39).
Il dispiegarsi materiale del farsi delle tecnologie che, «come cristalli, si condensano spontaneamente dal loro ambiente quando si realizzano le condizioni opportune» (p.47), permette di vedere nello stesso oggetto l’incarnarsi di traiettorie tra loro non coerenti e spesso teoricamente contraddittorie. Tripaldi riunisce in questo modo nella pillola istanze divergenti che si intrecciano: la prima sperimentazione umana su larga scala della pillola contracettiva, svolta a Portorico tra il 1956 e il 1959 da parte dell’azienda farmaceutica statunitense G.D:Searle; i corpi delle donne dei quartieri più poveri della capitale non messe al corrente della natura sperimentale del farmaco; le teorie neomalthusiane della destra statunitense, che addossava la responsabilità delle brutture del colonialismo alla natalità dei popoli colonizzati; le teorie progressiste statunitensi che, in modo altrettanto coloniale, sostenevano di salvare le donne nere dal loro destino riproduttivo; l’entusiasmo delle organizzazioni femministe portoricane che speravano di poter autogestire i propri corpi grazie alle nuove tecnologie, in opposizione nazionalisti e cattolici; l’attività contraria di questi ultimi, i quali, pur opponendosi alla pillola, erano parenti politici di quegli stessi conservatori statunitensi che invece la promuovevano tra le donne nere, con lo stesso gesto coloniale e patriarcale con cui si rifiutavano di dissacrare i corpi delle donne bianche con strumenti che potessero impedirne la fertilità (pp.41-42). L’ampiezza di sguardo della metodologia che Tripaldi ci propone si può affiancare quindi alla prospettiva di Roy, definendo un campo di indagine complesso e multiscalare. In questo quadro le agency si moltiplicano, in un regime il cui denominatore comune è sì la sistematica accumulazione di valore – strutturale alla produzione di corpi e terre sacrificabili – ma che non dà mostra di un protocollo unico di funzionamento e riproduzione. La proposta di Tripaldi si potrebbe dunque riassumere in un invito a visualizzare le relazioni sociali che la tecnologia va ad incarnare: laddove vi sono relazioni sociali patriarcali, capitaliste, e coloniali, anche la tecnologia che le incarna sarà tale, senza che si possa addossarle un’essenza e un’azione indipendente dal contesto in essa cui emerge. La proposta di Roy, invece, è di ripartire dalle pratiche scientifiche che danno vita alle tecnologie, per rompere quel ciclo che permette al sistema di relazioni sociali di autolegittimarsi grazie alle tecnologie che esso stesso produce, cambiando dunque le relazioni sociali a partire dal cambiamento nella produzione di conoscenza.
Roy vorrebbe dunque in qualche modo sciogliere l’ambivalenza propria delle tecnologie del corpo rifacendosi alle tradizioni di riappropriazione femministe che a partire dagli anni ‘60 hanno cercato di pensare ai corpi e alla biologia in modo differente, tramite approcci orientati alle pratiche. Ricostruendo l’esperienza delle cliniche delle donne che hanno lavorato per produrre nuove tecnologie di autoginecologia e nuove forme di conoscenza scientifica, l’attenzione viene riportata al campo in cui si afferma la consapevolezza della necessità di imparare a riconoscere che cosa criticare e che cosa invece utilizzare dalla scienza tradizionale (pp.72-73). Di nuovo, lo sforzo di Roy è quello di riportare l’ambivalenza delle tecnologie alle pratiche scientifiche stesse, partendo dalla consapevolezza che ciò che «studiamo in quanto biologhe, per esempio, o che cerchiamo di definire e poi regolare, non preesiste». Con Karen Barad, Roy afferma la «“costituzione reciproca delle agency interrelate”. Ciò che diviene “determinato” o conosciuto è il risultato di interazioni specifiche di un apparato» (p.74). Il problema delle tecnologie non può dunque separarsi dalle modalità del loro venire all’esistenza, modalità su cui si può intervenire attraverso l’azione dentro le pratiche stesse.
