PRIMO ATTO
Facendo il punto sugli arazzi di Cluny: una douce imboscata di parole
Intersezioni: Mistificazione amorosa e simbolico espropriante
SECONDO ATTO
Scortesemente in trappola: dislocandomi verso una libera immaginazione
Dislocazioni: Tu dis-Responce: «Tu nascondi, io invento»
Bibliografia
Tavole
Poiché è una fabula occultata, un récit tissé de mensonges, non mi basta demistificarla: se la rimozione dell’imboscata è, per la forza dell’immaginario, un atto politico io qui voglio riscriverne la trama nella forma irriverente della libera immaginazione che procede, da me, entro la relazione tra corpo e corpi della differenza sessuale. Qualcosa di più di una riappropriazione di un codice altro, piuttosto il desiderio di sorprendermi ancora entro una genealogia di donne dissidenti compiendo l’atto, politico, della pratica trasformativa del reale; “gesto di intervento” per l’irruzione della mia voce che ri-narra il testo (l’arazzo) assumendo questa stessa voce, tra silenzio e ascolto, a immaginazione propulsiva.
- Facendo il punto sugli arazzi di Cluny: una douce imboscata di parole
Primo atto: «Il Fisiologo ha detto dell’unicorno che ha questa natura: è un piccolo animale, simile al capretto, ma ferocissimo. Non può avvicinarglisi il cacciatore a causa della sua forza straordinaria; ha un solo corno in mezzo alla testa. E allora come gli si dà la caccia? Espongono davanti ad esso una vergine immacolata, e l’animale balza nel seno della vergine, ed essa lo allatta, e lo conduce al palazzo del re»[1]. [Il Fisiologo]
Le tapisseries de La Dame à la licorne[2], risalenti alla fine del XV secolo e oggi conservate al Musée du Moyen Âge-Cluny (Parigi), ‘mettono in scena’ (attraverso la celebrazione dei cinque sensi e di un sesto, ‘enigmatico’[3], Mon seul désir) alcune auto-imboscate dell’immaginazione femminile funzionalmente occultate nel tessuto (l’arazzo è tissu, da tisser) di un immaginario che è un vero récit tissé de mensonges. Nella sua tissure infatti la Donna[4], Allegoria dei sensi, sembrerebbe felice di non essere lei stessa la tisseuse ma l’oggetto interno di un canone[5] estraniante (e non soggetto di una dissonanza[6]) forgiato, attraverso e contro lei, da un tisseur (tessitore). Diversamente dall’immaginario sul femminile della vergine-seduttrice (‘messo in scena’, ad esempio, nell’arazzo La licorne est trahie – nella serie de La chasse à la licorne, Metropolitan Museum of Arts di New York[7] – ove la Dama guarda compiacente l’uomo che ucciderà la licorne, già ferita dal cane fedele all’auto-imboscata di essere esca per sé), nelle tapisseries di Cluny vi è la spensierata gaiezza della Donna reclusa (quale horto conclusus) nella sua essenza vaporosa.
A dispetto della sua ambientazione cortese-cavalleresca qui non vi è alcuna scena di caccia, piuttosto un armonioso kosmos di donne-animali-vegetali che, nello stile millefiori, si diletta giocoso ai miei occhi mentre, in tutta questa perturbante quiete, il mio pensiero si inquieta. Dov’è infatti l’uomo? e dove il cacciatore d’amor cortese ha nascosto la sua trappola? Perché mi è chiaro che si sia nascosto in qualche dove dell’ordito[8], magari proprio dietro il suo telaio, dove il disegno di un arazzo è sempre capovolto. Récit tissé de mensonges e di punizioni inflitte entro un immaginario che interpreta l’imprevedibile come ‘perturbante’ non-addomesticato di cui la donna/licorne è sublime allegoria. È infatti punitiva la mossa, o messa in movimento, dell’uomo verso il luogo di incontro con la donna: la caccia si svolge nella foresta quale atto ritualmente fondativo dell’attitudine femminile (il suo ruolo naturale) al rifugio e alla solitudine che, nell’immaginario, è l’atto simbolico del proteggere entro sé il maschile[9]. In tale foresta (che dovrebbe essere il luogo di incontro degli amanti) si realizza una lotta intestina che, ripensando agli studi di Loraux[10], è una ‘guerra civile’ qui dislocata dalla polis al ventre virgineo della donna nella forma avventurosa della caccia, per il cavaliere, e della forzata inclusione incorporea (per violazione di ventre virgineo) per la Dama. In questo non-luogo di incontro la donna/licorne è dapprima isolata (allontanata dalla città), quindi braccata con il duplice espediente dell’auto-imboscata e infine, quale ‘preda catturata’, è condotta alla corte del re (reintegrazione normativa nella funzione domestica/privata dell’inclusione espropriante). Nelle tapisseries di Cluny tale récit tissé de mensonges è già nella rimozione dell’antefatto (isolamento e cattura nella foresta) entro l’idilliaca rappresentazione di una Dama e di una Licorne (sdoppiamento di sé procedente da scissione) felicemente accanto (in un modo che l’uomo non potrà mai comprendere) nella recinzione edenica di un giardino chiuso entro la città. Récit tissé de mensonges: menzogna del ‘mettere in atto’ l’umiliante negazione di un gesto compiuto fuori scena perché, con Carla Lonzi,
l’artista si aspetta dalla donna la mitizzazione del suo gesto ed essa, finché non inizia un suo processo di liberazione, risponde esattamente a questa necessità della civiltà maschile. L’opera d’arte non vuole perdere la sicurezza di un mito che si adagia nel nostro ruolo esclusivamente ricettivo[11].
Récit tissé de mensonges anche nel canone cortese che assume simbolicamente la licorne (a dispetto della lingua francese) nel genere maschile per la forza fallica del corno e la sua cedevolezza di fronte alla dolcezza femminile finché dalla polis irrompe, furioso, un corteo di cavalieri/cacciatori portando in trofeo una Dama che funge da specchio. Su questo si scaglia, violento, il loro urlo di guerra: lo specchio si crepa[12] e su questo si accascia, infranto, la licorne ferita finché non irrompe, irriverente, una immaginazione dissonante. E poiché l’ordito delle tapisseries vuole celarsi allo sguardo di chi guarda ma non di chi lo esegue io procedo dal suo ‘materiale’ che, impiegato per la filatura, ritrovo qui come fibra organica, di origine animale, soggiacente ai colori del canone artistico. È la pelle, diafana, della Donna: polimero di quella sostanza complessa che è l’immagine di lei. Già il termine tapis, tappeto, ha in sé l’ambivalenza semantica di rinviare sia alla “morbidezza” (la dolcezza/mollezza –(mulier)– connaturale alla donna nello stereotipo femminile) sia alla “forza” che, se fisica e non ‘morale’ del sapere accogliere/sopportare nel dolore e nella cura, le è disconosciuta (fino al “dolorismo”[13] dell’assenso auto-espropriante) nel gioco (la maschile arte ludica della cultura) del ‘mandare al tappeto’. La force è infatti qui l’atto del dare forza (Vas-y!) per l’immaginario dell’être courageux in quanto forcément forcer fino alla forzatura di questa imboscata che vuole la Donna sia come oggetto-complice della poiesis artistica della sua oggettivazione (nel modo passivo/recettivo dello stereotipo del Femminino) sia come soggetto-fruitivo di questo immaginario autoespropriante. Due modalità che esigono, per persuasione seduttiva e ‘introiezione del carnefice’, la sua complicità entro l’estraniante sublimazione del suo corpo-metafora patita in relazione a un uomo che, con le parole di Carla Lonzi, «non dà testimonianza di lei»[14].
L’ostentata rappresentazione della Dama, quale oggetto interno al canone, congiunta all’assenza dell’uomo che si mantiene strategicamente dietro la sua ‘messa in scena’ fantasmatica, anche negli arazzi di Cluny, insospettisce circa l’effettiva ‘rappresentanza’ femminile. Perché la donna-metafora si trasformi, con le parole di Laura Moschini, da «paesaggio a paesaggista» è necessario ricordare che oltre
ogni motivazione “estetica” o “linguistica” esiste infatti una difficoltà per le donne a “dirsi”, ad affermare il valore di una differenza non solo oggetto di liriche o canzoni, ma concreta, reale ed utile alla società. Analogamente avviene per le esperienze frutto di scelte autonome[15].
La rappresentanza femminile è negli arazzi di Cluny emblematicamente minacciata non dalla presenza (trasparente) quanto dalla trasparenza (non visibilità) dell’artista/cacciatore nascosto al nostro sguardo tra occultamento e rimozione di un atto che potrà assurgere, così, a valore mitico/fondativo. L’efficacia di tale sottrazione, funzionale all’auto-imboscata femminile, ipostatizza il ruolo delle donne che, con Federica Giardini, «destinatarie di enunciazioni e contenuto di enunciati altrui»[16] patiscono la deprivazione della forza sia rispetto alla libera immaginazione di sé sia alla libertà di rappresentanza politica.
La rappresentazione di sé eccede lo scambio effettivo tra parlanti, rimanda a un’altra scena che determina chi parla e come, chi prende parola e chi parla soltanto […] In un ordine simbolico che determina la posizione femminile come ausiliaria di quella maschile […] ritorna così il problema della presa di parola, una parola che sia comunicativa, che esprima chi parla, che sappia sollecitare attenzione e ascolto, non rumore ma voce che sappia entrare nel conto, nelle relazioni[17].
E dunque, quale è l’effetto propulsivo di questo Vas-y! che opera in modo antinomico rispetto allo stereotipo della molle forza seduttiva del femminile (la mollezza del suo corpo nello svaporamento della sua mente)? Il soffice, doucer da doux che non fa violenza alla natura perché appartenente all’ordine della natura, ha infatti un procedere lento (doucement) e silenzioso (en douce) che arriva pian piano e di nascosto (tout doux): sembra l’incedere di chi tende una trappola, invece è il passo felpato della licorne che cade nell’auto-imboscata dei cacciatori per il corpo mollemente esca della Donna. Chi tende la trappola ha une intelligence souple, vivace; chi è sedotta ha invece un corps souple, flessuoso. E così negli arazzi di Cluny abbondano le pieghe morbide (plis souples) attorno all’abito-volto della Dama: linee sfocate che alludono alla sua peau douce (pelle morbida), evanescente nella lumière douce. La sua natura, riferendoci ancora allo studio di Laura Moschini, è infatti «molle, generatrice di disordine e per questo l’unico modo di “riportarla all’ordine” è che venga inserita in una famiglia, sotto l’autorità del Padre di famiglia»[18]. La Donna è dunque il corpo della cedevolezza della licorne (souplesse) che non fa resistenza al tatto (è souple, il suo ventre morbido è l’esca per l’auto-imboscata); la sua mollesse, la sua délicatesse, è guarda caso ‘messa in atto’ nel canone artistico del Flou che sfuma non solo i volti ma dei volti quanto è necessario rendere evanescente: le loro acconciature vaporose, le loro teste piene d’aria.
