di Alessandra Pigliaru
Si intitola Le imperdonabili il libro scritto da Laura Boella che nel sottotitolo specifica il soggetto – femminile plurale – della sua riflessione: Milena Jesenská, Etty Hillesum, Marina Cvetaeva, Ingeborg Bachmann e Cristina Campo.
Il libro, pubblicato nel 2000 per l’editrice mantovana Tre Lune, viene proposto ora per Mimesis in un’edizione ampliata. La nuova e ricca introduzione curata dalla stessa autrice spiega la ragione di questa scelta. In effetti non si tratta di un semplice ribadire ma una decisione ponderata che muove anzitutto da una domanda precisa: «che cosa significa essere imperdonabili, oggi?» (p. 17) Per dare conto della vicenda biografica e intellettuale che si è dipanata in questi tredici anni dalla prima pubblicazione, Boella ordina i fili del proprio ragionamento che l’hanno portata a riprendere parola su scritture di donne così incandescenti. Ci mette a parte del propagarsi del suo pensiero, nel momento della scoperta e dell’esperienza, condivisa con gruppi – filosofici e politici – di donne sia fuori che dentro l’accademia. Racconta in particolare della qualità delle relazioni che per prima ha praticato e che le sono state utili per adottare un metodo che dalla filosofia in senso tradizionale potesse aprire all’interrogazione di esistenze incarnate. Il passaggio è cruciale ed è un guadagno raro quando ci si occupa di scritture e pensiero delle donne. Insieme alle scrittrici individuate, si muove così la mappa dello stesso desiderio dell’autrice che – precisandosi – prende forma nella posizione di una risonanza autentica. In questo intrecciarsi di narrazioni, Laura Boella ci consegna il volto di un pensiero filosofico in divenire che sa cogliere – nell’incontro con l’altra – un ordito di cruciale importanza.
Oltre ad avere la comunanza con l’imperdonabilità, tutte le figure scelte hanno praticato la scrittura come modo di stare nel mondo. Boella segnala la non contemporaneità di ognuna di loro illuminando così la discrasia tra tempo e storia; apparentemente in contraddizione infatti stanno il vissuto e la testimonianza se non fosse che Jesenská, Hillesum, Cvetaeva, Bachmann e Campo assistono al proprio presente nella verticalità della carne; l’imperdonabilità è anche il non poter essere altrimenti da come si è. Stanno dunque tutte al centro di se stesse e al margine del perdono. Le cinque scrittrici si contraddistinguono per la passione della perfezione; apice di un vasto catalogo, è intesa come irreprensibilità di un compimento sia sul piano del pensiero che su quello dell’esperienza. I due piani non comportano scissione bensì rifrazione capace di mettere al mondo inedite forme del vivere in presenza. Quello della perfezione dunque è un patire e distillare tutte le parti del compimento, fino a tenere insieme il fuoco distruttore dell’eccentricità e il languore di assoluto. Le scrittrici che ci consegna Boella non sono imperdonabili per una condotta discutibile, piuttosto per un margine mai risarcito che ne ha decretato la lontananza. Dentro e dietro la stoffa della loro esistenza si agita tuttavia una forza desiderante difficile da addomesticare e conchiudere che ancora ci parla nello «sforzo della voce» (p. 27). Nelle loro esistenze, raccontateci attraverso i documenti a disposizione della filosofa (poesie, saggi, prose, quaderni e lettere) si assiste ad una signoria appassionata nei confronti delle cose e del mondo, contrappunto di una cifra dolente e dissonante verso la cura del sé.
La prima imperdonabile che incontriamo è Milena Jesenská, scrittrice ceca assente nella prima edizione del volume. Viene raccontata da Laura Boella come donna capace di tracciare i contrasti presenti nella storia e nell’esistenza umana – la sua, in particolare, sopraffatta dalla miseria e dalla violenza. La scrittura di Jesenská si muove tra giornalismo, prosa, epistolari e traduzioni. Ma è in effetti nello scontro con l’impossibilità del vivere che la scrittrice accoglie dentro se stessa l’istanza del tragico. La scelta di tornare a Praga e restarci nonostante l’ineluttabilità del destino che la attendeva, fa di Jesenská una donna che decide scientemente di stare ferma, nella interposizione incarnata della forza femminile dinanzi alla mostruosità del presente. Una testimonianza preziosa la sua che, seppure nella scarsità delle fonti pervenuteci, Boella ridisegna con grande cura. Anche dal campo di concentramento di Ravensbrück, dove nel 1944 Jesenská incontra la morte, arrivano segni netti e inequivocabili di una personalità indomita in perpetuo ascolto dell’altro. Acuminata osservatrice delle vite altrui, la scrittrice ceca si muove dal vertice degli accadimenti. In questo senso, quell’alterità che spesso assumeva il volto degli ultimi, dei condannati senza appello, rappresenta la tonalità emotiva di una donna che sapeva rispecchiarsi nella prossimità alla relazione. Consapevole della inesistenza di una via d’uscita, Milena Jesenská «propone una figura di umanità viva, una postura del corpo che esprime il gesto perentorio, ma calmo, di chi afferma la sua presenza sulla scena degli avvenimenti, e così si interpone, si ritaglia il piccolo spazio della voce, del dire la verità» (p. 62).