Tuttavia, il problema molare della scala che riguarda la scienza dentro un sistema capitalista globale rimane. “Cciò che le femministe desiderano” è qualche cosa di sempre situato e sempre legato ad un assetto sociale, economico, semiotico ed epistemologico specifico. Posto che anche solo all’interno del contesto dei Nord America sarebbe impossibile definire unitariamente che cosa “le femministe” desiderano, la faccenda si complica ancora di più in contesti dove le femministe desiderano qualche cosa di estremamente diverso dai luoghi dove i laboratori lavorano meglio finanziati ed equipaggiati e quindi in grado di produrre una rete più fitta e competitiva di conoscenze. Oppure, ancora più difficile diventa individuare che cosa desiderano tutte coloro che non verbalizzano i loro desideri all’interno del quadro occidentale dei femminismi[5]. Chiedersi che cosa i territori e le agency desiderano e portare questi desideri dentro le pratiche scientifiche è fondamentale oggi per pensare la scienza e le tecnologie. Allo stesso tempo, però, occorre rimettere al centro il fatto che non a tutte le agency desideranti è concesso di accedere alla produzione delle tecnologie e della conoscenza scientifica. Un approccio più legato alla genesi storica delle tecnologie ci aiuta a dispiegare il problema che concerne i luoghi che non hanno accesso alla produzione ontologica della realtà nei laboratori. Si delinea così una prospettiva differente, che consiste nel tentativo di prendere l’oggetto già prodotto e provare a modificare il modo in cui lo vediamo e ci relazioniamo ad esso, in modo da attivare in conseguenza a questo delle politiche differenti. Si tratta di una modalità diversa di fare mondo con gli ibridi, che emerge da necessità e contesti diversi. Come abbiamo detto, il pubblico a cui si rivolge Roy è quello delle scienziate femministe – e delle femministe scienziate –, dove l’obiettivo esplicito è quello di portare gli interessi del femminismo dentro i laboratori per condizionare la realtà della produzione di conoscenza in biologia. Il pubblico a cui si rivolge Tripaldi, invece, è un pubblico generico, tendenzialmente – ma non esclusivamente – non competente (trained) nelle discipline scientifiche. L’obiettivo di Tripaldi, diversamente da Roy, è quello di scomporre gli oggetti già esistenti per darne un resoconto più complesso, in modo da stimolare una altrettanto complessa e ampia riflessione politica:
La nascita della pillola fu insomma il risultato di una convergenza di conoscenze scientifiche, rivendicazioni sociali, politiche demografiche e conflitti geopolitici. Quale eco rimane di questo tumulto nelle molecole invisibili che la compongono? Raccontare la storia di un oggetto tecnologico non significa soltanto descrivere la cronologia della sua invenzione; significa provare a tracciare una mappa delle forze, materiali e immateriali, scientifiche e sociali, che hanno contribuito a dargli forma» (Tripaldi, 2023, p.47).
