Laura Turano – Restituzioni a partire dagli incontri del seminario “Lineamenti”

Il pensiero femminista ha […] due secoli ed è vasto e articolato quanto i saperi e le politiche della modernità. Già chiamarlo femminista, riunendo sotto un unico termine posizioni molteplici e perfino conflittuali, costituisce un problema. Nell’epoca presente, ossia al culmine di una fase che ha visto il pensiero femminista espandersi come elaborazione teorica che adotta gli stili più raffinati e specialisti del dibattito filosofico contemporaneo, tale problema è ancora più evidente. Basti pensare alle difficoltà del linguaggio […] afferente alle diverse posizioni. (Cavarero, 2009, 78)

 

Con queste righe Adriana Cavarero delinea concisamente – ma in maniera estremamente chiara – le complessità intrinseche al dibattito sulle questioni di genere preso nella sua dimensione storica. La questione del linguaggio – come evidenziato – risulta, in questo senso, imprescindibile. È infatti dalle narrazioni e dalle retoriche che in esso sono messe in atto, che si deve partire, così come dal suo portato simbolico, dai conflitti che vi si sprigionano, dalle dinamiche politiche che legittima e, non ultimo, dalla sua portata performativa. Non può esistere pratica politica, critica o teorica che prescinda da una messa in questione costante dei linguaggi con cui comunichiamo e con i quali, a nostra volta, siamo raccontati.

È in questo orizzonte che deve e può inserirsi un dibattito che resti aperto e che risulti generativo di nuove pratiche sociali, politiche, ma anche individuali; tenendo a mente che «presentare, discutere, interpretare il pensiero femminista da un punto di vista ‘oggettivo’ prendendone le distanze è impossibile» (Cavarero, 2009, 78) poiché «ciò che è vero per ogni interprete di una teoria, è massimamente vero per la teoria femminista» (Cavarero, 2009, 78)

 

La questione biologico-culturale

 

Il pensiero femminista si è speso lungamente nel dibattito sul significato e sul portato simbolico dei linguaggi sul corpo, sul sesso, sul genere, sul naturale e sul culturale. Sempre Cavarero ci ricorda che «il termine sesso indica il fenomeno biologico della differenza fra uomini e donne» (Cavarero, 2009, 78) mentre «genere indica invece la costruzione culturale che definisce l’uomo e la donna, ossia il maschile e il femminile» (Cavarero, 2009, pp.); a sua volta, «il termine differenza sessuale […] indica sia il dato biologico che l’ordine simbolico, sia la morfologia corporea sia il lavoro dell’immaginario, alludendo alla loro inscindibilità» (Cavarero, 2009, 78).

Questi termini fondamentali devono essere intesi e trattati, al modo di Jacques Rancière, come nomi della storia, cioè come concetti che, nel corso del tempo, attraverso tensioni e conflitti, si sono imposti in maniera significativa e strategica all’interno di un dibattito e, di conseguenza, di una pratica politica.

 

  1. Sesso

 

Sul finire della prima metà del Novecento, Simone de Beauvoir pubblica il Secondo Sesso, testo fondamentale in cui è affrontato il discorso sulla manifesta inferiorità della donna a partire dall’appartenenza al proprio sesso. Per (togliere sempre) Beauvoir, infatti, il sesso è un marchio infamante, lo stigma che impedisce alle donne una loro piena realizzazione. Nell’automatismo del senso comune la possibilità di realizzarsi è infatti prettamente maschile, ciò non solo per una disparità nei diritti acquisiti, ma per lo stato di infantilizzazione a cui le donne vengono relegate e trattenute nel corso della loro vita e che deriva, appunto, da un sentire comune diffuso, sia maschile che femminile; il problema non riposa, quindi, in un’assenza di diritti, ma nella mancata realizzazione, nello sviluppo mutilo delle donne, nell’essere costantemente sotto tutela.

La questione del sesso come prettamente femminile è ovviamente connessa alla componente biologica di cui solo le donne sarebbero, soprattutto dal punto di vista riproduttivo, portatrici (se non addirittura schiave, in quanto afferente a una dimensione non estinguibile dell’individuo).

Per Beauvoir il termine sesso porta quindi con sé un ampio spettro di significati, legati soprattutto alla dipendenza della donna dall’uomo e dai propri bisogni corporei. Tuttavia, oltre all’evidente determinazione biologica, non deve essere sottovalutato l’aspetto psicologico della questione, che è anzi il più importante: mentre l’uomo è il Soggetto, la donna è da sempre l’Altro, l’oggetto del desiderio e dell’appagamento maschile. Un inessenziale, come la definirà nelle prime pagine del testo:

 

L’umanità è maschile e l’uomo definisce la donna non in quanto tale ma in relazione a se stesso; non è considerata un essere autonomo. «La donna, l’essere relativo…» scrive Michelet. E così Benda afferma nel “Rapport d’Uriel” «il corpo dell’uomo ha di per sé un senso, a prescindere da quello della donna, mentre quest’ultimo ne sembra privo se non si richiama al maschio […]

L’uomo può pensarsi senza la donna: lei non può pensarsi senza l’uomo». Lei è soltanto ciò che l’uomo decide che sia; così viene qualificata “il sesso”, intendendo che la donna appare essenzialmente al maschio un essere sessuato: la donna per lui è sesso, dunque lo è in senso assoluto. La donna si determina e si differenzia in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei; è l’inessenziale di fronte all’essenziale. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Altro. La categoria dell’Altro ha origini remote quanto la coscienza stessa. […] Nessuna collettività si definisce mai come Uno senza porre immediatamente l’Altro davanti a sé. (Beauvoir, 2016, 21-22. Corsivo mio)

 

Questa determinazione configura le donne in profondità e impedisce loro di accedere alla propria libertà: con Hannah Arendt, De Beauvoir condivide infatti l’idea per cui essere e sentirsi rappresentanti del proprio sesso sia ciò che impedisce, all’origine, una liberazione da tali costrizioni.

 

Di lì a pochi anni la parola sesso cambia completamente, tuttavia, il suo portato simbolico e, invece che quella della stigmatizzazione derivante da essa, si comincia ad affrontare la questione della sessualità e della liberazione dei corpi. Questa torsione di significato si verifica durante gli anni Settanta, anni in cui il pensiero femminista frequenta assiduamente la psicanalisi e sembra trovare la chiave della liberazione in un’energia sessuale affermativa, costruttiva e creativa.