In tale delicata tappezzeria (icona della donna nella sua umiliante trasmutazione in Dama) va al tappeto il valore della differenza di genere[19] tra lei che accede al gioco come ‘oggetto’ (è infatti la licorne l’oggetto del gioco), per una sua inabilità naturale tutta funzionale alla ‘forza morale della resa’, e lui che con la ‘forza del sopruso’ lo mette in atto. E questo per un immaginario espropriante (il canone cortese-cavalleresco dell’imboscata omologante che ancora ci interpella, entro un mutato contesto economico-politico, nella ‘messa a valore’ degli stereotipi sul femminile[20]). Tale caduta solca il corpo della donna sotto il colpo di un’immagine reificante che, nella finzione artistica della sublimazione, lo ipostatizza nella dislocazione metaforica indebolendolo per la potente efficacia del simbolo[21]. Dunque la donna si rappresenta (nel duplice senso dell’essere-vista e del veder-si, per occhi di altro, come altra a se stessa) nell’umiliazione di essere ‘morbida tappezzeria’ riscattata in ‘arazzo’ per la forza di un immaginario entro cui è molle oggetto. Nelle tapisseries di Cluny, eseguite per essere appese alle pareti di abitazioni tanto ampie da non essere facilmente riscaldabili, le Dame si offrono docili allo sguardo nella mollezza delle loro membra, dei loro gesti delicati e del loro squisito mutismo non interpellante. Sono icone, Idee reificate nell’immagine, che possono essere nascoste o ostentate a piacimento; sono l’essenza carpita dall’immaginario che ora puoi avvolgere, come un arazzo, e ora puoi srotolare sotto lo sguardo compiaciuto del committente. Nel canone espropriante del corpo-metafora tapisser significa infatti anche tappezzare e dunque ri-coprire, il ‘coprire due volte’ nella duplice modalità dell’immaginario espropriante, una morbidezza funzionale all’autoimplosione femminile della propria forza. L’atto del ri-vestire la forza delle donne, parlando per loro, è agito (anche come occultamento) nell’assenza strategica di chi forgia l’arazzo realizzando, nella rappresentazione del corpo-metafora delle donne, lo svuotamento del loro essere-corpo attraverso l’ostentazione della superfluità del ricamo. Il mezzo punto e il ricamo sono tecniche di esecuzione dell’arazzo che, ricoprendo la nudità del corpo, intessono sia l’inerte passività freudiana del ‘femminile’ sia la concavità vaginale/uterina (da riempire con altro da sé) del ‘vaso-contenitore’ del Femminino (Jung[22] e Neumann[23]). Da un lato, infatti, ricamare è broder (e sans broder è il ‘non ricamarci su’, ovvero non mistificare i fatti entro una immaginazione derealizzante), dall’altro il faire tapisserie (diversamente dal senso attivo/maschile del ricamo a piccolo punto o tapisserie au petit point) è la sua connotazione passiva/femminile.
Ma quanto è politica l’ostensione femminile, già nel codice fiammingo degli arazzi di Cluny, e in che modo la sua sublimazione è perturbante tappezzeria nel contesto tutto naturale (intimo e perciò delicatamente domestico) di vegetali e animali (il biblico “giardino chiuso”) nell’eterna primavera dello stile millefiori? Come e a quale prezzo, poi, opera la difficile immaginazione femminile entro e fuori l’immaginario del tapissier ri-coprendo (nel duplice inganno dell’auto-imboscata) il ruolo di tapis quale morbido tappetino per la forza di una violenta estraniazione? E ancora, in questo envoyer au tapis (‘mandare al tappeto’), quanto è umiliante l’atto del marchand de tapis nel dérouler le tapis rouge o ‘stendere un tappeto rosso (come nei ‘fondali’ di Cluny) ai piedi’ di lei, altrimenti incespicanti, come già nel mito di Euridice ferita al calcagno? Come procedere al mettre sur le tapis (‘mettere sul tappeto’) la mistificazione dello stereotipo femminile bisognoso di tutela nella cui debolezza, che è soltanto quella dello stereotipo tra falsità e forza della sua pervasività[24], la donna finisce per inciampare (se prendre les pieds dans le tapis) a partire dal linguaggio autoespropriante? E come si realizza l’addio al tapis roulant per dislocarci altrove?
Per sottrarci all’inclusione funzionalmente oggettivante del femminile, oltre il femminismo dell’uguaglianza[25] e interrogandoci sull’odierno “paradigma riproduttivo”[26], dobbiamo innanzitutto assumere la ‘passione’ dell’essere-corpo-in-relazione quale esperienza di abbandono, seppure da infausto abbraccio, per il riconoscimento della forza e della sua creatività agita nel conflitto. In particolare l’autonomia rispetto al canone procede da una ‘rottura’ sia rispetto all’immaginario artistico fondato sul mito dell’artista o, per dirlo con Carla Lonzi, sulla funzione mercificante del «mestiere fasullo» del critico d’arte[27], sia all’ambito dell’Estetica laddove questa intenda, ancora, il ‘distacco’ e i ‘sensi’ (o corporeità) propedeutici ad una più alta conoscenza razionale e logocentrica. La riscrittura dell’esperienza, la cui prima pagina è bianca quale assunzione del silenzio entro cui fare “tabula rasa”[28] del linguaggio auto-espropriante, è una pratica più radicale dell’epoché fenomenologica che per la sua impostazione eidetica, anche nella Einfühlung di Edith Stein[29], conserva il fenomeno-mondo quale suo residuo lasciando emergere la mia esperienza vissuta del fenomeno e il suo correlato che è il fenomeno stesso[30]. Il diverso atto del “mettere al mondo il mondo”[31], entro il pensiero della differenza sessuale, intenderà al contrario la corporeità non più come il medium per un mondo già dato, piuttosto come possibilità della sua inaugurazione simbolica a partire dal simbolico materno[32] (o ‘corpo-memoria’) inaugurato dall’auctoritas femminile del ‘consigliare’ (alicui autore esse), nel senso arendteiano[33], e dell’‘accrescere’ (augere). L’esperienza creativa delle donne presenta infatti, già nel suo momento produttivo, un complesso legame con un particolare tipo di piacere non conformativo (al canone) modulato tra επιθυμία (“desiderio”) e μηδέν (“nulla”). L’idea platonica del non-essere come alterità dell’essere [Sof., 242 d], nella pratica femminista tra poiesis e aisthesis, si è infatti tradotta come desiderio dell’assenza quale affrancamento ornamentale dalla nozione di alterità intesa come nulla, o negazione, dell’essere strumentalmente incontrate e funzionalmente stigmatizzate. La forza del simbolico è qui l’ornamentale quale non-riconoscimento dell’immaginario: il flusso decorativo di andata e ritorno ritma in tal senso la poiesis del “mettere al mondo il mondo”[34]. Ripensando a Jauss[35] dobbiamo quindi capovolgere l’aisthesis nella poeisis ovvero intendere quel «rivitalizzare la percezione delle cose resa neutra dall’abitudine»[36], propria dell’esperienza estetica, in un ‘sapere poetico’ che desidera l’assenza quale non conformazione a un mondo dato, alla donna, come mancanza. La «riottosa estraneità» del mondo, contro cui si articola la produzione artistica per Hegel[37], nell’estetica femminile si risolve infatti nella difformità dell’assenza quale ornamentale e discontinua compresenza di struttura e dettaglio. Il gioco linguistico ornamentale riabilita così la presenza entro l’intermittenza della voce, intesa come “corpo donato alla parola”[38], tra dislocazione e accrescimento della soggettività duale. Nell’arte pittorica, ad esempio, le donne ritratte nell’atto del leggere sono quasi sempre anonime e distanti allo sguardo del committente/fruitore dell’opera: lei è oltre la tela, nelle riflessioni di Annarosa Buttarelli, separata da noi, assorta in un raccoglimento che segna la distanza nell’assenza del suo stesso nome.
Di fronte ai testi della tradizione maschile si dispone un’autorità che ha radici e alimento altrove […] Il suo sguardo che scorre le righe, le sue mani che reggono i fogli sono di una donna con un mondo intorno scritto per la gran parte degli uomini, ma nel quale, e oltre il quale, non perde la sua libera differenza. C’è un nome per dire questo, un nome che è un’eredità lasciata da Carla Lonzi: tabula rasa.[39]
La discontinuità come assenza del nome è già mancanza di identificazione: la distanza non può infatti non capovolgere la classica articolazione dell’esperienza estetica sostituendo l’immedesimazione col desiderio, senza rimpianto, di un’assenza che procede e torna tra le pagine della storia. In tal senso, rispetto alla seconda modalità di imboscata del canone (che vorrebbe la donna soggetto-fruitivo della propria auto-espropriazione), la fruizione non è più data nella distanza ottica dell’oggettivazione estetica né entro la solipsistica poiesis della scrittura. Si tratta piuttosto di un atto generativo quale dislocazione linguistica procedente dalla corporeità di un logos che ora assume, come nel fondo purpureo degli arazzi di Cluny, il colore della kalche che è lo smarrimento di Antigone nelle parole di Ismene: Delois ti kalchainous’ epos («Tu sei sconvolta da qualche pensiero»), [Sofocle, Antigone v. 20]. La novità dell’inatteso realizza qui il riconoscimento entro il non riconoscimento dell’immaginario (maschile)collettivo dando corpo a un ornamentale simbolico[40] modulato secondo l’ordine screziato di una difformità irriverente perché, ancora con le parole di Carla Lonzi,
la creatività maschile ha come interlocutore un’altra creatività maschile, ma come cliente e spettatrice di questa operazione […] la donna […] condizionata in una categoria che garantisce a priori al protagonista della creatività l’apprezzamento dei suoi valori. Mentre si riconosce alla creatività una funzione liberatoria, si istituzionalizza l’arte e con essa una controparte neutrale che assiste ai gesti degli altri[41].