In Gender Tech, infatti, non è secondario che la genealogia storica delle tecnologie del corpo giunga ad un tentativo di mettere fortemente in discussione il modo in cui queste sono state utilizzate dalle destre italiane, e non solo, in senso oppressivo per i corpi femminilizzati o assegnati femminili alla nascita. Ne è un esempio la descrizione dell’ambivalenza dell’ecografia addominale (cap. 4: Ultrasuoni): da un lato strumento potenzialmente utile per garantire la salute e autogestire la riproduzione, dall’altro strumento utilizzato per sacralizzare la vita del feto, separandolo dal corpo che lo porta in grembo, per concentrare potere semiotico nelle tasche delle lobby anti-scelta. Possiamo quindi vedere all’opera politiche della conoscenza differenti: in Roy la partita si gioca direttamente nella produzione ontologica della realtà, mentre in Tripaldi si svolge invece nella scomposizione e riorganizzazione di una realtà ontologica già prodotta altrove. Questo ci permette di nominare, tramite un approccio situato ai nuovi materialismi, che cosa comporta la concentrazione di risorse e di saperi resa possibile dall’imperialismo politico, culturale ed economico del Nord America in particolare e dei luoghi più avanzati del capitalismo liberale del Nord Globale in generale. Occorre quindi precisare: imperialismo non è solo l’imposizione economica e militare di controllo e supremazia, imperialismo vuol dire anche monopolizzare e centralizzare il potere ontologico di produrre realtà. I laboratori sono centri di produzione ontologica del capitalismo globalizzato, dove oggetti e concetti venuti all’esistenza vengono poi imposti globalmente. In questo senso gli oggetti diventano scatole nere (black box)[6] che annientano la prossimità conoscitiva come zona relazionale tra corpi e territori, imponendo una delega passivizzante come unica modalità di esistenza delle tecnologie. Per questo motivo, per quanto possa essere vantaggioso produrre una conoscenza “che le femministe desiderano” dentro un laboratorio scientifico nordamericano, è importante mettere al centro la consapevolezza della parzialità degli interessi considerati, una consapevolezza che rende difficile anche solo immaginare “ciò che le femministe desiderano” come una realtà riconoscibile unitariamente.
Per Roy le STS sono un campo di studi che è in grado di rendere conto del portato capitalista e coloniale del sistema dentro cui si sviluppano le pratiche scientifiche, attraverso la produzione congiunta di una conoscenza dei dettagli specifici dei campi scientifici insieme «con un occhio alle strutture organizzative, istituzionali e politiche legate alla circolazione del potere» (p.120). Questo tipo di ricerca corrisponde all’avere consapevolezza ontologica del fatto che una certa tecnologia, come per esempio la scrittura dei batteri, è un evento sempre contestuale a «specifiche tradizioni e pratiche di produzione di conoscenza» (p.124). Attingendo alla letteratura postcoloniale e decoloniale, Roy afferma dunque che considerare le tecnologie come un evento permette di ricondurle ad un inquadramento epistemologico aperto a nuove forme di conoscenza. In ultima analisi, possiamo dire che per Roy il dispiegamento della questione rimane nel quadro di una problematizzazione tutta interna alla produzione di conoscenza, per cui produrre conoscenza decoloniale, ovvero legata ad un’analisi situata e contestuale delle tecnologie, permetterebbe di essere «consapevoli delle nostre responsabilità» riguardo ciò che ereditiamo (p.176). Questo significa anche considerare gli eventi tecnologici in relazione:
ai processi transnazionali del colonialismo e dell’imperialismo; (2) alle pratiche capitalistiche di produzione, consumo e mercificazione; (3) al lavoro di genere e di razza nella produzione e nella riproduzione e all’astrazione di questo lavoro; (4) alle forme neoliberali dell’individualismo e dell’imperialismo; (5) agli effetti della tecnologia su scala globale e locale (p.124).