Tra il 1958 e il 1973 il Rapporto Kinsey sulla sessualità porta alla luce la questione inerente alla frigidità femminile: in altre parole, la frigidità non è più considerata virtù, ma patologia; i corpi femminili vengono così nuovamente privati della loro padronanza nell’atto sessuale e le donne ridotte a essere considerate malate, anormali. Il femminismo risponde, a sua volta, attraverso pratiche di autocoscienza che portano le donne a rifiutare le narrazioni esterne fatte sui loro corpi.

 

  1. Genere

 

Qualche anno dopo, all’inizio degli anni Ottanta, fa la sua apparizione il termine genere, che, se inizialmente non si opponeva al sesso, viene ad assumere via via un significato del tutto nuovo e in contrapposizione al secondo. A coniarlo è Joan Scott, una storica statunitense dell’Università di Princeton, che intende portare il conflitto all’interno dell’università e degli studi universitari. Quando Scott conia il termine non ha in mente solo la donna, ma, più in generale, una condizione sociale complessiva che si modifica al variare delle formazioni socio-economiche. Il problema non è, insomma, la sola sessualità, ma la questione produttiva e riproduttiva all’interno della società e la collocazione della donna all’interno della divisione del lavoro.

Tuttavia, l’introduzione degli studi di genere viene a creare una relazione in qualche modo straniata tra le donne in quanto studiose e le donne in quanto oggetto di studio. È qui che si inseriscono le figure di Judith Butler e Teresa De Lauretiis, che si sono lungamente occupate della risemantizzazione di tale termine (anche attraverso l’uso del concetto di queer). Judith Butler contesta Joan Scott rimproverandole la riduzione che quest’ultima avrebbe compiuto dei corpi e delle soggettività femminili al genere in quanto categoria monolitica, a cui invece molte soggettività si erano sottratte e continuavano a sottrarsi; si rovescia così la questione, attaccando quella socializzazione chiusa e forzata che Scott aveva pensato per delle soggettività che, al di là del sesso biologico, non condividevano nulla. Butler propone, cioè, un argomento antideterministico che svincoli il biologico dal sociale.

 

Oltre il binarismo di genere: al di là dei confini di natura e cultura

 

  1. Sesso, genere, genere binario

 

Con binarismo di genere, o genere binario, indichiamo la tradizionale tendenza a rintracciare l’identità immediata – attraverso una sorta di rapporto causale – del sesso di un individuo con la sua appartenenza di genere, maschile o femminile che sia, senza contemplare la possibilità di opzioni terze (quali possono essere, per esempio, le soggettività omosessuali, trans o intersex). La tendenza, cioè, a trascurare quella differenza fondamentale che intercorre tra la dimensione sessuale, strettamente collegata alla sfera biologica, e il genere, la cui connotazione è, al contrario, socio-culturale.

Judith Butler prima di altri, soprattutto a partire dai primissimi anni Novanta, ha tentato di superare il dualismo concettuale tra natura e cultura mettendo in questione proprio la legittimità di tale distinzione. Butler afferma che non solo il genere, ma lo stesso sesso sono in realtà dimensioni interamente costruite all’interno del contesto sociale e culturale di appartenenza. Non bisogna tuttavia dimenticare che ciò non autorizza l’interpretazione del discorso butleriano nel senso di una totale negazione dell’esistenza di differenze sessuali tra individui con caratteristiche biologiche distinte; esso insiste piuttosto sull’idea che il sesso biologico sia reso culturale a partire dalle strutture concettuali e linguistiche che utilizziamo, in quanto non solo l’aspetto biologico-naturale condiziona fortemente quello culturale ma, viceversa, quello culturale condiziona altrettanto e in maniera retroattiva quello naturale.

La teorizzazione di Butler sulla performatività del genere attraverso l’attuazione di nuove pratiche corporee è ormai paradigmatica. Ciononostante, il dibattito sullo statuto non solo scientifico ma primariamente concettuale della dicotomia natura/cultura, ha accolto anche alcuni tra i contributi più originali di tutto il panorama femminista: quelli di Shulamith Firestone, Donna Haraway e Rosi Braidotti.

 

Sebbene appartenenti a orizzonti teorici differenti e con esiti in parte o del tutto dissimili, ciò che lega queste pensatrici è rintracciabile nell’attenzione con cui affrontano il tema della tecnologia in vista di una possibile emancipazione femminile e femminista.

 

  1. Rompere le linee nemiche: verso il superamento di naturale e culturale.

 

  • Firestone e il femminismo radicale

 

All’inizio degli anni Settanta, Shulamit Firestone, artista, scrittrice e militante femminista canadese, analizza la subordinazione delle donne da un punto di vista marxista (e più precisamente engelsiano), ponendo al centro del suo discorso la classe sessuale e l’oppressione di un sesso sull’altro come prototipo di ogni altro tipo di sfruttamento.

Rappresentante del femminismo radicale di seconda ondata, le sue idee hanno contribuito ad alimentare la critica al binomio dominante di genere e di sessualità. Firestone utilizza infatti il materialismo storico-dialettico come strumento privilegiato per l’analisi, la sovversione e infine il superamento radicale delle logiche che portano alla divisione sessuale del lavoro in ambito produttivo e riproduttivo.

Con La dialettica dei sessi, apparso per la prima volta nel 1970, Firestone propone la tesi massimalista secondo cui l’aspetto naturale, che renderebbe le donne (intese qui come categoria biologica e in parte monolitica) necessariamente obbligate a ruoli procreativi e di cura, debba essere modificato grazie a un intervento scientifico-tecnologico che liberi la donna dal bisogno dell’assistenza maschile, quindi dal suo dominio sessuale e dall’eterosessualità obbligatoria.

