Premessa
I. La crisi dell’istruzione – L’amore per il mondo
II. H. Arendt
III. La Cura e l’istruzione
IV. La crisi dell’istruzione: Autorità-Tradizione-Libertà
V. Educazione e Istruzione – Pro e contro il pragmatismo
VI. Tra passato e futuro
Premessa
Vorrei trattare questa riflessione come fosse un quasi-dialogo con Hannah Arendt nel momento in cui dava vita al saggio sulla crisi dell’istruzione. Un dialogo che percorre tanti anni, che s’immerge nell’esperienza dell’insegnamento raccogliendo teorie, pensieri, riflessioni e nuove idee che, dagli anni Sessanta a oggi, si sono rafforzate, si sono ampliate, ma che nella nostra realtà e nel sistema dell’istruzione, non hanno avuto tanta presa. Quella presa che sarebbe necessaria a fare in modo che risultassero finalmente superate le carenze sostanziali di cui tanto si discute mentre le risposte date sono ancora solo la parte più piccola delle tante rimaste mute.
Di crisi dell’istruzione ho sentito parlare da quando ho coscienza di studentessa, sembrava che ognuno dei protagonisti della questione avesse qualche anatema da lanciare o volesse cancellare una parte, se non tutto, l’intero sistema. La scuola: da sempre terreno fertile per discussioni, lotte, scontri, proposte, in cui le riforme comunque si sono succedute con o contro il corpo docente.
Però, nella scuola, il luogo che rappresenta formalmente l’istruzione, è stato possibile il formarsi di tante idee, così come è avvenuta la formazione di tanti e tante cittadine; il ‘contesto-scuola’ ha prodotto moltissimo nel campo dello scambio umano e culturale; ha dato vita a centri d’interesse e ha messo insieme tante persone, che altrimenti non si sarebbero mai conosciute. La responsabilità nei confronti della società e la possibilità di essere docente nel pluralismo[1] in cui ci troviamo a operare, sono due esperienze di cui, a mio giudizio, non ho ancora afferrato del tutto il significato.
L’istruzione è in crisi probabilmente da quando è emersa o si è imposta nella storia la società di massa, dal momento in cui l’esigenza e il bisogno d’istruzione per tutti si sono affermati, oltre che come principi ineludibili per una società inclusiva e democratica, anche come richiesta pressante da parte di quelle fasce della popolazione storicamente escluse dalla formazione, tra cui erano le donne e i ceti più bassi, ancora estromessi da una cittadinanza a tutti gli effetti.
Vorrei ricordare che la scuola in Italia si è impegnata molto e prima degli altri paesi europei, affinché si ideassero e mettessero in atto pratiche integrative/inclusive, per superare il settarismo delle scuole speciali o della classi differenziate.
Credo che sia molto significativa anche l’ultima nuova tappa, nel solco del pensiero che considera l’istruzione una possibilità per il superamento della diseguaglianza sociale, dei disagi e dei conflitti di una società come la nostra, sempre più complessa, la legge 170/2010.
Se leggiamo l’alta percentuale che c’è in Italia di dispersione scolastica, di fenomeni di bullismo e di femminicidio, con la chiave del disagio provocato dalla mancanza di conoscenza e formazione, potremmo immaginare anche come affrontate queste situazioni; certo ci sono anche altre cause che concorrono, come il mutamento dei rapporti e delle posizioni all’interno della famiglia, dei ruoli, nel processo adolescenziale di identificazione si riscontrano maggiori difficoltà oggi. Ma possiamo comprendere come ai fini di un’autentica libertà, sia necessaria l’istruzione.
Rimanere legati a stereotipi, a modelli che sono tanto lontani quanto inattuabili non serve, c’è sempre bisogno di un’analisi del reale dal quale ogni volta ripartire e riformulare un progetto educativo e formativo.
Rileggere il saggio di Hannah Arendt e cercare di attualizzarlo è il tentativo che ho fatto per aprire una riflessione sull’istruzione come sistema parte dello stato sociale di un paese, come impegno professionale, come impegno profondamente umano.
I. La crisi dell’istruzione – L’amore per il Mondo
Con La crisi dell’istruzione, saggio pubblicato in Tra passato e futuro(1961), si apre un discorso inesauribile che ci interroga continuamente, seguirlo mi permetterà di avere una traccia dalla quale partire e cui tornare. Considerando il contesto in cui è stato scritto, cercherò di metterne a fuoco le tematiche fondamentali nella dinamica della situazione odierna, utilizzando anche chiavi teorico-pedagogiche diverse. Mi sarà così possibile riprendere, ridiscutere alcune questioni essenziali dal punto di vista teorico e pedagogico. Pongo come inizio un paragrafo in cui ho trovato il cuore (in tutti sensi) della questione, parole con le quali la Arendt chiude il suo saggio:
«(…) L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti».
- (…) il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo…: l’amore, è la passione necessaria, l’eros che ci porta al coinvolgimento e all’impegno, che ci porta oltre noi stessi, facendoci uscire dal nostro mondo personale ed egoistico per agire nel mondo e per il mondo insieme, perché siamo nel mondo con bambini e bambine, uomini e donne con cui condividiamo l’esistenza. L’amore unisce realtà disgiunte che dopo essere state separate, si sono allontanate, come accade quando la relazione tra chi insegna/educa e chi apprende si è assottigliata fino a dileguarsi.