Relazionare l’approccio cauto di Tripaldi, che vorrebbe ricavare uno spazio di rallentamento in cui si dà la possibilità di esercitare il dubbio, con l’attivismo fiducioso di Roy, che individua un potenziale quasi rivoluzionario nell’incontro tra politiche molari e molecolari, ci permette di abbozzare un ritmo di analisi. Intendiamo qui la necessità di stimolare un movimento del pensiero che sappia tenere insieme una forma di pragmatismo che agisce nell’immediatezza della produzione ontologica – una sorta di “abitare la catastrofe”, che impariamo con Haraway, Tsing e Stengers – insieme con un gesto di pausa e rifiuto in grado di dire: non esistono oggetti tecnologici desiderabili frutto di una genesi non desiderabile, laddove una genesi non desiderabile degli oggetti scientifici è la realtà attuale della scienza capitalista. Il dispiegamento materialista della storia delle tecnologie proposto da Tripaldi permette di visualizzare come la sacrificabilità dei corpi delle specie viventi, ovvero la loro sistematica tortura e uccisione, sia stata e sia tuttora l’infrastruttura fondamentale delle scienze[7]. Pensare con le pratiche scientifiche non deve nascondere questa parte, anzi, la sfida è proprio pensare con le pratiche scientifiche riconoscendo nella loro infrastruttura la pervasività dei danni che infliggono. È l’esercizio di vivere tra le rovine: pensare la realtà della coesistenza di eventi contraddittori e ambivalenti senza che questo crei un principio di esclusione epistemologica. Questo movimento di pensiero è in qualche modo presente in Molecular Feminisms, quando Roy racconta di una pausa, una sorta di momento di coscientizzazione che si impone nella sua routine, permettendole di visualizzare su quali meccanismi normalizzati si basava la sua ricerca in laboratorio:
Lo schema di crescita, divisione e morte volutamente inflitta che si verificava ogni tre o quattro giorni nella linea cellulare di neuroni in vitro con cui lavoravo creava una ciclicità temporale distinta (…) Proprio in quanto ero responsabile della progettazione di esperimenti con queste cellule, gli schemi di crescita e moltiplicazione di questi neuroni, e le loro secrezioni ormonali cicliche, hanno regolato la mia vita per anni. Quel giorno particolare, quando mi sono soffermata nell’aprire la porta dell’incubatrice, questo ritmo è stato interrotto, mentre il peso di diversi intrecci che non potevo continuare a ignorare si è fatto sentire (…) Questi intrecci includevano il riconoscimento della responsabilità per la pratica umana di sviluppare il cancro nei topi e di uccidere animali e cellule a scopo di ricerca (…) Credo sia importante riflettere su questa interruzione e considerare la possibilità che queste vite sintetiche possano non solo essere espressive, ma anche protese verso il mondo circostante (Roy, 2018, p.162).
Questa esperienza per Roy si trasforma nella consapevolezza di dover imparare dalle forme di vita studiate in laboratorio, le quali ci portano fuori dalle nostre comfort zones per cambiare il modo in cui agiamo e facciamo parentela (kinship, p.172). Come abbiamo visto, le tecnologie non sono separabili dal contesto in cui vengono all’esistenza: l’evento chiamato scrittura batterica, scrive Roy, non è separabile dal contesto politico ed economico di produzione, riproduzione e lavoro, laddove i batteri scrivono in quanto sono obbligati a scrivere da un contesto capitalistico di sfruttamento della loro intelligenza per fini umani e solo umani (p.125). Tuttavia, pur partendo da un presupposto meccanicistico di sfruttamento, è possibile riflettere su ciò di cui sono capaci i batteri in modo da «cambiare la nostra comprensione di alcune relazioni binarie dominanti come sesso/genere, biologia/cultura, e materia/linguaggio» (p.126). Possiamo dunque vedere in Roy una sorta di fiducia nel fatto che la politica ontologica è in grado di modificare l’assetto sistemico stesso su cui si sviluppa la scienza. L’obiettivo si sposta: non è più quello di conoscere e quindi dominare la realtà in senso positivista, ma di «riformulare» il nostro incontro con essa. Questa fiducia richiama un atteggiamento dello scienziato che è centrale in Stengers, quando ci parla della fede che il fisico ha nella possibilità della sua disciplina di avere accesso al mondo là fuori, alla verità (Stengers, 2010). Cambiati i presupposti epistemologici, questa fiducia in qualche modo rimane: in Roy, così come in altre autrici ingaggiate nelle ontological politics, è la fiducia accordata alla scienza di poter trasformare il mondo con la conoscenza. È una tensione virtuale che anima il telos della ricerca scientifica a partire dai suoi primi passi. La questione che si pone in Tripaldi invece è, in qualche modo, di prendere coscienza della realtà materiale attuale della tecnologia per ricavarsi lo spazio necessario per chiedersi se, effettivamente, voler accordare questa fiducia. È un passaggio ancora preliminare, un gesto di riappropriazione di un consenso mai del tutto chiesto e rispettato, una pausa nella naturalizzazione della nostra relazione con le tecnologie che può aprire spazio a forme inedite di riconfigurazione e messa in discussione. Per questo motivo, la questione non è soltanto imparare a pensare dentro o fuori i laboratori, ma problematizzare questa stessa divisione e chiedersi da quali dispositivi viene prodotta. Perché il rischio di parlare a nome d’altrǝ è sempre lì; mentre capire a nome di chi si parla, siano femministe o altre specie, è una faccenda sempre più complicata del previsto.