In altre parole, per Firestone sarebbe possibile decostruire la categoria sessuale femminile – nella sua accezione più classica e mortificante – attraverso la mediazione di nuove tecnologie, le quali avrebbero la capacità di abolire ogni differenza sessuale legata alla procreazione e alla cura della famiglia (in particolar modo nella sua configurazione nucleare). Il sessismo, infatti, riguarderebbe primariamente la naturale configurazione della riproduzione umana, di cui ci si potrebbe sbarazzare solo intervenendo sul piano simbolico da un lato e, ancor di più, approfittando del progresso tecnologico, sul piano biologico dall’altro. Se la natura pone le condizioni del dominio e della supremazia maschili, spiega Firestone, la cultura può e deve porre in essere le condizioni della liberazione femminile attraverso una rivoluzione economico-sociale che separi la sfera della sessualità da quella esclusivamente riproduttiva.

 

Ciò che avremo nella prossima rivoluzione culturale sarà la reintegrazione del Maschile (modo tecnologico) con il Femminile (modo estetico), per creare una cultura androgina che supererà le vette di entrambe le correnti culturali, o anche la somma delle loro integrazioni. Più che un matrimonio, un’abolizione delle categorie culturali stesse, una reciproca elisione, un’esplosione materia-antimateria che porrà termine con un puff! alla cultura stessa. Non la rimpiangeremo. Non ne avremo più bisogno […]. Con la piena trasformazione del concepibile in reale, il surrogato della cultura non sarà più necessario. […] Il godimento nascerà direttamente dall’essere e dall’agire, dal processo dell’esperienza […]. Quando il modo tecnologico maschile potrà finalmente produrre nella realtà ciò che il modo estetico femminile ha anticipato nelle sue visioni, avremo eliminato il bisogno di entrambi. (Firestone, 1971, 200)

 

  • Haraway e il cyborg: oltre il soggetto umano

 

Nel 1985, quindici anni dopo La dialettica dei sessi e in un clima culturale parzialmente diverso, Donna Haraway pubblica per «Socialist Review» un celebre saggio dal titolo Un manifesto per cyborg. Con questo testo Donna Haraway tenta di oltrepassare il binarismo di genere ripensandone completamente le dinamiche e proponendo, così, la più provocatoria e utopica delle soluzioni: cioè una moltiplicazione di soggettività che si produca a partire da ibridazioni natura-artificio, umano-animale, corpo-macchina, il cui scopo è quello di sovvertire i generi e i sessi tradizionalmente codificati.

In totale opposizione rispetto a Firestone, Haraway ci invita a riflettere sull’impossibilità di pensare soggettività naturali tout-court: la donna, infatti, non è per Haraway che artificio simulacrale, categoria puramente nominale, costruzione sociale del desiderio maschile e perciò caratterizzata da un’identità inessenziale.

Rompendo l’equivalenza sesso-natura, introduce cioè l’idea per cui il soggetto sarebbe interamente culturale e, con Foucault, totalmente creato all’interno dei dispositivi di potere. Il cyborg stesso non è che questo: una finzione, un simulacro in grado di abbattere l’idea di confini prestabiliti e fissi, immutabili; naturali o culturali, la qualità stessa di tali confini perde d’importanza.

Il cyborg è una creatura appartenente a un mondo post-genere, non condizionato dalla riproduzione sessuale biologica e dalla famiglia nucleare; è una soggettività capace di nuove forme di comunicazione e relazionalità, un concetto paradossale e ironico che incorpora identità multiple. Naturalmente, ciò che permette a Haraway di immaginare una tale configurazione postmoderna della società e della socialità, sta nel ruolo onnipervasivo della tecnologia e nella fiducia nei poteri rivoluzionari che Haraway rintraccia in essa. Solo la tecnologia permette, infatti, ibridazioni ageneriche e aspecifiche come quelle animale-uomo-macchina: le categorie sessuali, razziali e di classe verrebbero così tutte superate nel cyborg, individualità che sfugge alle codificazioni oppositive di soggetto e oggetto e che si pone, così, al di là di generi e ruoli ormai mobili, fluidi, intercambiabili.

Scrive Haraway nel Manifesto cyborg:

 

Alla fine del Ventesimo secolo, in questo nostro tempo mitico, siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organismo: in breve, siamo tutti dei cyborg. Il cyborg è la nostra ontologia, ci dà la nostra politica. Il cyborg è un’immagine condensata di fantasia e realtà materiale, i due centri congiunti che insieme strutturano qualsiasi possibilità di trasformazione storica. Nelle tradizioni della scienza e della politica “occidentale”, la tradizione del capitalismo razzista e fallocentrico; la tradizione del progresso; la tradizione dell’appropriazione della natura come risorsa per la produzione di cultura; la tradizione della riproduzione del sé dallo specchio dell’altro, la relazione tra organismo e macchina, è stata una guerra di confine. Le poste in gioco di questa guerra sono stati i territori della produzione, riproduzione e immaginazione. Questo saggio vuole essere un argomento a sostegno del piacere di confondere i confini e della nostra responsabilità nella loro costruzione. Cerco inoltre di contribuire alla cultura e alla teoria del femminismo socialista in maniera postmoderna, non naturalista, e secondo la tradizione utopica, immaginando un mondo senza genere che forse è un mondo senza genesi, ma può essere anche un mondo senza fine. […] Il cyborg è risolutamente dedito alla parzialità, all’ironia, all’intimità e alla perversità. È “antagonista”, utopico e completamente privo di innocenza. Superando la polarità di pubblico e privato, il cyborg definisce una polis tecnologica in parte fondata sulla rivoluzione delle relazioni sociali nell’oikos, l’ambiente domestico. Natura e cultura vengono ripensate; l’una non può più essere la risorsa che l’altra fa sua o incorpora. Nel mondo cyborg ci si preoccupa delle relazioni che uniscono le parti in un tutto, comprese la polarità e il dominio gerarchico. […] Certo, il problema sta nel fatto che i cyborg sono figli illegittimi del militarismo e del capitalismo patriarcale, per non parlare del socialismo di stato. Ma i figli illegittimi sono spesso estremamente infedeli alle loro origini: i padri, in fondo, non sono essenziali. (Haraway, 1995, 40-42)

 

  • Braidotti, il soggetto nomade e l’orizzonte post-umano

 

Molto prossima alla prospettiva di Donna Haraway, rappresentante di un post-strutturalismo e di un post-modernismo femministi e radicalissimi, troviamo Rosi Braidotti, il cui nucleo teorico propulsivo si rintraccia nella teorizzazione di un nuovo soggetto nomade. Il soggetto nomade è un soggetto a suo modo indeterminato, non naturale ma costruito, mobile, variabile. Il vivente è infatti, per Braidotti, transitorio, caratterizzato da continui e alternantesi processi umani-non umani, organici-inorganici, socio-politici e tutti sintesi di un divenire, appunto, nomade.