- (…) da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina…: la responsabilità, quella consapevolezza che diventa azione con l’avere cura necessario all’esistenza stessa. Educazione come assunzione di responsabilità, non come professione da svolgere più o meno adeguatamente e con professionalità. No, non è sufficiente, perché si possa comprenderne il senso e si possa invece consapevolmente mettersi in una relazione educativa e formativa con coloro che spesso non sono in grado di sapere o di chiedere ciò di cui hanno bisogno. La responsabilità ha bisogno di azioni per essere, non si può dire di essersi assunti una responsabilità di qualcosa, di qualsiasi cosa, senza agire in modo che il proprio agire sia un fare con responsabilità, che abbia effetti sulla realtà circostante.
- (…) se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi…: l’attenzione nei confronti dei figli, per la loro istruzione e formazione per assicurare la permanenza di una civiltà nell’unico modo possibile: ossia offrendo ai «nuovi venuti per nascita» una guida attraverso quel mondo già formato in cui nascono stranieri[2]. Lasciamo i figli in balia di se stessi, quando non siamo in grado di dare loro ciò di cui hanno bisogno per formarsi una propria mappa del mondo, da cui capire dove ci si trova per orientarsi, per scegliere consapevolmente senza essere trasportati da un ignoto indecifrabile.
La tradizione – intesa come trasmissione non lineare, passibile di smentite e rielaborazioni radicali – e la conoscenza assumono qui un ruolo fondamentale, quello che può sembrare conservatorismo, è invece un voler fornire insieme a saperi e conoscenza della realtà, strumenti che possano strutturare la mente in modo che sia in grado di orientarsi, riconoscendo in ciò che incontra il senso e il motivo del suo esserci, e non per accettarlo così com’è ma…
- (…) tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa di imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti.: la condizione perché il percorso di formazione si compia ed abbia un esito è la libertà. È la libertà che consente alla persona nuova e unica di esprimersi e di creare, affinché possa intraprendere qualcosa di nuovo, d’imprevedibile, perché questo è necessario alla continuità dell’esistenza di un mondo che si trasforma e che necessita sempre di essere osservato e compreso nel suo divenire; che necessita del nuovo che ogni persona può portare perché ogni volta, nel suo complesso, il mondo possa ricomprendere e re-includere la vita in tutte le sue manifestazioni. La creatività umana si è manifestata nel corso della storia nelle scienze, nelle arti, nella tecnologia e in ogni attività umana. Ogni essere ha delle caratteristiche uniche e dobbiamo fare in modo che ogni originalità si possa sviluppare ed esprimere nella creatività, perché questo è il fine di ogni essere umano; perché ciò che nasce da una persona, una voltaemerso, diviene patrimonio di un mondo che è comune a tutti.
II. Hannah Arendt (1906-1975)
Proverò una cosa ardua: presentare sinteticamente una filosofa (definizione da lei non amata), autrice di scritti, filosofici, politici e sociologici, che hanno cambiato i paradigmi di riferimento nel panorama culturale del novecento. La sua vicenda umana straordinariamente ricca di avvenimenti e incontri ci trasmette quella vivacità e fervidezza di pensiero che l’ha caratterizzata fino alla fine, quella estesa attitudine all’osservazione che l’ha accompagnata fin dai primi anni di studio; non smise mai di porsi domande, di intervenire sulle questioni più accese, di studiare e di ricercare per trovare risposte che venissero da un lavoro intellettuale fondato sull’autenticità della ricerca delle motivazioni nella realtà e sulla libertà di pensiero. Sensibile conoscitrice della poesia, amava Rilke, poeta della sua generazione e ogni tanto si esprimeva in versi, scrivendo poesie che sono rimaste come traccia del suo modo di provare sensazioni e di vivere emozioni, cogliendo nelle esperienze il senso e il desiderio di trascendenza.
Hannah Arendt nacque nel 1906 in Germania a Koenisberg, la sua era una famiglia di origine ebrea; con la salita al potere di Hitler nel 1933, riuscì a fuggire dalla Germania con la madre e dopo un difficile viaggio a tappe, si trasferì in Francia. Arendt aveva capito già nel 1929 che Hitler si era aperto la strada verso il potere nel momento in cui aveva ottenuto il sostegno di un grande finanziere[3]. Ma era consapevole che non avrebbe mai lasciato la Germania della lingua, della filosofia e della poesia, come scrisse a Jaspers.
Con Heinrich Blucher nel maggio del 1941 si trasferì a New York, dove ottenne la cittadinanza e dove rimase, senza perdere i contatti con i suoi amici in Germania e in Europa dove continuò a viaggiare. Dopo cinque anni la raggiunse la madre.
Negli Stati Uniti ebbe modo di coltivare tante significative amicizie, di collaborare con l’Istituto per le Ricerche sociali[4], che dal 1934 era stato trasferito a New York, con diverse Università; della società americana apprezzò quella spinta democratico-egualitaria, che in molti casi non corrispondeva alla politica del suo governo e che la portò a riflettere nell’elaborazione teorica che sviluppò in seguito, sulle polarità delle dimensioni: privata-pubblica, sociale-politica.
