L.N. Chiedo a Federica Giardini se il pensiero della differenza oggi ha ancora qualcosa da dire, nel mondo sociale, politico, nella scuola, dal momento che mi capita di riflettere, in varie situazioni, nella scuola dove lavoro, sul fatto che sarebbe necessario ripensarle certe organizzazioni, in nome di una Ragione femminile… Nel senso che, se questa organizzazione riflette la ragione da sempre dominante, maschile, ora è il momento di non stupirsi se non risponde a una società, a una realtà in cui l’avanzata della consapevolezza delle donne e, a livello simbolico, del femminile, ha posto esigenze e dato risposte diverse, se c’è bisogno di rifare e rideterminare i criteri su cui tali organizzazioni si basano…
F.G. Cominciamo con una sorta di fotografia alla nascita del pensiero della differenza… Per inciso bisogna dire che sono stati soprattutto l’Italia e la Francia i paesi in cui si è sviluppato il pensiero della differenza. In un paese come l’Italia, nella seconda metà degli anni settanta, c’è la netta percezione che un modello, che sia sociale, che sia conoscitivo che sia culturale è il problema. Il modello unico, nel lessico si dice modello universale, è il problema. Quindi è in quel periodo che si registra come, si prende consapevolezza definitiva di quanto l’emancipazione, il miglioramento delle condizioni di vita materiale delle donne non significa automaticamente una loro libertà, la possibilità di realizzarsi pienamente. Quindi il pensiero della differenza nasce innanzi tutto a ridosso di un’idea monumentale, monolitica di cosa significa essere degli adulti, essere dei soggetti, essere dei cittadini, etc.
L.N. In effetti il modello unico, neutro, in realtà maschile, da sempre esistente, se non viene messo in discussione… se non viene rivoltato da capo il percorso del pensiero, per cui possiamo ripartire a ripensare un’origine duale e non mono, se non viene illuminato quello che insomma posso anche come definire l’errore di partenza!
F.G. Allora il pensiero della differenza ha questo doppio movimento, distruggere questa monoliticità e, insieme, in questo spazio liberato, fare avvenire la presa di coscienza delle donne. Non basta quindi solo uscire di casa e andare a lavorare, è necessario dirsi, e, dirsi non da sole, che cosa si desidera, che cos’è avere una vita degna, avere una vita piena, o perlomeno mettersi in condizione di cercarla. Dico questo perché è soprattutto in Italia e Francia che il pensiero della differenza ha questa origine pratica, politica e etica, cioè richiede di modificare le proprie abitudini, lavorare insieme ad altre donne, ritrovarsi; quindi il pensiero nasce dal fare qualcosa, dal prendere una decisione rispetto alla propria vita e alle proprie abitudini.
L.N. Penso ad esempio al riconoscersi, insieme alle altre donne, quando invece si era abituate a essere separate, divise, a non essere solidali. Recluse nelle case, nelle famiglie dove la sensazione di disagio provocata dalla propria alterità, non poteva essere messa a fuoco, compresa, percepita per quello che effettivamente è… storicamente, nel ventennio fascista era stata messa a punto una segregazione e una educazione “differenziata” e per uscire dai binari si passava attraverso l’esclusione dalla società della norma; quindi il desiderio di agire e di studiare diventava il dover rinunciare anche a quello che faceva parte della propria identità… Poi le guerra, la Resistenza, quella taciuta delle donne, hanno significato un percorso di affermazione della propria soggettività che ci ha condotto alle conquiste venute con la Costituzione e il diritto al voto. Penso che la consapevolezza che si acquisisce nel momento in cui ci si incontra tra donne, si dialoga, ci si associa non sia ancora una conquista diffusa…
F.G. Quello che è importante registrare è che oramai da una decina di anni si è affermato uno scenario completamente diverso, e questo scenario diverso, secondo me, si è conquistato anche grazie alla spinta di quel movimento del femminismo, cioè la fine di un’omogeneità culturale e sociale, la fine delle categorie occidentali novecentesche e maschili. Quindi per alcuni anni c’è stata la sensazione che questa potesse essere una vittoria, un’affermazione del pensiero della differenza. Oggi, dobbiamo fare il punto in modo più preciso, cioè che la fine del modello unico ha prodotto una proliferazione delle differenze e insieme una loro strumentalizzazione…
L.N. Forse nel senso che la differenza deve essere coniugata con la situazione, insomma che deve essere contestualizzata per fare in modo che divenga qualcosa di concreto, organico e completo, all’interno della rete delle relazioni sociali…
F.G. Pensare la società in cui viviamo secondo differenze, ha preso la forma di gruppi sociali già definiti, di identità che si possono conoscere a priori, dico un immigrato, una donna, un gay, etc.
L.N. Un suddividere in categorie già noto, che, dal punto di vista interculturale, limita l’accesso ad una conoscenza profonda delle persone e costruisce stereotipi che impediscono un autentico scambio.
F.G. Un modo per categorizzare gli esseri umani che vivono insieme… ed è paradossale, prima si poteva solo dire il cittadino, che questo poi fosse una donna, una donna che ha un’altra storia perché viene da un altro paese… tutto questo rimaneva invisibile. Oggi questo è impossibile, tu sei una donna, non sei un uomo in generale. Il problema è che quando io dico tu sei una donna, non mi predispongo ad ascoltare cosa hai da dirmi di diverso, cosa hai tu su quello che stiamo sperimentando insieme, ma lo so già. Sei una donna quindi sei vittima di violenza sessuale, hai il problema di lavorare e tenere i figli. Quindi, la possibilità di una relazione che produca qualcosa, è già pregiudicata in partenza: tu sei un’immigrata, quindi avrai il problema di essere accettata, quindi mi rivolgo a te, se va bene, trattandoti come una bambina che bisogna invitare a giocare, se va male, respingendoti.