Nessuna fruizione artistica può darsi in questa raffigurazione o ‘messa in scena’ auto-idolatrica dell’Individuo: l’atto ludico procedente da ludico piacere è troppo distante, e sempre più, a ogni possibile ‘passo di caccia’. Un inaspettato atto creativo femminile, procedente da una genealogia di donne né adescate né adescatrici, sarà la libera fruizione del non-essere-dimora (contro gli stereotipi della foresta e del vaso-utero del Femminino) entro e per un immaginario dislocante e sistolico come il tempo che pure sostiene e pure trasforma, forte come l’incedere notturno di una licorne che, scampata alla caccia, liberamente vaga nel bosco.
A occhi chiusi lui la immagina, ma lei è già oltre.
Intersezioni – Mistificazione amorosa e simbolico espropriante
Le Dame senza nome e senza storia degli arazzi di Cluny sono espressione di quell’immaginario fiammingo[42] del XV secolo il cui canone[43] fonda, per la novità dell’immagine-ritratto ed entro la dialettica inclusione/esclusione di quanto poi ‘normalizzato’ e dunque ‘reintegrato’ (ma come altro da sé), l’iscrizione del nome quale battesimo artistico dell’Individuo (maschile)[44] entro la storia. E qui, da questa prima immagine di un soggetto ipostatizzato come neutro e universale, constatiamo che l’immaginazione da subito si sviluppa entro e per un immaginario quale rafforzamento di sé mediante la sua proiezione nell’altro da sé. Così Nicola Cusano, nel suo trattato Il quadro (1453), insiste sulla soggettività della percezione individuale quale legittimazione della pluralità e relatività della conoscenza umana. L’uomo giudicherebbe attraverso l’immagine, anzi una immagine, che altro non è che la proiezione fantasmatica di sé (con tutto l’apparato simbolico e politico connesso) sul corpo ‘negato’ (o ‘spazio vuoto’) dell’altro ove l’alterità, qui ideata/immaginata, è sia l’Assoluto sia la donna. Il medium dell’auto-imboscata è infatti la ‘contrazione dell’immaginario’ ove il simbolico (virgineo) corpo di donna è catturato, reificato nell’immagine, come l’assolutamente necessario (il rapporto Assoluto/Donna nella non-nuova ars nova) complice di un desiderio estraniante. È qui che, con le parole di Carla Lonzi, ritroviamo la genesi dell’ingannevole occultamento dell’imboscata da parte di un soggetto (maschile) che promette a lei, strumento prima che oggetto della caccia, il riscatto (ma dopo la cattura) attraverso l’obbedienza: «La donna appartiene alla specie vinta: vinta dall’uomo. Il privilegio su di lei la donna lo soffre, ma lo subisce nell’ossequio che le ispira chi ha imposto sé come soggetto»[45].
Ma quale ‘contrazione’ dell’individuo, contro il carattere falsamente rassicurazione del canone fiammingo, soggiace a questo atto ostensivo se lo sguardo si volge all’auto-preservazione nella rappresentazione (censura dell’immaginazione) dello “sguardo onniveggente” ne La giustizia di Herkenbald (1439) di Rogier van der Weyden[46]? A partire dall’individualizzazione, infatti, il ritratto consegna l’esistente all’esistenza procedendo dal gesto di preservare/eternare l’individuo nell’immagine quale dislocazione di sé verso l’espropriazione di sé, ovvero oltre il tempo e lo spazio necessariamente conflittuale della relazionalità. Per noi donne, non dame anonime e astoriche (anche l’Eterno Femminino è un infatti un canone dell’oggettivazione femminile), l’intreccio è complesso e sospetto. E così ci interroghiamo, diversamente da Panofsky[47] e a distanza dallo sguardo onniveggente/derealizzante di Herkenbald che sempre ci insegue per precederci, su questo gesto che, con Chastel[48], accresce, disfa e mai si placa in un’idea di arte che eterna l’esistente espropriandolo della differenza sessuale. Il gesto dell’arte può essere per la donna liturgia tragica di una coatta immaginazione (che è una parola muta) atta a involvere la creatività della fruizione, centrale nell’esperienza estetica, nella reificazione di sé entro una rappresentazione (o ‘messa in atto’ del furto espropriante) patita nel gesto della non-rappresentanza. L’atto del “prendere parola”, di assumersi irriverenti alla mistificazione, con Federica Giardini presuppone infatti l’individuazione cartografica dell’inclusione omologante poiché «non è corretto dire che le donne sono semplicemente assenti dal canone occidentale, sono piuttosto presenti in alcuni e non rari casi: ogni volta che il discorso maschile parla di loro»[49].
Facciamo allora un passo indietro, anzi molti, per approdare alla prima mistificazione artistica dell’Individuo che strumentalmente è amorosa nel chiedere complicità alla donna attraverso quello che sarà poi l’espediente del canone cortese della ‘caccia’: seduzione (maschile, non femminile) e sua ostentazione/presunzione di ragione/potere per violenta espropriazione femminile (la preda complice dell’imboscata). E siccome nel codice sociale da sempre inciampiamo nei ruoli di figlie, spose e madri innanzitutto (e quindi, nell’ordine mitico-fondativo, per sempre) qui si impone quello di figlia (patrimonio da tutelare) forgiato dall’atto paterno quale sguardo derealizzante su lei. Da questo procede, in ambito artistico, la prima rappresentazione in stile ‘armaniano’[50] (risalente a 3350 anni fa) del cosa sia una figlia, ovvero del ruolo assegnato a una giovane dal codice di un immaginario politico falsamente collettivo e strumentalmente (non)amoroso. È infatti lui, il padre Akhenaton, a commissionare il primo ritratto di Neferoure e Neferneferoute, le figlie amate in quanto immaginate/rappresentate nel loro amarsi: ipostatizzazione del suo, di lui sguardo, sopra e intorno a lei/loro. L’ostentazione del loro affetto (indotta ed estorta per amore) allo sguardo del pittore è funzionale alla realizzazione (che nell’immagine-ritratto diviene rappresentazione) dell’ostinato desiderio paterno di contemplazione: tra ostentazione e ostinazione qui si mette in atto l’immaginazione del desiderio di violazione. Il padre, infatti, amerebbe a tal punto le figlie da desiderare ‘vederle sempre’ – eterizzazione dell’immagine in un immaginario non propulsivo – nell’atto di amarsi: è questo il messaggio che il committente, il padre, vuole ostentare allo sguardo di chi poi contemplerà, quale ospite della sua dimora, tale‘amabile’ (ma per chi e rispetto a chi?) ritratto. Qui il pittore si colloca, nascosto e protetto dall’anonimato (è ancora lui, Akhenaton, il soggetto neutro universale sdoppiato nella proiezione narcisistica di sé), come secondo sguardo maschile oggettivante che, duplicazione funzionale all’artificio d’amore, accoglie l’intenzionalità di questo faraonico padre onniveggente (l’umano/divino della proiezione eterizzante di sé), nell’atto della rappresentazione. L’artista è ignoto: non è ‘visto’ (né dalle sorelle raffigurate né dal padre nella duplice modalità dell’occultamento dell’auto-inganno e del nascondimento del ‘cacciatore’) né propriamente ‘vede’ perché la sua percezione è omologata alla soggettiva percezione di sé del committente (appunto il padre entro questo codice artistico che forgia e riflette la sua amabile immagine).
Il committente (sdoppiato, duplicato e infine restituito a sublime Unità in virtù della figlia) compie pertanto due atti: ipostatizza/dissolve sé e l’altro da sé nella duplice ‘messa in gioco’ dell’immagine (eternarsi de-realizzando) fruendo di sé nell’immagine che codifica un immaginario di sé cui è strettamente funzionale l’amore delle figlie violato nell’ostentazione. Fruisce: il committente è già spettatore in quanto alfa e omega per l’immaginario di un sé che cesella, nella modalità della censura, il vuoto dell’altro a icona contenitiva dello straripante pieno di sé. Entro l’immaginario maschile tale piacere si accresce nella partecipata contemplazione altrui (soprattutto femminile) entro una relazionalità strumentale che procede (per tornarvi) dall’auto-idolatria faraonica per e fino al consenso estorto (per seduzione e sottomissione) ai ‘fruitori coatti’. Il Soggetto/Committente è dunque fruitore non soltanto, strumentalmente, dei suoi stessi fruitori ma di questi in quanto coattamente prede di caccia che, felicemente prostrati al suo desiderio ostensivo (come idolatria vuole), esprimono un piacere esaltante nell’essere soggetti attivi dell’auto-espropriazione. Insomma, con le parole di Carla Lonzi, una vera “turlupinatura[51]”.
Nel gesto abilmente anonimo di un pittore che si sottrae alla prostrazione di sguardi (lui è medium dell’atto magico fondativo della dissoluzione) si disfa il mondo per gli occhi di un essere umano onniveggente che vuole, senza amore (neanche per sé: e infatti rifugge il corpo obliando la nascita), eternarsi a immagine (universalmente umana) individualizzata. Un onniveggente tenacemente a caccia che si nasconde nel bosco (si apposta per predare usando come esca la preda stessa) sottraendosi allo sguardo perché di lui, di tale faraonico sé, non ci sia dato ritratto: la nota iconoclastia dovuta agli dèi. Lui che guarda e reifica e ipostatizza l’altro da sé per ricongiungersi a sé, proprio lui si sottrae allo sguardo, al nostro sguardo, carpito soltanto dal suo onnipotente desiderio di sé. Non è mosso da amore né amore dispiega tale paterno ‘amabile desiderio’: nascosto nel gesto allusivo e astuto del pittore (tra atto del desiderio e gesto del codice artistico) vi è lacerante l’orrore del nulla reificato in e oltre sé (il possesso della discendenza: figlie nude allo sguardo). E dunque, quale amore può darsi in tale sognarsi attraverso la funzionale (artistica) reificazione fantasmatica dell’altra? La prepotente forza del simbolico diviene infatti l’espediente culturale attraverso cui linee, colori e figura dell’altro corpo (negato alla relazione) perdono forma e, con questa, anche la forza creativa del suo possibile conflitto. Ancora con Carla Lonzi:
Mentre la donna all’amore dà un valore in sé, l’uomo gli dà un valore strumentale. Lo recupera poi come valore assoluto nell’arte, nella poesia, nell’opera che […] nasce e vive nel non rapporto. Allora è l’uomo che dopo averle impedito di vivere l’amore gliene offre il simbolo sotto forma di oggetto […] È lì che si crea il conflitto perché la donna porta alla coscienza tutto l’intreccio che esiste realmente tra le persone nel rapporto, l’uomo ne usufruisce però sempre rimuovendo quello che accade e vedendo crescere se stesso. Perché l’immagine che l’uomo ha di sé è fuori dal rapporto, mentre la donna vive se stessa nel rapporto[52].