Elisabeth Young-Bruehl nella sua biografa di Hannah Arendt Per amore del mondo, dice di lei che è stata fortunata nelle amicizie, cui si è dedicata e che ha saputo coltivare, organizzando viaggi, cene e altri momenti conviviali. Le sue relazioni con letterati, intellettuali e filosofi di grande levatura, sono state fondamentali per il confronto continuo che esigeva il suo pensiero, anche se era restia ad apparire in pubblico. Ha avuto sempre cura delle amicizie della sua tribù, come chiamava gli ebrei residenti in America, come di tutte le altre. I tempi oscuri dell’America cominciarono per lei soprattutto negli anni sessanta, quando l’America intervenne nel Vietnam, anche se inizialmente pensò ottimisticamente che sarebbe stata un’azione limitata nel tempo. Questo fu uno degli avvenimenti in cui notò come il governo perseguisse una politica che era apertamente e massicciamente avversata dall’opinione pubblica. Partecipò al dolore degli americani per l’assassinio di John Kennedy nel 1963, vivendo l’ansia di tutti coloro che avevano creduto nelle sue idee politiche; anche lei aveva ammirato il modo diverso in cui Kennedy considerava la politica, pensando che avesse dato prestigio e nuova dignità all’intera sfera governativa.
Come filosofa e teorica politica, nel corso del Novecento ha acceso grandi dibattiti su temi di cui è stata precorritrice, osservando attentamente gli avvenimenti e la società, andando oltre le posizioni parziali o soggette a influenze che non provenissero da un’autentica ricerca di chiarezza e di verità, cercando di comprendere a fondo le motivazioni profonde e i meccanismi sociali nella loro varietà, senza mai generalizzare e semplificare ciò di cui voleva far emergere la complessità. È documentato che i temi trattati in Le origini del Totalitarismo (1951) e in La Banalità del male (1963), abbiano suscitato reazioni molte contrastanti, all’interno della stesse comunità ebraiche, spesso dure a cui Hannah Arendt non si è sottratta ed a cui ha cercato di dare spiegazione.
La sua acuta analisi delle questioni politiche e delle motivazioni alla base di quei fenomeni, è stata molto complessa, non ha risparmiato giudizi nei confronti di nessuno in nome della ricerca della verità e della libertà di pensiero, che riteneva dover essere svincolata da ogni tipo di interesse di parte. La sua vasta formazione si dispiegava dai classici greci, alla fenomenologia di Husserl ai suoi sviluppi nell’esistenzialismo di Heidegger e di Jaspers. Inizialmente affascinata dalla passione del pensiero in Heidegger, con il quale vivrà una relazione sentimentale/intellettuale intensa, ma da cui si allontanerà anche teoreticamente, troverà in Jaspers un maestro, un amico e un interlocutore con cui poter raggiungere, nel continuo confronto, il rischiaramento che sempre cercava in ogni più oscuro interrogativo.
Nel 1929 sposò Guenther Anders, giovane filosofo ebreo, ma è con il secondo marito Heirich Blucher, che condivise la maggior parte del suo percorso. Per lei fu un compagno e un interlocutore capace di sostenerla nella sua appassionata ricerca, trasmettendole anche la passione politica che in lui veniva da una formazione diversa dalla sua, popolare e concreta.
Hannah Arendt non si sottrasse mai dall’impegno sociale: per la causa ebrea, di cui s’impegnò a elaborare una dimensione politica propositiva; per l’insegnamento e per la partecipazione attiva e teorica alle maggiori questioni sociali e politiche del suo tempo.
Considerata la maggiore teorica politica del Novecento, si è dedicata alla riflessione filosofica e politica ritenendo fondamentale l’analisi antropologica della società, l’azione sociale e politica, il partire dallaPluralità come dato imprescindibile della vita umana, temi sviluppati soprattutto in Vita activa. La condizione umana (1958), un testo complesso e attualissimo per la sua multiforme analisi della società di massa, per l’estensione della sua visione che riesce a identificare processi non ancora definiti nel momento in cui ne scriveva.
III. La Cura e l’Istruzione
Avere cura, prendersi cura, quel take care degli anglofoni che non ci piace tanto pronunciare, e non la cura nel senso della terapia medica, è una dimensione considerata marginale nella società contemporanea ‘attiva’, ci dice Elena Pulcini aprendo la sua conferenza al Festival di Modena di settembre 2013 dal titolo Prendersi cura: per amore o per dovere?
Questa affermazione mi porta a riflettere intorno al dibattito sulla curache esiste da qualche anno, un percorso di riflessione che ha come riscontro concreto le buone pratiche di azione politica, sociale, culturale, insieme al cambio di prospettiva che introducono, la loro portata di invenzione e gli effetti di cambiamento possibili o realmente prodotti. Le buone pratiche possono promuovere nuovi modelli in grado di riorientare motivazioni e ideali sia delle persone che delle istituzioni.
L’intervento di Elena Pulcini ha toccato quegli aspetti profondamente interconnessi nelle grandi questioni della filosofia, portando in evidenza come nella cultura moderna sia stata privilegiata la dimensione dell’io-individualismo illimitato, rispetto alla dimensione della relazione io-tu, io-noi, io-mondo. Affidata alla donna, la cura viene messa da parte insieme alla donna, esclusa dalla sfera pubblica (politica) in cui il protagonista è l’individuo e non la relazione.
So anche che se mi pronuncio sull’argomento cura e cerco di riprenderne il discorso, tra le donne posso anche suscitare espressioni di sconforto: – … ecco qua! Tanto tocca a noi! È il nostro destino…
Lo scoraggiamento può affacciarsi alla coscienza perché è tradizione associare Donna/Cura, com’è ‘naturale’ metterla subito al piano inferiore nella scala degli argomenti filosofici e nella cantina della Casa della Società Tecnologica…
Ma possiamo anche pensare all’eredità che abbiamo acquisito in questi secoli di dedizione e di attenzione per la Cura, come ad una preziosa competenza, una scienza della vita che è un patrimonio da non disperdere.