Contro la dicotomia natura/cultura – che per tutto il corso della storia ha costituito l’identità unitaria del soggetto – Braidotti sostituisce un soggetto non unitario ma relazionale, la cui unica determinazione riposa proprio nella molteplicità.

La tecnologia viene accolta ancora una volta positivamente, non portatrice di dinamiche distopiche, ma punto di partenza per una riflessione che ripensi l’Uomo nella sua accezione classica e antropocentrata:

 

Non ho nessuna nostalgia dell’Uomo – scrive Braidotti –, misura presunta di tutte le cose. […] Accolgo ben volentieri gli orizzonti multipli dispiegati dal crollo dell’umanesimo eurocentrico e androcentrico. Interpreto la svolta post-umana come una felice opportunità di decidere insieme chi e cosa vogliamo divenire. (Braidotti, 2014, 204)

 

Chi e cosa vogliamo divenire, afferma Braidotti, tenendo conto della vita anche nei suoi aspetti non umani (divenire-animale, divenire-terra, ma anche divenire-macchina); aspetti che vanno a indebolire, o addirittura cancellare, il confine secolare posto tra natura e cultura, mettendo definitivamente in crisi non più il soggetto sessuato e genderizzato, ma il soggetto umano tout-court, inscrivendosi così in un orizzonte perfettamente coerente con questa proposta femminista post-generica e post-antropocentrica.

 

La questione storico-politica: tradizione e memoria

 

Nel corso della storia è stato possibile vedere come alcuni elementi della dimensione politica, anche all’interno di formazioni socio-economiche differenti, si siano sempre accompagnati fra loro. Questo, in particolar modo, risulta chiaro quando si tratta di categorie quali tradizione, memoria e oblio. Fra tutte, però, l’aspetto più ambiguo della dimensione politica – e di conseguenza il più interessante da analizzare – è senza dubbio quello dell’oblio: mentre la tradizione e la memoria riguardano rispettivamente una narrazione politico-istituzionale da un lato e una trasmissione talvolta ufficiosa dall’altra; l’oblio si fa strumento e pratica politica, in grado di permettere il superamento rassicurante del trauma che deriva dalle pratiche della vita associata.

 

In altri termini, è come se la retorica e la politica istituzionali di un popolo portassero in grembo un’ambivalenza costitutiva rispetto al senso della loro storia e delle loro tradizioni: se da un lato, infatti, alcune istituzioni si fanno in qualche modo carico del lavoro di trasmissione – come, per esempio, la famiglia –; dall’altro lato, all’interno di una dimensione della politica che sia invece vissuta in quanto spazio pubblico e democratico, vince l’idea – soprattutto con l’avvento del neoliberismo – per cui la storia e la tradizione non siano altro che un bagaglio inutile e pesante con cui l’individuo è costretto a confrontarsi. Di qui, la violenta tendenza di politica e mercato a schiacciare gli individui sul presente e sulla performance, in quanto deliberazione razionale libera dal passato. Questa tendenza, benché tipicamente neoliberale, viene ereditata e riprodotta in forme talvolta diverse, direttamente a partire dal modello democratico istituitosi ad Atene nel V secolo a. C. Ciò che riproduciamo nelle nostre istituzioni non è, tuttavia, la sostanza di tale modello, quanto piuttosto le sue retoriche politiche.

La studiosa che più di tutte si è interrogata sull’aspetto retorico della pratica politica e del suo rimosso è stata, senza dubbio, Nicole Loraux, che, focalizzandosi sulla distinzione tra oikos e spazio pubblico e sui dispositivi narrativi messi in atto all’interno della polis greca, ha rintracciato le dinamiche profonde di inclusione/esclusione che hanno animato la sua vita civica.

La polis appare infatti un luogo prettamente maschile, omogeneo, basato sulla razionalità, la fratellanza e l’armonia degli uguali. Per attuare questo disegno politico, in realtà, la polis greca ha dovuto escludere dal proprio nucleo tutto ciò che avrebbe potuto mettere in discussione, anche solo potenzialmente, quest’idea di Unità, cioè tutto ciò che in qualche modo avrebbe potuto reintrodurre la frammentazione, il Due, all’interno del corpo civico. Gli elementi che nella retorica ateniese si fanno portatori di tale scissione sono, ovviamente, la figura femminile e la differenza sessuale; al punto che le donne vengono considerate escluse dal vincolo di fratellanza che unisce i cittadini ateniesi, “nati tutti insieme dal suolo di Atene”. La donna viene infatti a incarnare, man mano, i concetti della divisione e del conflitto intestino, cioè della stasis e della follia che porta con sé. Essa rappresenta la memoria della riproduzione, dei bisogni corporei, del ciclo della vita e della morte; tutti elementi che devono rimanere al di fuori dello spazio pubblico e politico, il cui obiettivo è infatti proprio quello di liberarsi dalle catene della natura e di sradicarsi dalla dimensione puramente corporea che riduce gli esseri umani a semplici membri della specie. Nella polis si va quindi oltre il corporeo (strettamente legato alla differenza biologica tra i sessi), che viene a sua volta espulso e proiettato all’esterno dello spazio pubblico. Il corpo che rientra nel politico, è un corpo irreale, idealizzato, specchio dell’armonia che anima la città; solo il corpo del combattente e della donna morta di parto sono corpi feriti, sofferenti e al tempo stesso riproducibili: sono infatti le immagini di coloro che muoiono in nome del padre, della patria, cioè in una logica strettamente funzionale alla vita del corpo civico.

In altri termini, in quanto incarnazione della dimensione corporea e della differenza sessuale, la donna è violentemente esclusa, rimossa, dallo spazio politico; ma in quanto femminile, nella sua versione ideale, astratta, essa è reintregrata in maniera irenica, privata della possibilità di agire un conflitto. Natura e violenza vengono così lasciate alle spalle, obliate. O almeno quella violenza intestina alla polis, la stasis che rompe i legami di sangue fra i cittadini, che porta il dissidio e introduce nel politico il non-politico. La violenza, cioè, della follia che sconvolge il logos dello spazio politico. Il legame tra stasis, donne e follia si fa quindi fortissimo.