Mistificazione amorosa non dischiusa alla differenza che, nella solitudine di un Giano duplicato e bifronte, mostruosamente identico a sé, si perpetua nell’adescamento immaginario della duplicazione e proliferazione di figlie, di sorelle, di Neferoure e Neferneferoute a noi esposte ed offese allo sguardo dell’altrui (maschile) riconoscimento per lo sguardo onnisciente del padre e del suo ordine simbolico della complice auto-espropriazione della madre[53]. Se però ci riappropriamo dell’irriverenza, rispetto al canone[54] e alla sua ‘cattiva coscienza’ della trasposizione idealizzata, possiamo rinvenire dietro lo sguardo amorevolmente oggettivante del padre Akhenaton una inquietante Metafisica entro cui si agita (muove guerra) il simbolismo mistico del Maschio/cavaliere sedotto dall’Idea di se-ducere (attrarre a sé) l’Essenza femminile per la ‘sublime committenza’ di Amore. Il soggetto o soggetto-unico, inaugurato artisticamente dall’immaginario fiammingo del XV secolo, è ancora il committente Akhenaton: immaginario attivo che agisce espropriazione implodendo la libera immaginazione delle donne nella reificazione dell’immagine idolatrica. Il simbolismo mistico di cui è intriso il tema della caccia alla licorne [55] conferma propriamente questa sublimazione (nel camuffamento) della violenza di un immaginario (maschile) che forgia l’immagine di sé ipostatizzando, per poi fagocitarlo, l’Assoluto e il Femminino per un nuovo umanesimo della consustanziazione dell’Uomo non-in-relazione. La relazione di genere, nel canone della letteratura cortese in altro modo attuale, è infatti violata nella cattura/uccisione della donna/licorne entro la duplice modalità della ‘sventura’ (il lasciar morire l’amato/a, come nel Roman de la Rose) o dell’auto-imboscata (la complice partecipazione alla caccia da parte dell’auto-espropriata per la funzionale assunzione, o ‘messa a profitto’, degli stereotipi del femminile). Così Richart de Fornival[56], nella seconda metà del XIII secolo, scrive della forza seduttiva (ingannevole), procedente da dolcezza, del corpo femminile (per questo meritevole di punizione) che conduce l’amante al ‘sonno’ (preludio di morte). Qui è in atto il timore maschile per la propria perdita di controllo quale stravolgimento della forza in dominio[57]: bisognerà conformarsi all’uomo-serpente per far addormentare (neutralizzare) l’aspide-donna; bisognerà non ascoltarla (la donna deprivata di linguaggio) ma se-durla (condurla a sé) perché lei, che pure è allegoria dei sensi, astutamente ha le orecchie chiuse. Prima dell’addomesticamento in Dama, infatti, lei non è soltanto forte dell’inganno ma anche muta e incapace di ascolto, la sua dolcezza è il balsamo seduttivo che conferisce terrore e potere (quello maschile di non affermare o perdere il potere). Da qui Richart de Fornival indica le principali tappe che ci conducono alla foresta ove si consumerà l’auto-imboscata: il furto dell’ascolto e il dono del depauperamento entro un immaginario umiliante. Innanzitutto l’uomo dovrà stordirla di silenzio per sottrarle la forza di entrare in conflitto, dovrà soffocarla di solitudine perché lei non ricordi forza e diritti[58]. L’autoreferenzialità del logos sarà al riguardo il mezzo più funzionale, e più narcisisticamente gratificante, quale musica psicagogica di Orfeo scisso dalla corporeità di Euridice ferita e consegnata, per questo suo canto, agli abissi di Ade: «E quando si vuole avere del balsamo, bisogna addormentare l’aspide al suono di un’arpa o di altri strumenti»[59]. Sarà poi necessario umiliarla entro un’immagine di sé intrisa di fango: la natura, quella terra per la quale è funzionalmente e perciò virtuosamente madre, indica anche la sua inclinazione alla caduta tanto che, semmai vi si volesse ribellare, si ritroverebbe sorda e infangata. E infatti «tanto senno riceve dalla sua natura che, quando li ode, si ottura un orecchio con la punta della sua coda e sfrega l’altro a terra, tanto da riempirlo tutto di fango»[60]. È così, soltanto scivolando nell’inerme se stessa, la mostruosa creatura terrigena potrà sottrarsi alla melodia di Orfeo e sottrarsi alla seduzione auto-espropriante: un potere che l’uomo non invidia e che la donna porta nel corpo come colpa da espiare. Infatti Richart de Fornival così prosegue, piangendo sulla propria sorte (perché gli ‘eroi’ piangono sempre, versano lacrime[61] intonando inni alla Morte da cui sono sedotti nella speranza che questa, e non la vita, renderà loro eterna gloria): «Così avrei dovuto fare io» (ovvero sottrarsi strisciando nel fango) «tuttavia vi andai» (incontro/contro la non-amata) «e mi addormentai al canto della sirena» (purezza dell’integrità maschile e deformità della malvagità femminile) «alla dolcezza della vostra accoglienza e del vostro bel modo di parlare, udendo il quale fui avvinto»[62]. L’amore è guerra: scontro uno-contro-uno fino alla vittoria dell’Identico senza più rivali: la licorne è infine sconfitta nella mistificazione d’amore mentre l’Amore trionfa nel sonno della Morte:
E Amore, che è saggio cacciatore, mise sul mio cammino una fanciulla alla cui dolcezza mi sono addormentato e sono morto di quella morte che è nello stile di Amore, cioè di disperazione senza prospettiva di grazia […] E poiché ho detto che fui avvinto nei tre sensi dell’udito, della vista e dell’olfatto, se fossi afferrato negli altri due, cioè nel gusto, al baciarla, e nel tatto, all’abbracciarla, giustamente apparirei addormentato. Infatti allora dorme l’uomo, quando nessuno dei cinque sensi è attivo. E dal dormire d’amore deriva ogni pericolo. Infatti tutti coloro che dormono sono raggiunti dalla Morte, sia l’unicorno che s’addormenta sul grembo della fanciulla, sia l’uomo che s’addormenta alla voce della sirena[63].
Non a caso la medievale allegoria dei sensi[64], di cui è soggetto agito la Dama, predilige il simbolismo animale per sublimarne la violenza nella forma mista, confusa e stordente, dei Bestiari d’amore. E qui, quando l’immaginario maschile stigmatizzerà Amore come disperazione e caduta (dannazione), tra simbolismo ed erotismo cortese la licorne diverrà un maschile effeminato[65] la cui vacuità, temuta e rimossa, è per noi rinvenibile nella sua conversione (non detta) nel femminile fatuo che cede all’auto-imboscata. La caccia sarà allora la modalità del dover-essere dell’amore per l’affermazione dell’Uomo entro la formazione di un mito d’amore per il quale la donna cade addormentata nella foresta (scivola nell’oblio di sé) volgendosi metamorficamente nella vergine/ licorne (sdoppiamento e depauperamento del femminile). L’immaginario procede per coppie di opposti tra cacciatore/dama e armatura/natura facendo confluire nella guerra l’unico amore possibile (autoreferenziale) per restare in vigile stato di veglia e possesso. La caccia, sempre per il cavaliere, era infatti praticata assieme ad animali che allegoricamente indicavano la supremazia del vincitore per auto-umiliazione del vinto/a: l’impiego del cavallo, perché nel procedere verso la foresta femminile (ove si consumava l’agguato), tra cavallo e unicorno vi fosse già l’inclusione estraniante dell’altra (né più donna né più cavallo). Ma anche accompagnato da un branco di cani perché fosse palese, nello struggimento sentimentale, l’ambiguità di una fedeltà amorosa funzionale all’occultamento di una profonda fedeltà all’immagine di sé da parte dell’uomo-cacciatore. Una ostentazione che socialmente significava la demarcazione politica, ammantata di immaginario, di ricchezza e potere quali acquisizione di altro potere (prima e dopo la caccia, infatti, si consumava un banchetto, rito di cortese socialità per gli ospiti: il pasto era però l’essere in pasto dell’ospite). Un immaginario regolamentato da rituali e sanzioni (lo squillo della tromba – proprio come in battaglia – e il colore mimetico degli abiti – verde come la naturale foresta virginea da violare –, ma anche l’equipaggiamento, il tipo di preda nonché il divieto di cacciare di frodo per la cultura aristocratica della caccia al cervo[66]) supportato da una morale rassicurante circa salvezza e piacere. Perché anche questo è il punto: contro la scissione orfica l’uomo può riscattare la colpa, perpetuata nel corpo, godendo di tale allenamento virtuoso che lo allontana dalla malvagità degli oziosi pensieri. L’uomo si salva nel piacere, la donna nell’umiliazione di una libera immaginazione: e così, tra i molti manuali di caccia del Medioevo diffusi tra i nobili a partire dal XIII secolo, nel testo di Gaston Phébus di Foix ritroviamo esemplarmente scritto che il cacciatore «est sans oisiveté et sans mauvaises imaginations et pensées[67]». Ed è soltanto in questo senso che nel rigoroso codice rituale della caccia, articolata nella dicotomia tra dentro (la foresta delimitata cui può accedere il cavaliere) e fuori (la caccia non tutelata per contadini in cerca di conigli e anatre) anche la donna è ammessa come cacciatrice. Ma che fosse adescatrice di se stessa, per lacerante depauperamento, lo abbiamo già detto: per questo motivo l’unicorno ingannato dalla vergine può personificare l’amante valoroso che sfida ogni pericolo per essere amato dalla Dama. L’inclusione è infatti funzionale a sancire la subalternità della differenza dell’altra e del differente ordine socio-economico (ricomposto nel vincolo ‘asimmetrico’ del matrimonio per il quale il poeta può cantare l’amore di una donna, se sposata, soltanto se questa è di rango superiore). È così che nell’ambivalente gesto di accoglienza di sé entro un mondo già dato si consuma, violenta, l’espropriazione delle donne nella forma inclusiva dell’immaginario maschile (l’adescatrice che, nella fabula cortese come nella tragedia greca, con Loraux[68], ‘prende al cappio’ se stessa entro una dolorosa auto-implosione). Il turbamento generato dall’essere domina di una domus auto-estraniante tramuta la domesticità in ‘perturbante’ ove il fantastico, non ancora addomesticato, è proprio la licorne quale esperienza femminile primaria, e violata, di sé in relazione ad un mondo già dato (supportare l’inclusione nell’atto di volgersi contro se stessa: essere esca per il cacciatore). Il cacciatore infatti non si perde e non deambula ma fiuta i percorsi per assoggettarli a sé: è per l’immaginario cavalleresco della Dama che può strutturare la propria Identità umana(maschile). Ma quale forza immaginativa, quale spazio libero per lei quando resta irretita, e isolata, censurando il desiderio di sé in relazione con l’altra/o? quando, come nei ritratti femminili di Vermeer, resta sempre in penombra[69], sempre in attesa di un nostalgico per sempre non-ancora entro quella perturbante quiete che domina il suo immaginario solitario e doloroso, il suo mutismo che nessun ‘meraviglioso’ ha mai voluto narrare? Nell’assenza di modelli femminili[70] che riconoscano tale patire il desiderio di sé, la vergine ‘muta’ condotta nel bosco consegna all’uomo, nella rabbia implosa in sconfitta, l’oblio della forza nella duplice violazione per mano, anzi per ventre di donna rimossa nella fabula scortese. L’ambiente intimo del domestico si rivelerà allora il luogo della ‘messa in scena’ dell’immaginario che lo sostiene[71] in una medievale battuta di caccia ove nel centro del bosco, sul ventre della vergine, si adagerà incauta la licorne: ripiegamento solipsistico nella povertà fantasmatica di un immaginario inclusivo e auto-espropriante, debolezza funzionale all’agguato quale apparizione subitanea dell’inaspettato tra incubo e delirio.