Secondo Virginia Woolf i valori delle donne sono spesso assai diversi dai valori dell’altro sesso; i valori maschili però prevalgono. La Woolf aveva rilevato nei romanzi scritti dalle donne nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, come le donne avessero difficoltà a far sentire la propria voce, come tendessero ad essere accondiscendenti nei confronti di un’autorità.
Virginia Woolf attribuisce queste tendenze femminili alla forza dei valori innati nell’essere donna: «la sensibilità per i bisogni altrui e la disponibilità a prendersi cura degli altri inducono le donne a prestare ascolto a voci diverse dalle loro e a comprendere nel loro giudizio punti di vista diversi dal proprio».[5]
Penso non sia accettabile che quelle abilità recettivo-percettive, insieme ad altre, non vengano valorizzate e potenziate al fine di essere sviluppate in attività e in competenze diverse; e penso che allo stesso tempo tali attività e competenze non riguardino solo un campo pratico, anzi, la profondità che si raggiunge nel partire da sé e dalla propria esperienza, è il fondamento di una capacità di trascendenza che non dobbiamo perdere, è una nostra conquista.
Così, nell’affrontare il lavoro dell’educazione e dell’istruzione, fa la differenza che certe caratteristiche siano rilevate e fatte notare; che in una classe di studenti e studentesse siano poste sotto la luce della riflessione collettiva e personale le differenze con le quali ci si mette in relazione e con le quali ci si pone nello spazio collettivo.
Tre sono i punti che vorrei evidenziare nel mettere la Cura ‘all’ordine del giorno’ a proposito del tema Istruzione-Educazione.
Pluralità. Troppo spesso non è contemplata come punto di inizio di una tesi, di un progetto, di una proposta, la dimensione della pluralità che ci accoglie nel nostro venire al mondo.
È una grande risorsa un mondo plurale in cui le differenze vengano percepite ognuna come una parte di una ricchezza condivisa nello stare al mondo.
È naturale che le diversità ideologiche, di pensiero possano costituire un problema. Ma accade a causa dell’incapacità di pensare che la vita prende tante diverse forme, e che va rispettata come valore, anche quando sia incompatibile col nostro modo di esistere.
Il contrario di questo rispetto infatti non può essere che la distruzione.
Fragilità. È necessario rendersi conto che è parte costitutiva di noi stessi, in quanto esseri umani; che è una caratteristica di tutto ciò che esiste, di tutto ciò che è parte della Vita.
La forza con cui agiamo per reagire a uno stato di fragilità momentanea, non è la negazione di questa fragilità costitutiva. Non saremmo neppure in grado di percepire con la nostra sensibilità, con tutti i nostri sensi, il mondo e gli altri, se non fossimo strutturalmente costituiti anche dalla fragilità.
La consapevolezza della nostra fragilità, che può incrinare il nostro coraggio, la nostra vitalità, ci avvicina e ci fa guardare gli uni verso gli altri con occhi che vanno oltre l’alterità. Ci consente la comprensione dell’umanità nelle altre persone, proprio nei momenti in cui le divergenze, i contrasti potrebbero sfociare in dispute cui non poter dare un argine.
Sentimento. Il sentimento connota la relazione fondamentale con il mondo e con il nostro agire. È passione, è tenerezza, è affetto, è rabbia, è tutto quello che riempie e colora il nostro esserci. Tanti sono i colori possibili, quanto la capacità del nostro sentire è sviluppata.
La dicotomia ragione/sentimento all’origine delle discipline scientifiche e filosofiche occidentali, ha limitato la capacità di sistematizzare la pratica pedagogica-educativa-didattica, che non può essere completa se esclude la dimensione del sentimento(e le emozioni che provoca) dalla relazione educativa nel processo di apprendimento.
Situata nel nostro cervello, la mente, è orientata dalle emozioni e questo diventa un principio di selezione del nostro fare esperienza nel mondo e quindi anche nella scelta inconscia che operiamo quando siamo in una situazione di apprendimento.
Dai recenti studi neuropsicologici e neurolinguistici (mi riferisco soprattutto a quelli di Marcel Danesi, ma ce ne sono altri)[6] la metodologia e la didattica si sono rimesse in discussione per rafforzare quella posizione che mette al centro del processo di apprendimento-insegnamento la persona che apprende, che abbraccia in una visione interdisciplinare il posto che hanno le relazioni e le emozioni. Il cervello è composto di miliardi di neuroni, è configurato geneticamente come tutti intuiamo, ma poi si sviluppa dinamicamente in base alle esperienze. Secondo le situazioni e gli stimoli, le sinapsi si configurano in modo diverso dando vita a innumerevoli nuove connessioni fondate sull’esperienza. È proprio per questo che non esistono due cervelli uguali.
Con queste nuove conferme da parte delle neuroscienze, possiamo comprendere come le intuizioni di Maria Montessori fossero valide.
Infatti, secondo la Montessori, il periodo infantile rappresentava una fase di enorme creatività, durante la quale la mente era in grado di assorbire informazioni dall’ambiente circostante, era in grado di farle proprie in modo naturale, crescendo e sviluppando le potenzialità senza sforzo.