Bibliografia
Cooper, M., 2008. Life as Surplus Biotechnology and Capitalism in the Neoliberal Era. University of Washington Press, Seattle and London.
Haraway, D.J., 2008. When Species Meet, Posthumanities. ed. University of Minnesota Press, Minneapolis, London.
Latour, B., 2005. Reassembling the Social. An Introduction to Actor-Network-Theory. Oxford University Press, New York.
Latour, B., 1999. Pandora’s Hope. Essays on the reality of science studies. Harvard University Press, Cambridge Massachusetts.
Puig de la Bellacasa, M., 2017. Matters of Care. Speculative Ethics in More Than Human Worlds. University of Minnesota Press, Minneapolis, London.
Roy, D., 2018. Molecular Feminisms: Biology, Becomings, and Life in the Lab. University of Washington Press, Seattle.
Stengers, I., 2010. Cosmopolitics I. University of Minnesota Press, Minneapolis.
Tripaldi, L., 2023. Gender tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne, Tempi Nuovi. Laterza, Bari-Roma.
Tripaldi,
L., 2020. Menti parallele, Saggi Pop. ed. effequ, Firenze.
[1] Tutte le traduzioni dall’inglese in questo testo sono di chi scrive.
[2] Mentre Roy si affida all’utilizzo del termine “femminista” per indicare l’agency politica della sua narrazione, e parla di organismi, batteri e ormoni per indicare invece le agency biologiche, Tripaldi utilizza per lo più genericamente e universalmente il termine “donna”, senza giustificarlo a sufficienza.
[3] Roy tratta lungamente della possibilità di utilizzare tecnologie che i movimenti femministi hanno tradizionalmente avversato, come nel caso della clonazione, per produrre ricerche che invece rispondono alle necessità politiche delle stesse istanze femministe.
[4] Faccio qui riferimento ad un termine largamente utilizzato in Roy, ma non solo, per indicare il ruolo specifico dellǝ scienziatǝ in quanto competente.
[5] Basterebbe chiedersi, per esempio, che relazione c’è tra la Jineoloji curda con la scienza per impostare le stesse questioni in modi completamente diversi e lontani da ciò che, secondo Roy, le femministe desidererebbero.
[6] Una scatola nera si riferisce, nel contesto della sociologia delle scienze, ad un oggetto di cui sono visibili gli inputs e gli outputs, ma di cui non è chiaro il funzionamento interno. Nella scienza e tecnologia contemporanea, quanto più un oggetto ha successo nell’essere considerato vero per sé, tanto meglio nasconde la sua composizione interna in una scatola nera. Vedi (Latour, 1999).
[7] Ne è un esempio emblematico ciò che scrive Tripaldi: «L’espressione gergale inglese “the rabbit died”, utilizzata per riferirsi alla scoperta di una nuova gravidanza, nasce proprio dalla pratica di iniettare l’urina delle donne nel corpo dei conigli, che venivano poi sezionati per determinare l’avvenuta ovulazione. Tuttavia l’espressione è piuttosto imprecisa, perché il coniglio, indipendentemente dall’esito positivo o negativo del test, sarebbe comunque morto: davanti all’impossibilità di spalancare i corpi delle donne per osservare direttamente i loro meccanismi nascosti, lo sguardo scientifico si rivolgeva allora su altri corpi più “sacrificabili”» (Tripaldi, 2023, p.67).