- Scortesemente in trappola: dislocandomi verso una libera immaginazione
Secondo atto: «Attraverso l’odorato fui soggiogato, così come l’unicorno che s’addormenta al dolce odore della verginità della fanciulla. Infatti tale è la sua natura che nessuna bestia è più difficile da catturare; ha un corno in mezzo alla fronte a cui nessuna armatura può opporsi, così che nessuno osa aggredirlo o toccarlo, ad eccezione della fanciulla vergine. E quando ne fiuta una, s’inginocchia davanti a lei e si umilia dolcemente in atteggiamento di sottomissione. Così che gli avveduti cacciatori che conoscono la sua natura pongono una fanciulla sulla sua strada e quello si addormenta sul suo grembo; allora, quando quello è addormentato, vengono i cacciatori che da sveglio non osavano cercarlo e l’uccidono»[72]. [Richart de Fornival, Bestiario d’amore]
Se noi donne ci addentriamo nell’immaginario cortese ci ritroviamo, da subito, scortesemente aggredite dalla ‘pratica’ maschile del mantenere in continuo esercizio l’arte del combattimento volto al darci la caccia quali soggette[73] fruitrici dell’auto-inganno. Tale scortese imboscata, la cui sola immaginazione richiede il doloroso attraversamento di un corpo solcato da antica umiliazione, intesse, nel modo capovolto della lacerazione, le relazioni tra tutti i ceti sociali. Unica differenza è, qui, la diversa ‘messa a distanza’ della donna da parte dei cacciatori: i contadini, infatti, vi impiegano trappole, rulli, reti o recinti entro uno scontro corpo a corpo con la preda mentre i nobili si avvalgono di espedienti per evitare lo scontro a mani nude. Preferendo la caccia a volo alto con uccelli addestrati (addomesticamento simbolico della rapace-Grande Madre) o l’impiego dell’arco (quale prolungamento del suo braccio) l’uomo/cavaliere, quando uccide, è sempre rivestito di splendida armatura: destorificazione della presenza e del presente di un inquietante femminicidio non di classe perpetuato non soltanto a calci e pugni.
Su questo conflitto interno, imploso come forza paralizzante e non creativa, vorrei ora soffermarmi ma già ne sento, imperioso al limite del mutismo, tutto il dolorismo. E dunque procedo da qui, dalla sua assunzione sistolica nel mio corpo di donna. Perché tale assunzione è un atto che ha in sé la forza per ritrovarmi in relazione di autenticità, con me stessa e col mondo, rompendo col modello culturale che mi vuole complice del mio espropriarmi. Per l’uso ideologico del termine ‘forza’ si consuma infatti il pacifismo violento dell’auto-implosione femminile. Un modello non mio di cui pure incolpevolmente sconto la pena e di cui pure sono responsabile[74] assumendo l’idea, funzionale alla “mistica della femminilità”[75], di un dissenso ‘esclusivamente’ femminile che si oppone a ogni possibile assunzione di forza. È questa un’altra modalità dell’auto-imboscata dell’immaginario perché il Politico che, con Federica Castelli, «pone, esclude e norma l’alterità»[76], nelle sue narrazioni simboliche «si struttura su una logica dell’Uno, del Medesimo, in cui l’identità del corpo sociale viene rintracciata tramite la messa a distanza di ciò che viene escluso dalla propria rappresentazione»[77]. Vorrei poter liberamente dire[78] del conflitto nella sua accezione propulsiva e creativa del quotidiano, eppure è proprio qui che mi arresto. Perché so, ne ho fatto esperienza a ogni passo, che sotto i colpi della necessità si può anche ricorrere alla violenza escludente o soccombere cedendo alla tentazione weiliana di «rinunciare a pensare». Desiderio di esserci come cose senza coscienza dei moti, e delle rese, di questo nostro pur esserci, sentendo che solo questo «è l’unico mezzo per non soffrire più. Anzitutto per non soffrire più moralmente. Perché la situazione cancella automaticamente i sentimenti di rivolta[79]». Pur esserci per esserci e poi, non essere più: in questo vi è tutta la conversione della passività in atto violento (nel subire lo stereotipo della ‘natura’ femminile tra ‘ruoli’ e loro ‘furioso/irrazionale’ stravolgimento) saettato (sagitta che qui è arma offensiva contro se stesse), contro l’anatra selvatica stretta sul cuore di Edvige consegnato alla ‘mancanza’, non all’assenza, dolorosa. Allontanata dal suo ‘elemento naturale’ (la relazione amorosa) è lei che, ne L’anatra selvatica[80] di Henrik Ibsen, ferita nel suo isolamento e confinata in un solaio (prigioniera nella ‘parte superiore’ della casa-mondo ove è la testa, l’intellettualismo astratto di una cultura orficamente logocentrica), Edvige è cieca, non vede e soprattutto non sente che il proprio sé possa essere altro dall’essere ferita. L’anatra, il suo diritto ad esserci senza cedere all’umiliazione della menzogna espropriante, è corpo in figura[81] di lei quale ricordo dell’assenza. Ma l’assenza, come autenticità di sé a partire da sé, è qui incurvata e sepolta nel dolore per la mancanza che non è Edvige ma lo spazio angusto della sua soffitta, affollato dalla follia del nonno (arcaismo patriarcale) che se ne va a caccia tra opportunismo paterno e omertà materna. E dunque altrove: ma dove? A isolare Edwige inducendola a rimpiangere la mancanza, sono la soffitta (verticalità della cultura disattenta alla formazione), l’isolamento dell’anatra (verità celata dell’assenza) e infine la mistificante ritraduzione interiore della mancanza in dolore punitivo (induzione dell’auto-accusa). È il rimpianto doloroso che la sospinge infatti a sacrificare, per essere riconosciuta dal padre manchevole, l’intimo sé uccidendo per lui l’anatra e, con lei, se stessa. La delicatezza materna sarà soltanto nel seppellirla con la pistola ancora tra le mani, perché non le si faccia male nel sottrarla, sottrarle cioè una violenza già consumata tra le sue piccole dita. Sacrificio inutile? Decisamente qualcosa di più grave: negazione della forza femminile da parte di donna quale implosione in vittima dolorosamente complice di un violento ordine immaginario.
Edvige: (resta un istante immobile, indecisa e spaventata, mordendosi le labbra per soffocare il pianto; poi stringe convulsamente i pugni e mormora) L’anatra selvatica! (Si porta con passo furtivo presso lo scaffale e vi prende la pistola; socchiude l’uscio del solaio e vi si infila, chiudendosi la porta alle spalle).
Gregorio: Ha voluto offrirti in sacrificio quanto di meglio possedeva al mondo. Pensava che così tu avresti ripreso a volerle bene.
Relling: La fiamma dell’esplosione le ha bruciato il vestito. Edvige deve avere tirato con la pistola puntata contro il petto.
Gregorio: Non è morta invano. Lei, Relling, avrà visto come il dolore abbia liberato quel che meglio c’era in lui.
Relling: È un fenomeno che succede molto spesso, in presenza della morte. Ma quanto tempo crede che durerà in lui questo nobile impulso?
Gregorio: Tutta la vita, e diventerà sempre più forte.