Amo dunque insegno
Educare e insegnare, in situazioni informali e formali, riflettendoci bene, è sempre stato il mio modo di “prendermi cura delle cose e del mondo”, come lo è stato e lo è per tante altre persone.
L’attitudine al pensare che se c’è qualcosa che non va per il verso giusto, allora deve esserci anche un modo per ‘aggiustarla’, è proprio alla base di quella convinzione tanto importante che è la seguente:possiamo incidere sul corso della storia, convinzione che sboccia insieme alla consapevolezza di poter avere presa sull’esistente e al sentire la propria responsabilità nei confronti del mondo.
Credo che nell’educare e nell’insegnare il prendersi cura di, sia il contenitore nel quale ogni azione educativa debba essere inserita.
Educare diviene un’azione politica, nel senso che non possiamo evitare di metterci in una relazione docente-studente-mondo-società. La scuola (e l’istruzione-formazione) ha a che fare con quello che c’è nel mondo, con quello che si pensa e si fa nel mondo, con la responsabilità di fornire strumenti di lettura e di azione nel mondo. Significa che il progettare un’azione educativa vuol dire anche equipaggiare gli apprendenti affinché siano in grado di progettare la propria vita secondo le proprie potenzialità e i propri desideri portati a coscienza. In questo si realizza la possibilità che il nuovo emerga, rinnovi e consenta al mondo di esistere e progredire.
IV. La crisi dell’istruzione: Autorità-Tradizione-Libertà, i tre assi portanti dell’istruzione.
Nel suo saggio Hannah Arendt presenta la triade Autorità-Tradizione-Libertà come essenziale alla possibilità di esistenza stessa dell’istruzione, alla possibilità che abbia luogo. Sono elementi essenziali ancora oggi, ma al tempo stesso, dobbiamo contestualizzare le sue affermazioni, mettendole in relazione agli avvenimenti e ai luoghi in cui sono nate; così da poter comprendere la parzialità di alcune osservazioni sulla loro attuazione nel mondo a lei contemporaneo, originate dalla contemporaneità di alcuni processi e di alcuni movimenti presi in considerazione. La stessa Arendt ripete di non essere un’esperta in pedagogia e che qualcun altro, esperto in questa disciplina, avrebbe dovuto approfondire gli argomenti.
Nel suo saggio analizza in modo preminente la situazione del paese in cui viveva, negli anni Cinquanta e Sessanta, un periodo che accoglieva diversi elementi di novità, sia in ambito pedagogico sia in campo socio-culturale. La crisi dell’istruzione è ricorrente negli Stati Uniti, scrive la Arendt, l’organizzazione del sistema dell’istruzione diventa un problema politico di prima importanza quando è in crisi, una crisi che è stata generata dalle caratteristiche della cultura americana, dalle novità pedagogiche (come il pragmatismo), a cui in quella fase si stava cercando di porre rimedio con una specie di restaurazione del sistema d’istruzione.
Gli Stati Uniti erano ancora per lei, che vi era stata accolta e che le avevano dato la cittadinanza, un modello di democrazia; era il Paese che aveva saputo confermare i principi affermati durante l’Illuminismo, con una Rivoluzione (1775-1783) che restava l’unica[7] a essere ‘riuscita’ in quanto, contemporaneamente, aveva portato all’indipendenza le colonie e aveva dato inizio alla Federazione degli Stati Uniti d’America, ponendo a fondamento una Costituzione che stabiliva come principio quello dell’Eguaglianza. E proprio l’eguaglianza, come indole, era per la Arendt una delle cause di crisi per il sistema dell’istruzione, ma anche di qualche pregio, riconoscerà poi.
Sull’eguaglianza, qualità dello spirito iscritta nelle origini di questo paese, Arendt scrive, osservandone le manifestazioni frequenti in ogni aspetto della vita quotidiana. Tra i pregi, inserisce lo straordinario entusiasmo per tutto ciò che è nuovo, che è consentito che accada, da qualsiasi individuo provenga, (a parte la questione irrisolta del razzismo). Come in tutte le utopie, al nuovo è associato, in modo naturale, il dare inizio a qualcosa di nuovo, a partire dai nuovi nati, ed è per questo che si ritiene necessario cominciare dai bambini, se si vogliono creare nuove condizioni.
Il rischio però è che le nuove generazioni vengano educate in un mondo vecchio, cosa che strapperebbe loro di mano l’occasione per farsi un proprio nuovo mondo.[8]
Allora il pensare a un mondo di bambini a sé, potrebbe essere una soluzione. Ma non è così, secondo la Arendt, come vedremo.
Un’altra questione importante, nata insieme al Paese, formato soprattutto da popolazioni immigrate, è sempre stata quella dell’integrazione delle culture e della conoscenza della lingua nazionale da parte dei non-madrelingua. Per questo, osserva Hannah Arendt, la crisi dell’istruzione negli Stati Uniti assumeva una carica estrema e una valenza fortemente politica.
Negli Stati Uniti, i governi avevano dovuto affrontare da subito la questione dell’integrazione e questa non poteva che avvenire principalmente nella scuola e con l’apprendimento della lingua nel modo più rapido ed efficace possibile.
Gli approcci e i metodi di insegnamento di una lingua straniera più innovativi, hanno origine proprio qui infatti, dove il fattore di conoscenza della lingua era necessario ad una popolazione per cui rappresentava il primo fattore base per la coesione sociale.