 

La violenza della guerra è invece legittima, poiché esterna al nucleo cittadino e perciò collante stesso di un popolo. Il Polemos è a sua volta politica, la stasis è, al contrario, il suo opposto. Il primo pertiene agli uomini, la seconda alle donne.

È qui che entra in scena, ancora una volta, la funzione dell’oblio, uno dei dispositivi politici più importanti della Grecia classica. Esso viene elevato a valore civico, a vera e propria virtù politica. Ma perché dimenticare diventa così importante? Innanzitutto perché per far sì che che l’Uno, il nucleo politico, si mantenga tale, è necessario obliare tutto ciò che porta a dividerlo. L’oblio del conflitto è cioè il divieto di ricordare la stasis; chi ricorda viene messo a morte. L’oblio è una necessità politica, una strategia di controllo fondamentale: ricordare è pericoloso, riporta alla memoria la disgregazione, la follia e la violenza.

Stasis e memoria si legano, ma essendo la stasis a sua volta strettamente legata al femmineo, in quanto portatore di dissidio e irrazionalità, stasis, memoria e femminile vengono a legarsi indissolubilmente. Le donne ateniesi sono infatti pericolose perché conservano memoria e sono perciò impolitiche, a metà strada tra umano e naturale. L’uomo, invece, è portatore di oblio, di pace, armonia; è perciò razionale, politico, estraneo alle logiche della natura puramente biologica.

Diventa quindi chiaro come mai la figura della madre incarni, nella retorica istituzionale ateniese, tutto ciò che non è politico, finendo a coincidere con la memoria stessa. La madre rappresenta la figura femminile più pericolosa di tutte; la dea madre è anche dea della memoria e ricorda l’ira, la follia e la violenza nata in seno al suolo ateniese.

Il conflitto nato dal legame di ira e memoria viene perciò depotenziato, a livello istituzionale, attraverso la costruzione di un tempio dedicato alla dea madre, in cui vengono conservate tutte le leggi. Questo passaggio, forse non del tutto lineare, mostra però in maniera netta come nulla venga semplicemente gettato nell’impolitico, ma come tutto venga anzi riassorbito e depotenziato in maniera aconflittuale, informando ognuno di questi elementi di una forte carica ideologica.

 

Tuttavia, se è vero che un certo tipo di politica si fonda sull’oblio, è anche vero che esistono altre forme di politica basate sulla trasmissione e sulla memoria delle pratiche – molto più che delle retoriche – politiche, come nel caso del femminismo, il cui obiettivo è sempre stato quello di mettere in relazione fra loro generazioni di donne e di pratiche attraverso una narrazione diversa, nutrita all’interno di un rapporto generativo e politico privo di imposizioni.

 

La questione dell’autodeterminazione e dell’autocoscienza

 

Tali pratiche politiche, come si diceva in precedenza, sono state codificate e attuate in particolar modo a partire dagli anni Settanta del Novecento. Infatti, se dovessimo tracciare una netta linea di separazione, per quanto complesso, tra quelli che vengono tradizionalmente definiti femminismo di prima ondata e femminismo di seconda ondata, il discrimine fondamentale sarebbe rintracciabile nello spostamento dell’oggetto non solo delle rivendicazioni, ma anche e soprattutto del dibattito.

In primo luogo è di vitale importanza ai fini del discorso parlare di soggettività e non più di soggetto in termini classici e moderni. Se il femminismo di prima ondata, infatti, era stato di carattere primariamente emancipativo, quello di seconda ondata si è invece preoccupato di portare al centro del dibattito l’affermazione della differenza femminile. Affinché questo fosse possibile, è stato necessario appropriarsi consapevolmente di un linguaggio nuovo che escludesse dal discorso femminista categorie prettamente maschili: non più il soggetto cartesiano, universalistico e normativo, trasparente a se stesso e autoevidente, ma una soggettività inclusiva, costruita all’interno di una fitta rete relazionale, che prendesse le mosse da situazioni concrete, contingenti, e non da pretese universalistiche.

La categoria della soggettività nasce quindi in opposizione al modello del soggetto liberale e atomistico della tradizione giusnaturalista e contrattualista, non si fonda su concezioni metafisiche di immediata coincidenza con se stessa, ma vuole al contrario indagare, a partire dalla propria condizione di partenza, la sistematica oppressione a cui è sottoposta, mettendosi costantemente in discussione attraverso un processo che porti infine all’autocoscienza e alla costruzione del proprio sé. Essere una soggettività, e non più un soggetto, significa quindi essere protagonisti del proprio cambiamento, mettersi alla testa di un percorso generativo che aiuti a smantellare, attraverso il loro riconoscimento, tutti i condizionamenti socio-culturali di cui si è oggetto.

In questo senso e all’interno di uno stesso orizzonte teorico, il femminismo di seconda ondata mette al centro delle proprie lotte il concetto dell’autodeterminazione, riappropriandosi così di un termine ambiguo, di origine liberale e inerente alle dinamiche interne al soggetto moderno. L’autodeterminazione in senso femminista si configura perciò come la capacità decisionale di una soggettività, principalmente femminile, rispetto a se stessa a partire dal proprio corpo e dalle sensazioni a esso connesse. Si tratta quindi di un cambiamento prospettico, di un’uscita radicale dai condizionamenti dovuti alle narrazioni e alle pratiche maschili sui corpi delle donne, di una vera e propria sovversione dell’assoggettamento della donna e del suo corpo alle logiche di una società che, in quanto soggettività, le esclude, le rende Altre.

Una delle pratiche che per eccellenza ha reso possibile, soprattutto nei primi anni Settanta, osservare le realtà sociali in quest’ottica del tutto nuova è sicuramente stata quella dell’autocoscienza. Nata in ambiente separatista afroamericano, viene ben presto rideclinata in senso prettamente femminista da ristretti gruppi di donne americane prima ed europee poi. In Italia sono principalmente donne come Serena Castaldi e Carla Lonzi a diffondere la pratica dell’autocoscienza attraverso la formazione di gruppi quali Rivolta femminile e Anabasi. Negli anni che vanno dal 1970 al 1974, l’autocoscienza diviene in Italia pratica di massa, nonostante negli anni successivi veda un declino rapido e sorprendente.