Relling: Fra pochi mesi la piccola Evige per lui non sarà altro che un bel tema di declamazione.[82]
In questo campo solcato, arato per lacerazioni di corpo di donna che genera frutti violati, anche io mi ritrovo dolorosamente complice e pudicamente dislocata patendone, al contempo, tutta la carica eversiva di un inatteso desiderio di me. Perché non posso tirarmi fuori senza dolore e senza accusare i colpi indotti dei sensi di colpa che cavalcano la memoria storica del nostro essere donne: e così riconosco, smarrendomi, di aver pianto anche io lacrime ‘virili’ (perché è così che l’uomo piange) dell’espropriazione femminile che ‘vede’ se stessa nella morte dell’eroe trascinato nell’acqua dal mito di sé. E con lui, da lui, trasportata in un’attivissima opera di presa di distanza da me, dal mio corpo e dunque dal mio desiderio di esserci oltre l’idea conciliante di me, armoniosamente e colpevolmente ignara della mia forza. Perché il rischio sotteso alla rimozione colpevolizzante del conflitto è già quello indicato da Carla Lonzi e ricordato da Federica Giardini quale «deriva entropica, di perdita di forza, che fa rifluire la presa di parola nell’opinione, quando non nel ritorno al senso imposto sulle altre scene dei rapporti di forza»[83]. Io che soccombo ma anche che assumo e attraverso questo dolore; io che con altre donne riscopro la fruizione dell’assertività femminile, dell’essere soggette[84] di un desiderio per sé, di esserci entro una parola che non è mai per voce sola operando dislocazioni di corpi migranti. Ora espansi in una più libera immaginazione ora contratti nei freddi vicoli di un passato, con Edwige, nascosto/custodito e perciò sempre presente come ogni rimosso: espansione e contrazione quale movimento sistolico di un ‘corpo a corpo’ di donne che non si fronteggiano (se non cadono nell’auto-imboscata dello scontro) ma scorrono, in modo liquido, da ‘qui per l’altrove’. Un corpo a corpo con le altre donne, dunque, in accezione ben altra dallo scontro violento maschile che ingloba e fagocita le differenze nel ‘corpo’ del “tutto” (ò pantòs) come Unità che stigmatizza il conflitto quale ostacolo e non ricchezza (‘corpo’ assolutizzato e dunque fuori dalla relazione). Per noi donne si dà invece testimonianza della dislocazione del ‘soggetto’ fuori dal narcisismo distratto del poeta che canta la morte eroica del sé maschile per neutralizzare e se-durre, ovvero “condurre a sé”, mistificando la libertà con una fatua necessità del desiderio. Tra responsabilità e necessità della libertà in situazione è lei a patire la prima lacerazione che a torto ‘intende’ (ha inteso, prima del femminismo, secondo la logica del retaggio culturale patriarcale) quale conflitto: invocando la pace ha scatenato in sé la guerra assumendo in sé il mistificante monologo dell’esiodeo Basiléus “mangiatore-di-doni”[85], quale ritorna nelle parole di Marisa Forcina[86]. Il riconoscimento è già coscienza e presa d’atto: tra necessità e propulsività si dischiude allora una libertà della quale troppo frettolosamente, e questo fa pensare, se ne oblia il moto ricurvo nell’inabissamento doloroso quale timore e smarrimento di non ritrovarsi più. Perché il conflitto sia creativo, e lo è, occorre infatti un lungo esercizio di libertà e non so fino a che punto mi soccorra il simbolico materno se, cedendo alla caduta, stento a riconoscere la sua bella necessità quale libero dispiegamento della differenza. Perché da subito sento anche il peso di un ‘canone femminile’ che mi inabita come sangue grumito nel sangue che pure ancora circola: il modello del sacrificio e del senso paralizzante della colpa a ogni atto di irriverente insubordinazione. E così, restando nel silenzio quando, mutuandone l’espressione da Chiara Zamboni, il reale si crepa[87] e io lì a opporre accoglienza alla mancanza, ho sentito il dolore con tutto il suo fracasso e in questo, oltre questo, il dischiudersi per me di una ‘difficile gioia’. Perché, con Hélène Cixous, è anche in me il timore: «Dio mio, io sono soltanto io, non sono che una donna, ciò che è più di me, come esprimerlo?»[88].
I percorsi entro e da cui snodare, nel duplice significato del “partire da sé”[89], la fabula degli arazzi di Cluny mi conducevano fin qui, tra rê-veries e deambulatio, alla licorne piangente, non più sedotta, sul ventre della vergine: chiedeva a lei l’integrità perduta (nella dolorosa complicità di chi abdica alla propria forza); immaginava, nella differenza, una “trans-figura” della prossimità. E così ho ripensato alla donna filosofa, cui nessuno crede, accanto alla licorne[90], cui nessuno crede, e le ho ritrovate qui, nascoste e accanto oltre la narrazione perturbante[91] di un fantastico/meraviglioso che cattura, nella memoria, la trappola cavalleresca della caccia. Nella variante vergine-licorne del genere fantastico[92] la filosofa e la liocorna sono infatti a metà strada tra realtà e delirio, invenzione e narrazione per la compresenza di un cruento racconto la cui memoria è patologicamente obliata nel manifesto[93]. Dal dolore mi sono allora volta all’azione: potevo farlo, non ero sola. Nella storia dell’affabulazione c’è infatti una donna che accoglie la forza della propria sapienza esperienziale: integrità quale non scissione in sé e tra sé in relazione con l’altra e il mondo (così inaugurato); purezza nel discernimento della filosofa/licorne quale «esperienza di forza ed efficacia del proprio agire»[94]. E allora la dislocazione nell’intransitività senza possesso[95] potrebbe essere proprio quel Mon seul désir (primo, intermedio o ultimo nella aspazialità degli arazzi) che già Calypso ha intessuto nella tela di porpora e sangue quale sapienza ulteriore allo sguardo. Calypso (il cui nome sta per “nascosta” e “nasconditrice”) è infatti figura di una filosofia del desiderio senza rimpianto per sé[96] per l’atto amoroso di lasciar essere, oltre sé, l’amata/o e perciò mai posseduta/o. È anche questo il tra-noi dell’incanto[97] che screzia lo spazio nel frammento per espanderlo, tra organico e inorganico, verso il decorativo simbolico[98]. Per l’estetica generativa non è infatti soltanto la continuità temporale a riavvolgersi nella discontinuità dell’assenza, anche la superficie spaziale si contrae e distende nell’incontro «a corpi persi, a corpi mescolati, a corpi delimitati».[99] Il nomadismo ornamentale in Hélène Cixous, il suo amore impossibile per una terra natia nel desiderio struggente di esserci entro l’assenza e contro il dolore della mancanza, inaugura nella sua opera Tancredi ancora una poetica dell’itinerario verso le “transfigure della differenza”.[100]
È la storia dell’amore ad avvincermi, cioè la storia dell’altro e del suo altro. Non Rinaldo e Armida, la Coppia-Stessa. Ma gli altri, gli straripanti, Tancredi, Clorinda, gli amanti della franchezza, queste due creature singolari, più forti di se stesse, sì, capaci l’una e l’altra di andare, a costo della vita, per amore della verità, per l’amore, al di là delle proprie forze, fino all’altro -il più lontano, il più vicino. I due sempre-altri, che osano compiere l’Uscita. […] Assolutamente fedeli -al proprio segreto umano- al proprio essere più-uomo più-donna. Con coraggio non conoscono se stessi, con nobiltà non si possiedono, con umiltà non si contengono, non si rifiutano, si accordano per perdersi, fino ad avvicinarsi all’altro. Non so più se devo dire essi o esse[101].
Una storia d’amore che si snoda nella fluidità del motivo e della connessione ornamentale (il dissonante simbolico dell’estetica performativa femminile) schiudendosi al tatto[102], e al respiro, nella passione per l’altro: per la sua pelle che un è di più dell’apparenza perché è l’apparenza estrema a inabitarci come corpo e respiro. Tancredi abitato da Clorinda, abitata da Amenaide, abitata da Sutherland… Tra ornamento e astrazione si snoda infatti la storia mutuante del loto egizio – il decorativo vegetale – che si apre nei racemi spiraliformi dell’arte greca nel passaggio, studiato da Riegl nel suo Stilfragen[103] in riferimento e contro Jones[104], dal lineare geometrico all’araldico e infine all’organico e floreale arabesco. Il Kunstwollen mette al centro le “questioni di stile” – è infatti per lo stile che il decorativo è simbolico –, il desiderio artistico che sollecita all’intreccio di “rapporti infiniti”[105]. È la tattile arte egizia, e quella tattile e ottica greca così intesa da Adolf von Hildebrant e poi ripresa, nel 1908, da Wilhelm Worringer[106], a sospingerci in un intervallo ritmico che volge lo sguardo in un “sguardo-flusso” sedotto dal dettaglio, dal particolare snodato nella forma entro il continuo mutuarsi degli stili. E questo è anche il movimento d’amore (la linea curva del desiderio) tra volo e caduta in Tancredi-Clorinda per Hélène Cixous: io nell’Altro e l’Altro in me, secondo le procedure delle inversioni e capovolgimenti stilistici[107]. È nella piena coincidenza di pensiero e godimento (Geniessen) che vive il transito, il tra-noi dell’incanto che desidera le «profondità del vero amore, dove non si sa mai quando si ama, chi si ama, nelle vesti di chi si ama. Tancredi ama Clorinda. Tancredi non sa chi in Clorinda è amata da chi in lui? Un momento fa era un uomo, un secondo prima una donna, ma era proprio così?»[108] E ancora: «Tanto più è amabile quanto più donna tanto più uomo quanto più donna e forse tanto più donna. Se amassi una donna la chiamerei con la voce ancora umida e salata, Tancredi Amata mia»[109]. Nell’intreccio decorativo le metamorfosi si realizzano e mai si compiono entro questa tensione mossa dalla commozione per l’altra/altro; di più, è tale commozione a creare lo spazio affollato e vuoto della loro presenza e assenza. Le transfigure della differenza, avvinghiate come steli e fiori ornamentali, si possono ora fruire entro un’esperienza estetica che irride il canone della distanza. Se non fossero fluttuanti, se non ci apparissero come di profilo e sempre sovrapposte nei dettagli entro l’artificio prospettico di un fondo-fondale marino, tra chiome-alghe e ondulazione dei contorni, il manierismo dell’incanto dissolverebbe infatti la commozione nella malinconia. L’apologia dell’inflessione della vita, nella finzione ornamentale, diviene invece canto della distanza; l’apologia della soggettività duale, nell’armatura fluida di corpi in relazione, assume il decoro di un incontro a venire: Tancredi Amata mia.