Insieme alla questione dell’integrazione, era fonte di dispute e dibattiti la questione del razzismo, su cui la Arendt ha una posizione molto personale.
La sentenza del 1954 della Corte Suprema, durante la presidenza di Eisenhower, che vietò la separazione razziale nelle scuole come anticostituzionale, inizialmente, non le sembrò una misura adeguata a garantire la sicurezza e l’adeguata integrazione per i bambini di origini africane. A lei, che era di origine ebrea e aveva affrontato da bambina in Germania la realtà della discriminazione, sembrò una forzatura il fatto di dover, per legge, obbligare un bambino ad affrontare un ambiente a lui ostile perché si integrasse. La madre le aveva insegnato a reagire e a evitare i luoghi in cui si fosse sentita in qualche modo non accolta.Questo fu un argomento a lungo dibattuto; il fatto che il diritto all’istruzione fosse tra quelli inalienabili, portava la discussione sulla sua attuazione a dover essere evidenziata dalla stampa, oltre che dagli addetti ai lavori. Interessanti gli scambi di opinione all’epoca, tracciabili nei quotidiani, che stimolarono una successiva presa di posizione differente da parte della Arendt.
L’indole americana dunque, era caratterizzata dal valore dell’eguaglianza, principio irrinunciabile e che, trasferito nel campo dell’istruzione, arrecava, con i metodi pedagogici elaborati conseguentemente, elementi che divenivano fattori di crisi.
L’eguaglianza era quella che si affermava tra adulti e bambini, tra insegnanti e studenti, tra più e meno ‘dotati’… E questo tipo di eguaglianza viene messo in discussione da Hannah Arendt, perché in un momento di crisi, in una società in cui già manca a livello politico il senso dell’autorità, il dovere dell’eguaglianza mina anche l’autoritànecessaria alla relazione tra docenti e studenti.
L’idea di eguaglianza o parità, si trova tra i principi del pragmatismo (soprattutto di J. Dewey), approccio teorico che si era esteso, in quegli anni, al sistema scolastico intero e di cui Arendt critica l’impostazione che privilegia il fare sull’imparare, rilevandone solo gli aspetti meno responsabilizzanti e significativi all’elaborazione di un’autonomia personale.
Di questa metodologia, non analizza tutte le caratteristiche, il giudizio negativo che ne dà riguarda uno degli aspetti per lei predominante. Certamente non potevano ancora essere conosciuti gli effetti che avrebbe prodotto, né se ne poteva avere una visione complessiva e insieme critica.
Arendt contesta al pragmatismo il fatto di mettere al centro dell’insegnamento la pedagogia, piuttosto che i contenuti disciplinari, proponendosi di fornire un metodo o una tecnica per apprendere, tralasciando la specificità dei contenuti, i quali perdevano così il valore di conoscenza dei saperi e della tradizione necessari alla formazione di un autentico patrimonio personale da cui potesse originarsi, poi, altra cultura.
La critica colpisce soprattutto i docenti, che, per questo cambiamento di approccio, non si dedicavano più, a suo giudizio, all’ampliamento della propria conoscenza, tralasciando la questione fondamentale del dover avere conoscenze profonde nelle discipline insegnate, quelle che sono necessarie alla trasmissione del tesoro della memoria.
Non avere stimoli a proseguire sul cammino del sapere, avrebbe significato smettere di crescere e di confrontarsi con pensieri e culture, cosa dannosa per chi si occupa di educazione e istruzione, che ricade oltretutto nel campo del pericolo da cui può essere minacciato il mantenimento del patrimonio culturale comune.
L’apprendimento continuo da parte del docente, sarebbe l’unico modo per evitare di trasmettere le famigerate “morte nozioni”, proprio perché egli stesso si mostrerebbe agli allievi sempre teso al processo produttivo della conoscenza.
Condivido questo ragionamento, fa parte del mio vissuto questo bisogno di sapere; nello stesso tempo, rilevo che ciò non esclude l’altro aspetto della formazione didattico-pedagogica, quello metodologico, come necessario al successo della relazione apprendimento-insegnamento.
Hannah Arendt sostiene che il valore dell’uguaglianza e il pragmatismo, annullavano il ruolo del docente in più sensi: quello di chi ha l’autorità (che gli viene dalla conoscenza della tradizione)[9], quello di colui che custodisce e trasmette la memoria (la cultura e la storia come tradizione).
L’autorità è necessaria perché ci sia la trasmissione della cultura e quindi la sua conservazione, come tradizione e come memoria. Citando Tocqueville, «senza il passato che proietta la sua luce sul futuro, gli uomini brancolano nel buio».
La conservazione, ci deve essere perché ci sia la possibilità per le persone di formarsi e di avere la forza necessaria a portare il ‘nuovo’.
Di fronte all’allievo
«l’insegnante si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità. Di fronte al ragazzo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini della terra che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo» (Arendt H. La crisi dell’istruzione)
L’assunto è, dunque, che l’istruzione si basi su: tradizione, autorità, libertà e che quando uno di questi fattori è in crisi, è inevitabile che la crisi si estenda a tutta l’educazione, al sistema educativo.
Credo che, guardando alla realtà, possiamo trovarci d’accordo, quando rileviamo come sia duro per i docenti svolgere il proprio lavoro, la propria missione riguardo la formazione di nuove identità, in una società che non riconosce alla storia, alla conoscenza della cultura e del passato, tanta importanza quanta ne riconosce alla scoperta del nuovo in quanto tecnologicamente migliore, come potenzialmente infinito, ma non solo; ritenuto anche unico vero autore di una vita migliore.