Il termine autocoscienza si afferma grazie alla traduzione che Carla Lonzi fa del concetto americano di consciousness-raising: si tratta di una traduzione poco letterale che tuttavia mette in risalto la problematicità teorico-pratica di tale concetto e la forte ipoteca del pensiero hegeliano su quello di Carla Lonzi. L’autocoscienza hegeliana, infatti, prevede un movimento progressivo del soggetto verso la piena consapevolezza di sé, una consapevolezza che arriva solo attraverso il momento inaggirabile della negazione, dell’annichilimento. Una negazione che si dia, però, necessariamente nella relazione e che porti, così, al riconoscimento delle soggettività in campo.

L’autocoscienza si afferma, quindi, in quanto pratica che vuol dare la possibilità alle donne di sperimentare una piena e consapevole accettazione di sé, che parta da loro stesse e dal confronto con le altre donne, e che sia perciò esterna ai confini tracciati dalla cultura tradizionale maschile. Tuttavia, l’autocoscienza non vuole in alcun modo sostituire l’idea dell’autotrasparenza del soggetto moderno, ma al contrario punta a destituirla attraverso una critica sistematica alla cultura maschile e un’opera di “deculturalizzazione”.

 

La questione della liberazione e dell’empowerment

 

Il termine empowerment può e deve essere utilizzato come chiave per rileggere e risemantizzare i concetti di autodeterminazione e liberazione femminili.

Il termine si trova utilizzato, insieme a quello di gender mainstreaming, per la prima volta nell’agenda della Conferenza di Pechino del 1995, il quarto incontro della piattaforma mondiale sulla questione femminile. Con la Conferenza di Pechino si afferma la necessità di spostare l’accento sul concetto di sesso, sottolineando come le relazioni uomo-donna all’interno della società, debbano essere riconsiderate, mettendo le donne su un piano di parità con l’uomo in tutti gli aspetti dell’esistenza. Questi due concetti – empowerment e mainstreaming – vogliono affermare come valore universale il principio delle pari opportunità tra i generi e la non discriminazione delle donne in ogni settore della vita, pubblica e privata.

Il concetto di empowerment si impone immediatamente come centrale. Tuttavia, il fatto che sia un concetto cardine, non lo rende un concetto chiaro. La sua non-traducibilità in alcune lingue, per esempio, mostra non solo la sua ambiguità, ma la sua polivalenza. Si potrebbe tradurre con “conferire o attribuire potere”, ma non sembra del tutto corretto poiché non tiene conto della valenza performativa del termine inglese; “mettere in grado di…” è già più preciso, in quanto prende in considerazione il potere più che in senso istituzionale, in senso potenziale. Tuttavia, ciò che, in fin dei conti, sembra più importante mettere in luce è lo spostamento che tale concetto comporta nelle relazioni e nelle dinamiche di potere costituite, una sorta di “accrescimento di potenziale”.

In che modo, però, il concetto di empowerment ci parla anche di autodeterminazione e liberazione? Prima di tutto, per collocarsi in questa prospettiva, è necessario parlare di empowerment a partire dal corpo. In Italia, a occuparsene in maniera particolare è Alessandra Chiricosta. La domanda che si pone è che valore possa avere un potenziamento che non parta dalla dimensione corporea e dall’unità mente-corpo. Una delle credenze più radicate nel senso comune di quasi tutte le culture, e in particolar modo in quella occidentale, è infatti l’idea per cui la forza fisica sia prerogativa esclusiva del corpo maschile. Il pensiero occidentale ragiona e si muove all’interno di una concezione antropologica, dell’individuo e dell’essere umano, ben determinata: una concezione quasi cartesiana dell’uomo, che vuole la mente come guida distinta dal corpo. Cosa significa, in questo senso, potenziare l’unità mente-corpo in una dimensione sessuata? Significa che, per poter accogliere un discorso femminista che porti all’autodeterminazione, si debba necessariamente partire dall’unità psico-corporea; ci si debba porre nel mondo in quanto soggettività agente. Ma questa azione, questo agire come si esplica? Noi assistiamo costantemente e continuamente a pratiche di castrazione e autocastrazione psico-corporea, dimenticandoci del fatto che a noi il corpo non appartiene soltanto, ma che noi siamo corpi: il corpo è e deve essere sempre il punto di partenza.

L’inferiorizzazione del corpo femminile va di pari passo con un disciplinamento che forma ed eternizza una cultura per cui il corpo femminile è un corpo antitetico al corpo combattente. La violenza di genere nasce e si nutre di questa idea per cui al corpo femminile sarebbe preclusa la possibilità di esprimersi attraverso di esso. Perché? Perché il corpo femminile è, tradizionalmente, il corpo della cura; tuttavia, considerare in opposizione le due cose è tipicamente culturale. Si tratta infatti di un’operazione surrettizia il dividere la dimensione della cura da una dimensione che permetta un’autodeterminazione a partire dal controllo del corpo e della forza da un punto di vista non più quantitativo, ma qualitativo. Un’operazione, appunto, tutt’altro che naturale: si tratta, anzi, di “profezie autorealizzantesi” nate in un contesto esclusivamente culturale che, col tempo, si fa però naturale.

Il potere coercitivo e violento, come qualunque altra forza, se non trova una forza opposta che gli si opponga, uguale e contraria, è in grado di espandersi all’infinito. Quel tipo particolare di forza che è la violenza, se non trova opposizione, continua cioè a esercitarsi sia come dimensione privata, sia come dimensione pubblica.

Questo ci porta a rintracciare un nascosto quanto antico sodalizio tra femminismi e pratiche marziali non militaristiche: si tratta del corpo combattente femminile come possibilità di empowerment. Si può trovare, cioè, un’affinità particolare tra le arti marziali e le pratiche di empowerment femministe, affinità che però non va scovata nelle pratiche di autodifesa. Il concetto di autodifesa, infatti, è depotenziante e si inscrive perfettamente in quel tipo di narrazione che vuole che le donne siano legittimate nell’uso della forza solo per proteggersi, in quanto vittime.