L.N. Pensare per categorie è da sempre una semplificazione della percezione e della comprensione dei dati di realtà. Secondo la mia esperienza, l’incapacità di ascoltare e guardare senza pregiudizi, causa dei grandi malintesi che diventano barriere insormontabili in campo relazionale, ma che causano anche errori quando si tratta di prendere decisioni in ambito politico…
F.G. Dunque, da una parte il riconoscimento delle differenze è come una scorciatoia rispetto alla possibilità di elaborare situazioni in modo condiviso, cosa che nel lessico si chiama anche sviluppo identitario delle differenze. Cioè una differenza in realtà, più che una differenza, perché la differenza implica una relazione no? perché è nella relazione che si è differenti, è relazione, lo sviluppo delle differenze si è tradotto come una sommatoria delle identità, lo so già chi sei. Quindi da una parte una staticità che preclude il vero incontro, come la vera elaborazione pubblica condivisa, del modo di vivere insieme, dall’altra parte invece, l’identificazione e la strumentalizzazione. L’esempio che posso fare è il decreto che è passato sulla violenza contro le donne che è stata tradotta come una misura da prendere ai fini dell’ordine pubblico e la sicurezza. Significa dire che esiste un problema nella società, un problema che riguarda un gruppo definito, quindi tutte le donne hanno il problema di essere oggetto di violenza, tutte le donne sono potenzialmente vittime e io Stato intervengo potenziando sicurezza, polizia etc.
Perché si possono trattare le questioni sollevate nella convivenza in mille altri modi, che puntano a una maggiore libertà, consapevolezza, a una maggiore intensità di come si condivide la vita pubblica… e anche pensando che i soggetti – immaginandoli a partire dall’intelligenza di cui sono capaci, anziché dal bisogno che hanno di essere tutelati come se fossero sul bordo di una devianza – sono in condizione di esprimere la forma delle relazioni tra loro, ecco… la strumentalizzazione è questa.
Chiudo, che cosa ha da dire il pensiero della differenza. Oggi, a differenza degli anni settanta, il grosso del lavoro non è tanto aprire la possibilità perché una donna possa dirsi donna… perché questo campo è aperto, è saturo, di discorsi pubblicitari, di governo, delle istituzioni sopra-nazionali, la commissione europea, cosa devono fare le donne, donne che lavorano, i figli… quindi in realtà c’è tutto invece che silenzio, su cosa è una donna, su cosa vuole una donna…
Ma il pensiero della differenza si può alleare con altri pensieri su questo che è stato una delle sue forze fin dall’inizio, su come concepisce la libertà, che è un modo di concepirla sostanziale… cioè la libertà si ha, si acquisisce… tutti insieme, in relazione, gli strumenti pratici e di pensiero per migliorare le condizioni della vita materiale, anche attraverso il modo di pensarla. C’è quindi una materialità, in base alla quale il pensiero della differenza ha pensato a cosa vuol dire essere dei soggetti, cosa significa essere cittadini… io penso che la carta che può essere rigiocata oggi, in questa tradizione, elaborata dalle donne… dal femminismo, dalla differenza oggi è questo, pensare che per principio, – non so come dire – per assunto nasce sempre dall’esperienza e dall’intelligenza che c’è nella vita di ciascuna, quando riesce a metterla in parola, a condividerla con altre…
L.N. Grazie Federica di questo tempo trascorso insieme per parlare. Su questo ultimo pensiero vorrei dire qualcosa riguardo all’“allearsi con altri pensieri” e al partire dall’intelligenza e dalla vita di ognuna.
La mia analisi della società che ha le sue basi nel marxismo e nella Teoria critica della società (Scuola di Francoforte), ha comportato una ricerca artistico-pedagogica e politica che potesse divenire azione per cambiare ciò che non è giusto. In breve, il consumismo rende la vita povera di valori e di profondità, non rispetta i ritmi naturali delle persone e rende le relazioni umane strumentali, perché il processo di mercificazione include anche gli esseri umani.
In questa situazione, l’affermazione del pensiero postmoderno, il pensiero che “non ci sono fatti ma solo interpretazioni”, ha portato a rendere relativo ciò che è sostanzialmente reale e anche ciò che è ingiusto. Questa congiuntura ha tra le sue conseguenze involontarie quella di dare spazio al pensiero di chi ha più potere e più forza di affermarsi, al di là di ogni ragione o ragionevole dubbio.
Se dobbiamo partire dalla vita della persona, dobbiamo partire dal riconoscimento della persona per quello che essenzialmente è, oltre che dai suoi bisogni primari, dal suo desiderio di essere ciò che è. Bisogna che ci sia il modo per l’individuo di esprimersi e di riconoscere in sé le proprie motivazioni, invece che rispondere ai bisogni indotti dalla società dei consumi. Termino dicendo semplicemente che è essenziale per me la ricerca di autenticità e in questa ricerca che si sviluppa nel corso di tutta la vita, gli scambi non possono che essere veri, a volte conflittuali, ma sicuramente portatori di nuovi pensieri per costruire una società più appropriata a quella che spesso ci sembra solo un’utopia.