IV. Educazione e Istruzione – Pro e contro il pragmatismo
Un altro degli assunti che Hannah Arendt considera tra i fattori della crisi dell’istruzione, è la contrarietà riguardo la convinzione pedagogica che sia giusto che esista un mondo dei bambini che deve essere lasciato a sé, in cui siano in vigore le regole che loro stabiliscono autonomamente, non in relazione col mondo degli adulti.
La separazione del mondo dei bambini dal mondo degli adulti, prospettata come emancipazione dall’autorità degli adulti da parte dei bambini, ai fini dell’acquisizione di una maggiore autonomia e libertà, viene letta dalla Arendt come posizione in cui il bambino si trova a soggiacere ad una tirannia ben peggiore, quella della maggioranza (nel gruppo dei bambini) che non dà le garanzie dovute alla persona in formazione.
A questo proposito, sulla conquista della libertà e dell’autonomia come valore e fine del processo insegnamento/apprendimento, è opportuno citare J. Dewey
«che concepisce la libertà come un potere di ricostruzione e riorganizzazione dell’esperienza, mediante il quale l’uomo trasforma le condizioni da cui esce il suo passato (che grava sul presente) e pilota e guida l’azione che modifica la storia (e pertanto si serve del presente per progettare il futuro). Come dice il pensatore americano, l’uomo è libero perché «interpone la ragione tra il desiderio e l’azione» tra il regno degli impulsi primitivi e immediati e quello della risposta che incide sulle cose».[10]
Questo ci dice qualcosa d’importante circa la metodologia del farecriticata da Arendt, che chiarisce i dubbi che potevamo avere circa il valore dell’esperienza inserita in un approccio che non lascia i bambini fare da sé, nel senso di abbandonati a se stessi, ma che prevede una sapiente regia da parte di un educatore che conduce alla conquista della libertà ognuno nel rispetto della libertà di tutti. E lo fa a piccoli passi.
Maria Montessori[11], raccoglie in una richiesta del bambino il senso della sua metodologia che ha cambiato la visione del mondo dei bambini in ambito pedagogico: l’appello che il bambino fa al suo genitore o al suo maestro «aiutami a fare da me». Credo che questa piccola frase risponda efficacemente alla preoccupazione di mancanza di comunicazione tra il mondo dei bambini e quello degli adulti di cui Arendt si fa portatrice.
E per tornare al significato del fare nel senso di esperire personalmente, il partire dall’esperienza -dalla percezione concreta e vissuta da parte delle studentesse e degli studenti, proprio per condurli alla comprensione della storia e del pensiero dei grandi autori, per educarli al pensiero critico- credo sia un approccio utilizzato da molti di noi insegnanti, e credo che ne abbiamo potuto anche rilevare la validità.
Esperienziale è la didattica che coinvolge le persone nel processo d’apprendimento, invitandole a partecipare a un incontro con un testimone di memorie storiche, organizzando una visita culturale in luoghi in cui sono stati vissuti importanti eventi, in un museo; proponendo il fare esperienza di produzione artistica e culturale a partire da sé, promuovendo i piccoli eventi costruiti insieme. In tutti questi casi, secondo le età e i livelli, possiamo verificare il coinvolgimento dell’interezza della persona, con tutte le sue specificità (le sue intelligenze[12]), cosa che è fattore di apprendimento maggiore, partecipato e di acquisizione vera e propria[13].
Non si tratta di «sostituire il fare all’imparare»[14], si tratta piuttosto di un coinvolgimento dell’intera persona in un processo di crescita, nell’apprendimento/insegnamento che vede insegnante e apprendente in relazione, molto più profondamente che se fosse una lezione ex cathedra.
Questo non esclude l’aspetto teoretico del sapere, lo sviluppo dell’argomentare utilizzando il linguaggio come articolazione del pensiero e del suo sviluppo; fornisce piuttosto una base più ampia, un materiale più vasto che possa dare corpo al ragionamento e far sì che sia costitutivamente fondato su ciò che è più autentico.
VI. Tra passato e futuro[15]
È il luogo in cui ci situiamo in quanto esseri viventi, è un luogo molto scomodo quello della nostra esistenza… ma è il luogo in cui l’insegnante si deve situare con grande consapevolezza, dal momento che potrebbe o meno offrire tesori a coloro ai quali ha il compito di dare un’istruzione.
La possibilità di aprire le porte del futuro attingendo ai tesori del passato, alla memoria e alla conoscenza dei saperi.
Mi piace anche evocare con la parola custode, il senso del dover occuparsi della conservazione di un patrimonio di cui non siamo proprietari, ma che condividiamo con gli altri, perché altri ancora ce lo hanno lasciato da custodire per altri ancora.
Nella premessa La lacuna tra passato e futuro alla raccolta dal titolo Tra passato e Futuro, Hannah Arendt ci parla in modo molto toccante e anche poetico della tradizione. La tradizione viene paragonata al testamento che lega i beni passati ad un momento futuro,
«(…) senza la tradizione (che opera una scelta e assegna un nome, tramanda e conserva, indica dove siano i tesori e quale ne sia il valore), il tempo manca di una continuità tramandata con un esplicito atto di volontà, e quindi, in termini umani, non c’è più né passato né futuro, ma soltanto la sempiterna evoluzione del mondo e il ciclo biologico delle creature viventi».