Dislocazioni: Tu dis-Responce: «Tu nascondi, io invento»
Poiché è una fabula occultata, un récit tissé de mensonges, non mi basta demistificarla: se la rimozione dell’imboscata è, per la forza dell’immaginario[110], un atto politico io qui voglio riscriverne la trama nella forma irriverente della libera immaginazione che procede, da me, entro la relazione tra corpo e corpi della differenza sessuale. Qualcosa di più di una riappropriazione di un codice altro, piuttosto il desiderio di sorprendermi ancora entro una genealogia di donne dissidenti compiendo l’atto, politico, della pratica trasformativa del reale; “gesto di intervento”[111] per l’irruzione della mia voce che ri-narra il testo (l’arazzo) assumendo questa stessa voce, tra silenzio e ascolto, a immaginazione propulsiva. E poiché degli arazzi di Cluny non si conosce né la disposizione progressiva né se ve ne sia alcuna, approfitto di questa non linearità che, con Loraux[112], è anche felice anacronismo temporale per lasciare che irrompa nel presente la licorne quale ‘atto e tempo’ della presa di coscienza femminista («Presente, non futuro»[113]). Approfitto così per fruire di questa assenza nel gesto che è avvicinamento e distanziamento[114] di un itinerario performativo tutto da inventare nella creatività del soggetto femminista[115], ovvero nella discontinuità operata dall’irruzione dell’imprevisto che è dislocazione oltre la dissonanza e verso il dissenso. Rivendicando la libertà di immaginarmi altra dai canoni dell’immaginario e altrove dalla foresta posso riconoscere, in tale mio narrare, l’autenticità di un percorso che non chiede riconoscimento all’Immaginario, piuttosto, parafrasando Carla Lonzi, mi spinge a chiedermi se riconoscergli o no un valore pari al mio[116]. Perché ora (dopo il silenzio, il dolore e la sua assunzione consapevole) posso mettere in atto, e non soltanto per me, un percorso creativo[117] guidato dai sensi o nella pratica dell’ironia[118] verso una già demistificata fabula scortese o in quella dell’immaginazione procedente da un irruente desiderio di me. Perché può accadere anche questo, in tale dispormi accanto in movimento. E allora il ‘sesto senso’, quello allegoricamente tradito nel Mon seul désir del sesto arazzo, può sorprendentemente farmi pre-sentire il piacere di un immaginario responsabilizzante[119] che non intende cedere ad alcuna auto-imboscata ma neppure restarne presa al laccio dal dolore. La consapevolezza può ora infatti avere anche il moto ondivago di una irriverente leggerezza che chiede aria per dislocarmi altrove. Mon seul désir: il sesto, enigmatico per l’Immaginario, arazzo di Cluny per noi donne non ha nulla di enigmatico perché qui vi è lei che non si riconosce più nel corpo virgineo, recinto del suo essere inerte materia e translatio di una festosa auto-imboscata cui partecipa come vestizione e iniziazione ad essere altra da sé. A dispetto della fantasmatica estrazione del suo corno, esito della caccia, la forza della licorne procede dalla consapevolezza di sé e può intessersi nella gestualità diversamente immaginata nell’arazzo del Mon seul désir quando la donna, infine, lascia cadere i falsi gioielli della “compulsione alla somiglianza”[120]. Ma in questo non procedo da sola: il mio andare ‘attorno’ agli arazzi ritma infatti l’incedere di un ‘assalto’ agli stessi per l’ascolto della mia esperienza[121] entro una genealogia femminile che li ‘accerchia’, non li avvolge, dispiegando forza e conflitto. Dall’offesa di parole scortesi entro un immaginario ingiurioso, vigilando per non restarne irretita, posso infatti dislocarmi per l’irruenza di una parola i cui significati, con Federica Giardini, «si rivelano a chi la fa. Di più, a chi cultura è e produce, di cui si riappropria, sottraendola a valorizzazioni e abusi»[122]. Perché con il corpo si può occupare anche lo spazio dell’immaginario per riappropriarci di noi, della nostra libera immaginazione di donne, attraverso la restituzione di un linguaggio che «reclama il corpo di pratiche, di spazi riabilitati, di quotidiani che si riorganizzano, di condizioni di vita che premono per essere messe al mondo»[123]. Svestendomi degli ingombranti abiti cortesi posso muovermi più liberamente entro una immaginazione dissenziente che, prefigurando nuovi scenari, mi restituisca l’efficacia dell’azione e non il solipsismo di una scrittura di maniera. Una immaginazione che, con Cristina Bracchi, irrompe come “prefigurazione di nuovi scenari” perché
la capacità di partire da sé, la consapevolezza del sé narrabile e la sua auto-narrazione, l’attribuzione di valore alla memoria, alla comprensione, alla fedeltà a sé attribuiscono un significato politico alla scrittura e agli esiti di ricezione che contiene[124].
Il mio corpo si muove attorno agli arazzi ‘occupandone’ lo spazio con una parola inattesa perché, con Judith Butler, «se rivolgersi a qualcuno significa interpellarlo, allora un nome che offende corre il rischio di inaugurare nel parlare un soggetto che finisce per usare il linguaggio al fine di opporsi a quel nome»[125]. Dal disorientamento patito nel “dover stare al mio posto”[126] posso infatti anche orientare il mio corpo[127] verso un dove inaugurale (orient-are) che disinnesca la trappola linguistica della Dama. All’ingiuria rispondere decolonizzando perché, con Federica Giardini,
il primo passo per restituire libertà di movimento a corpi e intelligenze è decolonizzarli dalla presa di quelle parole per tornare a sentire il necessario e il desiderabile. Fluisce allora un linguaggio nuovo, fasci di attenzione che ridisegnano non solo vestiti ma un intero paesaggio dove abitare[128].
Fasci di attenzione ove può rifrangersi e da qui dislocarsi altrove la risonanza quale necessaria espressione di me[129]: ha inizio così, nella peculiarità dell’incipit della scrittura femminile[130], questo mio procedere smarrendomi e ritrovandomi per volgermi in altra direzione rispetto a quell’immaginario di cui io sono il dentro e il fuori della sua efficacia simbolica. Nel desiderio di un’immaginazione per me posso così anche assumere, tra gli arazzi di Cluny, la forza delle donne tra loro in relazione: posso cioè assumere anche per me la celebrazione (riscritta in altro modo) dell’amore cortese per l’invettiva di Christine de Pizan nel suo Dit de la Rose[131]. Assumere per immaginare in altro modo la relazione tra queste Dame intessuta da una donna che a volte è una ragazza a volte un’anziana, nell’asimmetrica prossimità della solenne postura del non domestico/addomesticato[132]. Nel suo non cedere al vittimismo né al consenso il suo decoro è infatti autenticamente decus: appropriatezza di gesto, atto ed azione[133]. E da lei sono condotta in questo mio dislocarmi tra i tessuti delle tapisseries, ora che li percorro più liberamente come fossero gradini di una scala a spirale, non una stanza con angoli che chiudono tra pareti che includono. Entro questa trama policroma, su un fondo rosso di kalche che intesse un pensiero agitato dal darsi pensiero per la vita, si intreccia e disloca per me una fabula altra che narra la volontà femminile per la forza del gesto corporeo del no dissidente, della mia voce narrante, di questa mia mano che scrive. E allora le dame non sono più identiche a se stesse (ritorno coatto al medesimo) né mai altre da sé; se provo a seguire i loro gesti secondo la sequenza dei sensi, propria della gerarchia medievale (tatto, gusto, olfatto, ascolto e vista) mi ritrovo infatti spaesata, confusa, e di nuovo costretta a dislocarmi a partire da un altro arazzo scegliendolo, per poi lasciarlo, come primo. E così nell’arazzo del tatto[134] la donna mi sembra stringere lo stendardo nell’atto di dischiudere la mano sinistra sulla licorne: non atto dell’afferrare/possedere ma gesto per sé che congiunge verticalità (postura) e dislocamento (inclinazione verso sé in relazione). A colpirmi è il suo sguardo (la vista nel tatto?): sembra altrove e distratta ma, se mi sovrappongo al suo corpo, colgo (è anche questo il tatto?) l’orizzonte del suo sguardo: una morsa che stringe il collo di una scimmia. A questo punto vorrei procedere verso il sesto arazzo (quello del medievale senso della vista) e invece dispongo il mio corpo a dislocarsi verso il ‘secondo’ (tale nel retaggio culturale) e qui, nel gusto[135]incontro il gesto ampio e calmo del ‘nutrire’[136] e non del gustare dei dolci (interpretazione diffusa che, però, io qui non colgo né accolgo). Dietro la dama si inscena una policromia di simboli noti (il recinto chiuso di rose e ancora una scimmia che mangia avidamente mentre una giovane licorne guarda verso un ingordo coniglio): dietro la dama e il suo gesto oblativo (indotto/agito) di offrirsi come cibo per il vivente ‘sento’ in me il ricordo antico di una fame che non sia soltanto un banchetto di logoi [Platone, Fedro 230 b1-c5] e, per me, ritrovo il gusto di miele delle parole di Aspasia nelle api/μέλσσαι, sacerdotesse di Demetra/Rea[137]. Mi chiedo allora, sagendo – fiutando (olfatto) nella dolcezza di un miele che accresce il vivente – chi nutra questa dama che nutre e già, più accanto, incontro il gesto dell’altra nel flettersi del ginocchio e del braccio nell’atto di offrirle del cibo. Nella loro relazione corporea, tra attenzione e vigilanza, prende gusto e si accresce il ‘senso’ (sono già dislocata nel Mon seul désir?) del vivere ove il ‘nutrirsi’ è l’atto di allontanamento dal retaggio immaginario entro una prassi dislocante e in tale distanziamento ripenso, entro un ribaltamento che dà consistenza allo slittamento nutritivo, a quel volgersi-indietro che è l’atto di carpire l’odore (olfatto). Gesto anti-orfico di Euridice[138] che è mystes del profumo di Greve entro il Cielo Stellante, corporeità del logos nel profumo di mirto che piange la morte amando la vita. Da qui proseguo dislocandomi verso l’arazzo dell’olfatto, il primo contatto col mondo nel ‘dire la nascita’ ritrovandovi, in altro modo, il gesto dell’offerta quale auctoritas della donna più anziana[139]che accresce e potenzia la relazione (è dalla loro relazione che infatti procede la forza di mettersi in atto). La dama è ‘fasciata’, irrigidita[140]entro un’area infantile il cui unico ma fondamentale movimento è quello nervoso delle dita attorno a una corona di fiori che sta intrecciando. La stessa forza dell’agire che mi incontra nel prossimo arazzo ove l’ascolto, in realtà, è qui l’esecuzione duale (tra donne) di una musica che risuona come sapienza di sé nell’essere-accanto (la licorne) procedendo da distanze