Le pratiche marziali, invece, vogliono metterci in contatto con la nostra dimensione corporea, renderci cioè pienamente consapevoli dei nostri limiti e delle nostre capacità, educarci a esprimere e indirizzare consapevolmente come vogliamo le nostre forze fisiche in quanto possibilità di autodeterminazione e liberazione.

 

Eppure l’empowerment non passa solo e necessariamente dal corpo, o meglio, non solo dalle pratiche marziali. L’empowerment può e deve nascere, prima di tutto, da una pratica politica femminista, la quale comporta una determinata postura: ovvero il partire da sé e dalla propria esperienza.

La parola empowerment, come abbiamo visto, ha nella sua etimologia il tema del potere, è un accrescimento di potere inteso come relazione, e sposta gli altri due concetti – autodeterminazione e liberazione – dalla prospettiva del potere alla prospettiva della possibilità. La relazione infatti, per quanto riguarda la liberazione e l’autodeterminazione, diventa fondativa, poiché chiama in causa anche il riconoscimento. Si tratta di una libertà che ha bisogno di essere riconosciuta, ma non più – non necessariamente almeno – dall’orizzonte maschile: il soggetto del riconoscimento è e deve essere l’altra donna.

 

La questione giuridica

 

Altra questione da affrontare, fondamentale e delicata al tempo stesso, è quella giuridica. Dare conto della complessità e della stratificazione culturale posta in essere alle questioni relative al diritto, alla giustizia e più in particolare alla pluralità dei diritti sociali e civili delle donne anche in relazione al femminismo su scala transnazionale, infatti, significa prima di tutto tener conto della dimensione del conflitto. Tener conto del conflitto in un ambito giuridico che sia femminile e femminista richiede, a sua volta, che ci si muova all’interno del piano simbolico; Tullio Ascarelli recupera il portato simbolico di figure quali Antigone e Porzia attribuendo loro significati diversi ma convergenti in rapporto alle annose questioni della giustizia, della legge e del diritto. La figura di Antigone incarna, infatti, il conflitto che si viene a instaurare tra la legge formale e l’idea di giustizia in senso generale, cioè un’idea del giusto che risponda a un ordine simbolico superiore al particolarismo della legge.

 

L’uomo non può accettare la regola sociale solo perché osservata o imposta da una forza superiore; ne ricerca una giustificazione che non può essere data dalla semplice frequenza della sua osservanza o della efficienza della forza che ne assicura una effettiva sanzione; vuole ricondurla a un ordine la cui ultima giustificazione pur si ritrova in una concezione e in una credenza che segni il giusto e l’ingiusto.

Alla regola di fatto osservata si contrappone così la norma che si pone come criterio di giudizio della prima. E il contrasto si riproduce tra qualunque norma storicamente dettata e la norma il cui imperativo il singolo sente nella sua coscienza; si riproduce nella stessa coscienza del singolo come intimo conflitto tra una norma accettata e una divergente valutazione della stessa. (Ascarelli, 1959, 6. Corsivo mio).

 

Porzia dal canto suo, vestendo panni maschili, riesce a ristabilire l’equilibrio infranto attraverso un espediente che estingua il debito contratto senza spargimenti di sangue. Entrambe le figure connotano due idee di giustizia e di diritto di carattere antiformalista. Da un lato, cioè, un modello di giustizia che si pone al di là della legge denunciandone il carattere oppressivo; dall’altro, un’idea di giustizia che reinterpreta la regola scritta rovesciandola a proprio vantaggio, muovendosi cioè dentro e fuori il diritto stesso in direzione di una rivendicazione e una rinegoziazione costanti.

Rimettendo al centro il rapporto tra diritto e società o, meglio, tra diritto ed esperienza umana e sociale, in relazione alla giustizia, ci si rende conto che quest’ultima non può essere ricercata solo all’interno della cosiddetta cultura giuridica interna, ma deve necessariamente misurarsi anche con la cosiddetta cultura giuridica esterna, cioè esterna ai tribunali e agli ordinamenti giuridici, per poter così rispondere, di volta in volta, a un’idea di giusto più ampia. Non solo, dunque, conflitto tra una forma di giustizia immediatamente riconducibile all’ordinamento giuridico positivo e un modello di giustizia derivante invece dal modello giusnaturalista; ma il recupero della funzione sociale, etica, simbolica e umana dell’idea di diritto e di giustizia dinanzi allo stesso ordinamento giuridico, alla società e all’esperienza di ognuno.

 

Quando parliamo di diritti femminili o di diritti delle minoranze, ci scontriamo quasi sempre con un fatto evidente, e cioè che questi diritti non coincidono quasi mai con gli ordinamenti giuridici e le norme vigenti. Le donne come soggetto e oggetto del diritto sono state e sono ancora intese come gruppo sociale o come status, cioè come categorie particolari, di contro all’universalismo del potere maschile.

Dal punto di vista del diritto in generale, invece, sempre in rapporto al femminismo, ci confrontiamo più spesso con la messa in questione della stessa definizione positiva del diritto.

Inoltre, per quanto riguarda il recente dibattito femminista sulla questione della giustizia, è emersa con forza la necessità di non concentrarsi unicamente su una giustizia di tipo distributivo, che in qualche modo maschera altre forme di oppressione (come per esempio quella di una cultura giuridica prettamente maschile sul diritto femminile), ma anche di tener conto obbligatoriamente delle differenze sessuali, etniche o di altre minoranze. Per potersi sentire riconosciuti è cioè indispensabile che dal punto di vista giuridico si tengano presenti tutte le discriminanti e le differenze sessuali. Tuttavia, Nancy Fraser contesta tale impostazione poiché crede che, al contrario, la lotta per i diritti in epoca post-socialista abbia occultato i problemi legati all’ordine distributivo della giustizia sociale (cioè mascherato le diseguaglianze sostanziali interne alla società dietro un’uguaglianza prettamente formale tra cittadini) per muoversi invece in un’ottica unicamente culturalista.

Nelle prime pagine di Fortune del femminismo possiamo infatti leggere che, secondo Fraser, «muovendo “dalla redistribuzione al riconoscimento”, il movimento ha spostato la sua attenzione sulla politica culturale, proprio mentre il nascente neoliberismo dichiarava guerra alla parità sociale» (Fraser, 2014, 9).