La perdita dei tesori della memoria, è causata dalla mancanza di untestamento. La memoria è una delle forme del pensiero, una delle più importanti che perde però potere se avulsa dal contesto, dal suo contesto. È raro conservare memoria di qualcosa senza che abbia connessioni con altre e con il contesto di cui fa parte, come scrive Hannah Arendt, per questo è necessario che l’insegnante sia consapevole del suo ruolo nello stesso modo in cui è in grado di proporre la conoscenza in modo vivo e organico.
Mi sento molto coinvolta in questo discorso, perché come insegnante di Storia e Filosofia spendo molta energia nel cercare di costruire una relazione di apprendimento-insegnamento che si basi sull’amore per il sapere. Nei riguardi della storia, è importante provocare un cambiamento dell’atteggiamento nei confronti di questa disciplina – spesso trascurata e non amata abbastanza – perché divenga la possibilità di acquisire consapevolezza dell’essere-al-mondo-insieme-a-una-pluralità-di-persone, di far parte di un’ umanità verso la quale non possiamo essere indifferenti.
Comprendere la storia è comprendere l’accaduto, come ci ricorda la Arendt citando Hegel, il vero fine dell’intelletto e del comprendere, è mettersi in pace col mondo, riconciliarsi con la realtà.
Ma non è abbastanza o non è sempre così, la mente non è sempre capace o in condizione di riconciliare.
Senza dipanare tutti i punti di questa complessa quanto affascinante questione inserita nella premessa, vorrei proseguire il pensiero a proposito della comprensione della realtà e del mondo, cosa che può o meno riconciliarci con la realtà.
Se non c’è riconciliazione della mente con la realtà, allora è perché l’immagine della ragione non trova riscontro nella realtà che osserva, la mente non può riappacificarsi con quel mondo.
Allora sarà possibile immaginare un’altra realtà che possa corrispondere all’idea che si ha (utopia?), sarà possibile che non rimanga solo un’immagine? Perché se così fosse, non ci potrebbe essere con la realtà alcuna riconciliazione.
Ora, io credo che porsi come primo obiettivo, come primo passo di un percorso di apprendimento-insegnamento quello di offrire gli strumenti per cominciare a comprendere, quello di saper osservare insieme insegnanti e apprendenti in dialogo, la realtà e il mondo, dal e nel contesto in cui si vive, sia un buon inizio e sia un (il) motivo valido per dedicarsi all’istruzione e alla formazione.
Partendo da qui, immaginare un nuovo paesaggio, costruire e creare il Nuovo con le proprie vite, sarà per i giovani più agevole e possibile.
[1] Credo che al di là del momento storico-economico in cui dominano consumismo e “pensiero unico”, in cui ci troviamo ad operare come docenti, la pluralità di pensiero e di metodologie dei docenti garantiti dalla nostra Costituzione, siano una realtà, tra le tante altre difficoltà dovute alle scarse risorse impegnate in modo funzionale nella scuola, e ciò rappresenta la possibilità di una coesistenza democratica.
[2] Hannah Arendt Che cos’è l’autorità? in Tra passato e futuro cit.
[3] Elisabeth Young-Bruehl Hannah Arendt 1906-1975 Per amore del mondo, Bollati Boringhieri 1982. Le informazioni vengono tutte da questo testo.
[4] La scuola di Francoforte fondata nel 1923 da Felix Weil, di cui fecero parte Max Horkheimer, Theodor Adorno, con l’avvento nel nazismo si trasferì ed ebbe la sua sede nella Columbia University di New York.
[5] Gilligan C. Con voce di donna, Feltrinelli, Milano.
[6] Danesi M. Neurolinguistica e glottodidattica, Petrini, 1988.
[7] Il paragone naturale era con la Rivoluzione francese che si era conclusa con il Terrore e la Restaurazione, su cui H. Arendt ha portato la sua riflessione.
[8] H. Arendt, La crisi dell’Istruzione.
[9] L’autorità di cui A. parla è quella che comporta un’obbedienza nella quale gli uomini rimangono liberi, quella che è radicata nel passato. Vedi Che cos’è l’autorità, H. Arendt inserita in Tra passato e futuro.
[10] Educare alla libertà, M.Laeng ed. Giunti e Lisciani 1985 pag.44
[11] Maria Montessori(1870-1952) è stata medico, scienziata, pedagogista-filosofa. Iniziò a elaborare il suo pensiero e i suoi metodi educativi a partire dai bambini in condizioni di disaggio psichico; si rese conto che era la strada giusta poi per tutti. Tra le molte esperienze e gli scritti, vorrei citare Analfabetismo mondiale, in cui sostiene che il parlare senza saper leggere e scrivere equivale a essere tagliati fuori da tutte le relazioni tra gli uomini, ritrovandosi a vivere in una condizione che preclude i rapporti sociali, in cui l’analfabeta è un “extra-sociale”. Sostiene l’importanza della scrittura e dei mezzi di comunicazione che fanno sì che i suoni e le parole non si disperdano nell’ambiente, ma acquisiscano corpo, che i pensieri rimangano e divengano patrimonio trasmissibile.
[12] La teoria delle intelligenze multiple di H. Gardner.
[13] Acquisizione e apprendimento vengono qui considerati due diverse attitudini.
[14] H. Arendt La crisi dell’istruzione pag. 239.
[15] Il titolo della raccolta di saggi in cui si trova La crisi dell’istruzione.