Nel modo della verità che si fa chiarificazione, incontriamo Etty Hillesum. Stella fulgida di una costellazione di imperdonabili, ci viene descritta da Laura Boella come colei che rinuncia al disprezzo. Quella della giovane ebrea olandese è una parabola che non consente di classificare i suoi diari e le sue lettere in un genere specifico, eppure attraverso le sue scritture mostra una sapienza di sé senza pari. Se la letteratura sulla Shoah è una testimonianza di resistenza e di rivolta, la scrittura di Etty Hillesum appare nella forma della passività. Quest’ultima non è intesa come rinuncia o addirittura prostrazione, tutt’altro; l’esperienza di Hillesum infatti significa «stare nella croce del tempo» (p. 77) con inusitato amore, percorrendo palmo a palmo tutto il perimetro di se stessa, fino alla vastità della relazione con Dio – colui che viene scelto come interlocutore attraverso cui si può ugualmente esperire la libertà femminile. Tra l’essere singolare e il divino scorre così l’orizzonte del desiderio di Hillesum, regione sconfinata mietuta di costante stupore. Nel suo percorso di formazione, l’avidità delle letture e dell’accogliere l’alterità si contrappongono ad un annientamento, sottrazione radicale di materialità; ma è proprio in questa privazione così disciplinata al silenzio che la giovane donna si apre alla compassione, «fondamentale movimento di anticipazione nell’immaginazione, costitutivo dell’empatia, e senza il quale la condivisione della sofferenza altrui risulta spesso in autentica» (p. 99). Hillesum, fa notare Boella, in questo doppio registro di altruismo e dedizione, volta le spalle al precipizio della storia confermandosi fedele a se stessa e in amicizia con l’essere infinito. Aiutare e perdonare Dio infatti, come ricorda la filosofa, rappresenta «l’estrema possibilità di pensare diversamente la catastrofe, di pensare oltre ciò che è stato distrutto» (p. 102).
Per Marina Cvetaeva la scrittura è invece mappa di contaminazioni etiche e estetiche; la lingua poetica diventa in tal senso un modo di intensificare il dissidio tra l’esperienza quotidiana della Rivoluzione russa e quella che attiene più prettamente all’io. Boella rintraccia da subito un’aderenza essenziale: per la poeta infatti «la fisica coincide direttamente con la metafisica, il corpo ha esclusivamente movimenti spirituali, l’anima è incarnata» (p. 109). Ciò condiziona la relazione tra tempo e storia che in Cvetaeva determina l’interrogarsi profondo su due istanze: quella contemporanea, propriamente rivoluzionaria, e quella non contemporanea, effettivamente privata. Eppure la rivoluzione, con tutto il carico che comporta essergli dinanzi come poeta, si mescola sensibilmente nel confronto con il presente. La discontinuità e l’accelerazione scandiscono così il ritmo agitato a cui la poeta dovrebbe sottostare. Eppure per Cvetaeva non è esattamente così; innalzata sull’abisso della violenza, ella appartiene ad una storia «che raccoglie dalla rivoluzione la spinta simbolica ideale all’autenticità, alla rivelazione e creazione di un’epoca, ma ne respinge la fiducia nella felicità, nell’abolizione del negativo e del doloroso» (p. 122).
Nel segno della complicazione della testimonianza, incontriamo Ingeborg Bachmann. Poeta e scrittrice alta e rigorosa, resta nei pressi dell’irriducibilità stando al passo con la propria storia ma prefigurando l’esperienza come «“processo spirituale” di una creatura in carne e ossa, che vede, sente, pensa, spesso è travolta dagli avvenimenti e dalle emozioni, e parte da sé, nel senso più letterale del termine» (p. 138). Il nocciolo della imperdonabilità sta nella sincronicità tra biografia personale e le tappe significative di un Novecento dilaniato dalla guerra. Circostanza, soprattutto quella della guerra, che Bachmann per prima lesse con responsabilità e fatica ma che, ad ogni modo, la condusse verso la ricerca di un linguaggio che azzerasse l’io come soggetto della letteratura. In questo vuoto del presente, paradossalmente scandito da date e appuntamenti, è la stessa Bachmann ad emergere come tragica figura di inaudita attenzione e generosità. L’insistenza è su quel vedereeloquente che travalica il limite storico e che ne conosce il percorso a ritroso, per dare senso al futuro senza epifanie.
Il volume si chiude con un’altra vetta del pensiero incarnato: Cristina Campo. Ella muove dall’idea di «un tempo compiuto, denso di ansia, di pericolo, e anche di miracolo, in cui i secoli precipitano e si accumulano gli uni sugli altri, come grandi macigni di pietra» (p. 166). Quel che accade nel presente sarebbe un male insopportabile se non fosse per il passaggio ad un mondo rovesciato in cui Cristina, come suggerisce Laura Boella, diventa il campo di se stessa. Non per porsi da crocevia alle atrocità della storia ma per mondarsi al punto tale da diventare se stessa. Quella di Campo è stata un’esperienza di interezza e di amore del mondo che la condusse in lande limitrofe all’assolutezza. Il crocicchio del soprasensibile segue la passione della perfezione, di una disciplina della gioia intangibile e tanto desiderata.
Tornando alla domanda iniziale posta da Laura Boella, forse essere imperdonabili, oggi, significa ancora – come per Milena Jesenská, Etty Hillesum, Marina Cvetaeva, Ingeborg Bachmann e Cristina Campo – prestarsi attenzione, nel modo della fedeltà che la genealogia delle imperdonabili ci ha restituito.