 

La complessità del dibattito individua alcuni punti nevralgici della questione: primo fra tutti il sostanziale androcentrismo della cultura e della società capitalistiche e, di conseguenza, la necessaria sostituzione dell’idea del patriarcato con l’idea del paternalismo; cioè l’inclusione, più che l’esclusione, delle differenze sessuali nella sfera della governance con l’obiettivo di aumentare il plusvalore all’interno di un quadro più generale di sfruttamento economico.

La sfida che si pone alle donne e al femminismo è quindi quella di tentare una reinterpretazione del diritto e dell’ordine costituito sulla base di un modello di giustizia che prenda le mosse dall’esperienza individuale.

 

Simone Weil, come ci ricorda in epigrafe il testo del 1987 della Libreria delle Donne, ci insegna che esiste un cattivo modo di credere di avere dei diritti e un cattivo modo di credere di non averne. Allo stesso modo, è possibile dire che dal punto di vista della libertà femminile – e quindi anche della libertà di tutti – esista un modo poco conveniente di utilizzare e praticare il diritto, e cioè quello di sollecitarlo a esercitarsi in quanto potere, piuttosto che sollecitarlo in quanto sapere basato sull’esperienza.

Silvia Niccolai ricorda come uno dei princìpi generali del diritto, cioè una regula iuris posta dall’esperienza giuridica, sia, per esempio, il mater semper certa che, come anche il principio del contraddittorio, è in qualche modo alla base di un modello giuridico fondato sul sapere. Le regulae iuris sono princìpi che fanno parte del senso comune e della convivenza civile e che sono perciò assiologicamente orientati: il loro valore risiede non nella normatività, ma nel criterio decisionale.

Il diritto si fonda, infatti, su due modelli: l’auctoritas e la ratio. Il primo modello – che nella giurisprudenza contemporanea tende a prevalere – espropria l’esperienza, cioè la ratio, attraverso una codificazione che, invece di prendere le mosse dal sapere, prende le mosse da saperi specifici e particolarizzati (come, per esempio, nel caso dell’economia). Il secondo modello, invece, tende a interpretare il diritto in quanto pratica e si pone il problema di difendere l’opinabile, il discutibile e quindi la realtà intesa in senso conflittuale: tutto ciò che riguarda le cose umane può essere, cioè, altrimenti. Tuttavia, soprattutto al giorno d’oggi, si preferisce operare attraverso l’uso di una ratio di tipo diverso: una ragione strumentale, calcolante, non più basata sulla controversia e sulla critica, quindi anche sulla messa in questione dell’abuso, ma fondata sul comando e sul riconoscimento di un’uguaglianza astratta di fronte alla legge invece che sull’equità dell’esistenza sociale.

Il diritto si pone così come artificio e, dimentico della reale natura di ciò che chiama in causa, trasforma i corpi stessi in artifici. Di contro all’operare dell’auctoritas, diviene così necessario utilizzare i vuoti legislativi come opportunità di libertà.

 

La questione relazionale

 

Per concludere, vorrei soffermarmi brevemente sul problema della relazionalità e della famiglia in quanto dispositivi, in moltissimi casi, disfunzionali. Nella famiglia nucleare si viene infatti a verificare la singolare condizione per cui diverse dimensioni esperienziali e affettive sono vissute tutte all’interno della stessa relazione. In intimità e relazionalità di tipo diverso queste dimensioni sono, invece, scorporate.

Avere una relazione di coppia stabile, poiché perfettamente inscritta all’interno del sentire comune della nostra società, diviene, per esempio, una condizione necessaria – anche se forse non del tutto sufficiente – per l’acquisizione di un certo status.

Tuttavia, è importante analizzare su basi diverse il concetto di coppia obbligatoria anche sulla scorta di un concetto come quello dell’eteronormatività: così come l’eterosessualità obbligatoria non consiste semplicemente nei comportamenti eterosessuali degli individui, ma anche in tutte le pratiche e i codici sociali che fanno sì che l’eterosessualità sia imposta come forma naturalizzata di sessualità, così anche la coppia obbligatoria non va semplicemente confusa con il semplice fatto di avere una vita di coppia a due, ma piuttosto con il fatto che l’idea di tale vita di coppia venga in qualche modo naturalizzata, dando così accesso anche a tutta una serie di privilegi e creando una varietà di micropratiche sociali, come per esempio un pieno riconoscimento che è invece precluso ad altri tipi di relazioni.

La liberazione dalla coppia obbligatoria/standard non è tuttavia una pratica individuale, ma collettiva. Questo perché il concetto di coppia standard è non solo il modus vivendi maggiormente diffuso e accettato, ma anche e soprattutto perché da essa passa la narrazione stessa che facciamo delle nostre vite. Non si tratta più, quindi, di una semplice negoziazione interna alla coppia stessa né di un percorso di crescita individuale; si tratta piuttosto di un lavoro politico collettivo di ridefinizione di tutti i rapporti. È infatti solo a partire da tutte le altre relazionalità che diviene possibile mettere in discussione la coppia tradizionalmente intesa.

Sempre di più e in maniera opposta rispetto al passato, il concetto di coppia obbligatoria viene legittimato a partire dalla retorica dell’autorealizzazione: la coppia obbligatoria, infatti, ci parla presuntivamente di autenticità dei sentimenti, di libertà e maturità individuali, muovendosi in questo modo sul piano dei valori privati e non più nella dimensione pubblica. Il contenuto dell’autorealizzazione ci viene presentato, inoltre, in maniera normativa, al punto tale che questa idea di felicità acquisisce degli effetti performativi. La retorica dell’autorealizzazione – anche indipendentemente dal contenuto che può avere – diviene, cioè, un dispositivo di governance che implica, perciò, una individualizzazione e una depoliticizzazione della ricerca della felicità, producendo, di fatto, individui frustrati, ansiosi e infelici.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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CAVARERO, A., (2009) Il pensiero femminista. Un approccio teoretico, in Cavarero, A., Restaino, F. (2009 a cura di) Le filosofie femministe, Milano, Mondadori, pp. 78-115.

 

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Redazione

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