prossime a intrecciarsi, separandosi ancora per nuovamente incontrarsi. Elaborazione anti-orfica di una via ‘altra’ che intenda la mousikè, già a partir dalle Pitagoriche (prime donne filosofe) come sapere esperienziale in relazione (amorosa) con l’altra/o perché essere soli, tra violenza dell’autoreferenzialità e auto-aggressività del solipsismo, significa restare ‘senza accordo musicale’ (mutismo e omologazione). Ascoltare il suono del logos (il mio percorso uditivo) riscatta l’incedere ferito di Euridice consegnata alla morte perché la vita non sembrò cara a chi pure l’amava: il fallogocentrismo afono del persuasivo/retorico canto suadente di Orfeo è così stravolto dalla musica delle donne nell’arazzo de L’Ouïe, ascolto che coinvolge e responsabilizza anche me riconsegnandomi al mio nome quale inattesa parola. È in tale dinamismo che, finalmente, posso esaltare certa ‘nobiltà’ della vista/udito dei Greci, partecipando alla creatività[141]del canto che ritma il cangiante mutevole, quel ‘luminoso’ che persino nel retaggio culturale aveva il colore purpureo del sangue. Un olfatto cromatico che mi conduce, a mio modo, all’ultimo ‘senso’ (secondo il retaggio culturale) della vista. Fuggendo l’inganno della nota interpretazione della donna che mira la propria bellezza io ‘vedo’ una piramide al cui centro lei siede, presiede, nell’atto di offrire alla licorne uno specchio ove ri-mirarsi[142]. E così ripenso, qui con ironia, alla piramide capovolta dello sguardo ‘buio’ di Ade (occhi appestati di oblio) nel distante Orfeo da Euridice (ma lei ora non è più mystes, “a occhi chiusi”, perché è in sé che vede la ‘scintilla divina’ nella vulnerabile umiltà del suo corpo, humus dei viventi distanziata dalla hybris degli eroi). Se abitare il proprio corpo significa non essere recluse/i in alcun luogo, perché è il corpo il luogo della relazione, allora, interrogando la tradizione filosofica, posso chiedermi chi sia davvero scisso dal mondo (sognando a occhi aperti) un lacerante viaggio fino alle porte di Ade. Chi sia veramente separato da sé nel disdegno di un canto che è illusione ottica, il perturbante della vista, ferendo il corpo che individua gli amanti; chi sia l’uomo/albero capovolto che, sradicato, snoda rami feriti verso il possesso di un inaccessibile (non domabile/dominabile) alto/altro da sé. Orfeo si appropria con violenza della vista respingendo/includendo l’altra da/entro sé disconoscendo il tatto, e la dissonanza dei sensi, che è presenza dell’essere-accanto: le sue mani non incontrano altre mani di donna/di uomo, piuttosto si annodano come rami secchi e nodosi sulle corde della sua lira di tartaruga scuoiata. Il suo canto è solo un soffio solipsistico[143], né primo respiro né primo distacco dall’acquatico per essere al mondo (è questa è la debolezza della sua forza), piuttosto soffio dell’ultimo respiro soffocato nel cuore di una donna sepolta ad Hipponion dalla sua lamina aurea[144]). Nell’arazzo de La Vue, al contrario, ritrovo il ‘senso’ (patito e agito senza volontà di possesso) della meraviglia in quel gioco di sguardi procedente da lei, che ora sembra anziana per aver molto sofferto, verso la licorne innamorata dei suoi occhi mentre lo specchio ne riflette un’immagine fedelmente gioiosa. E qui sì che lei[145] accarezza la licorne entro una non circolarità speculativo/riflessiva che le riconsegna, in altro/i modo/i, l’immaginario di un sé sottratto all’oggettivazione dello sguardo entro una nuova forza che è consapevolezza procedente dalla riattivazione di tutti i sensi. È anche in questo l’attivo e fluido deporre l’imago di Dama nel ri-porre (nuovamente e ancora) il perturbante al proprio posto consegnandolo alla scimmia che qui, giustamente collocata in basso, è l’inquietante alter ego del cacciatore che, non riconoscendo il valore della differenza, è già stato rigettato dal bosco e riconsegnato alla perturbante fantasmagoria di sé (questa volta patendo l’assenza di un ordine fuori dalla violenta ‘messa in scena’ della caccia).
La fabula cavalleresca ha dischiuso il suo involucrum nell’atto di prendere e lasciar andare alla luce (prendere e deporre i gioielli di una tradizione non detta e per questo patita) quel ‘segreto’ che tale doveva restare per le donne (“atopia” della filosofa/licorne). Il seul desiderio (unico perché irrinunciabile ma non per questo solipsistico) è ora accolto come fruizione di una iniziazione di sé procedente da una immaginazione che, delle donne, ha la forza di dislocare altrove i piani di intersecazione di un reale non ‘dato’ e dunque agito nella passione dell’essere-corpo. Il Mon seul désir, più che al desirare come “deplorare l’assenza di qualcosa”, intervalla il ritmo di una propulsione immaginativa di un simbolico femminile forte e non umiliato che responsabilizza all’agire, al prendere posizione nell’atto di esserci nella relazione. Entro il simbolico attraversamento del bosco acquatico sono infatti dislocata, nell’incontro tra corpi dipendenti da asimmetriche distanze, sulle isole azzurre (l’universo simbolico delle Preziose?[146]) sempre intessute nei fondali degli arazzi di Cluny, fabula inattesa di un desiderio né indotto né imploso in violenza contro il senso e il desiderio di sé. Nelle tapisseries le metamorfosi si inaugurano entro una tensione mossa dalla commozione per l’altra/altro; di più, è tale commozione ad agitare in e oltre me lo spazio affollato della loro presenza oltre l’assenza. E qui un ultimo ricordo a Euridice, questa volta per le parole ‘invasate’ di Bufalino: «Patisco una metamorfosi o un’intrusione? È un ospite sconosciuto, costui che alloggia nelle membra, o in esse si risveglia un battesimo antico e dimenticato?» [147] Perché è da qui che infine posso dislocarmi verso le “transfigure della differenza” tra corpi/steli avvinghiati e tra piante/fiori che, nell’ornamentale simbolico femminile, fioriscono nelle mie ‘immaginarie’ tapisseries di Cluny, fruendole entro un’esperienza estetica che gioca oltre il limitare della distanza. Tra venustas e formosus la forza propulsiva dell’immaginazione mi conduce a una poietica fruitiva che nutre tra rigenerazione e differenza: consistenza dell’immaginario che nel Mon seul désir è ritmo, e intervallo, da cui per me si origina il mondo non al di qua di ogni possibile gioia. E proprio qui mi ritrovo accanto alla licorne, con lei immagino ancora una fabula altra.
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Il gusto
L’udito
La vista
L’olfatto
Il tatto
Mon seul désir
Note
[1] F. Zambon, (a cura di), Il Fisiologo, Adelphi, Milano 1975, p. 61.
[2] Al riguardo mi sono soffermata in modo particolare sugli studi di R. Marco, Il ciclo dell’unicorno. Miti d’oriente e d’occidente, Marsilio, Venezia 1992; J.-P. Jossua, La licorne, Éditons du Cerf, Paris, 1994; G. Büttner, La Dame à la licorne. Les tapisseries du Musée de Cluny – Tableaux d’un chemin spiritual, Editions Iona, Paris 1996; E. Delahaye, La Dame à la Licorne, Éditions de la Réunion des Musées Nationaux, Paris 2007; I. Oelschläger, Le mystérieux désir da la Dame à la Licorne, Éditions Novalis, Paris 2008.
[3] ‘Enigmatico’ desiderio di sé a partire da sé che, inquietando l’immaginario, ci riconduce (già nelle interpretazioni degli Arazzi di Cluny) a Sigmund Freud, (1932), 2011, L’enigma della femminilità in Opere, Torino, Bollati Boringhieri.
[4] Quando mi riferisco alla donna assunta entro un immaginario espropriante impiego, in carattere maiuscolo, ‘Dama’ o ‘Donna’ entro declinazioni simboliche e contesti storico-culturali precisati via via nel testo.
[5] F. Giardini, L’alleanza inquieta. Dimensioni politiche del linguaggio, Le Lettere, Firenze 2010 pp. 134-163.
[6] Sull’immaginazione non autoespropriante delle donne entro la produzione letteraria vedi L. Moschini, Canoni e dissonanze. Appunti su letteratura, cittadinanza, pensiero differente, Aracne, Roma 2012.
[7] A partire dal 1983 il ciclo di questi arazzi è esposto nella nuova sezione del Museo The Cloister (distaccamento del Dipartimento di Arte medievale del Metropolitan Museum of Art di New York).
[8] Si ricordi qui il significato pioneristico del testo di A. Cavarero, Nonostante Platone, Editori Riuniti, Roma 1990.
[9] Così dispiega la sua riflessione sull’amore, soprattutto in riferimento a Sibilla Aleramo, L. Melandri in Come nasce il sogno d’amore, Bollati Boringhieri, Torino 1988.
[10] Vedi N. Loraux, (1997), La cité divisée. L’oubli dans la mémoire d’Athènes, Paris, Édition Payot § Rivages (trad. it. 2006, La città divisa. L’oblio nella memoria di Atene, Vicenza, Neri Pozza) ma anche Ead., (1989), Les expériences de Tirésias. Le féminin et l’homme grec, Paris, Gallimard (trad. it. 1991, Il femminile e l’uomo greco, Roma-Bari, Laterza) e, del 1993, il suo Éloge de l’anachronisme en histoire, in «Le Genre Humain», 27, 23-29. Vedi anche lo studio di S. Campese, La cittadina impossibile. La donna nell’Atene dei filosofi, Sellerio, Palermo 1977.
[11] Rivolta Femminile, (1971), Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile, in C. Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, «Scritti di Rivolta Femminile» 1, 2, 3, Milano 1974, p. 64.
[12] Ch. Zamboni, Quando il reale si crepa, in Diotima, La magica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005, pp. 99-112.
[13] Seppure a partire da premesse differenti dalla differenza di genere a tale ‘dolorismo’, causa di molta conflittualità e competizione tra donne (il cui significato è dunque politico), S. Weil fa in certo senso riferimento ne La condizione operaia, trad. it., Se, Milano 1994, p. 122.
[14] C. Lonzi, Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, «Scritti di Rivolta femminile», Prototipi, Milano1980, p. 76.
[15] L. Moschini, Canoni e dissonanze. Appunti su letteratura, cittadinanza, pensiero differente, Aracne, Roma 2012, p. 177.
[16] F. Giardini, L’alleanza inquieta, op. cit., p. 138.
[17] Ibid. pp. 138 e 139.
[18] L. Moschini, Canoni e dissonanze, op. cit. p. 75.
[19] Mi riferisco qui, in particolare, a L. Irigaray, (1984), Ethique de la différence sexuelle, Paris, Minuit (trad. it. 1985, Etica della differenza sessuale, Milano, Feltrinelli); Ead., (1992), J’aime à toi, Paris, Grasset (trad. it. 1993, Amo a te, Torino, Bollati Boringhieri); Ead., (2008), Le partage du monde (trad. it. 2009, Condividere il mondo, Torino, Bollati Boringhieri).
[20] Vedi I. Strazzeri, Post-Patriarcato, l’agonia di un ordine simbolico. Sintomi, passaggi, discontinuità, sfide, Aracne, Roma 2014.
[21] Cfr. F. Giardini, cit., pp. 138-141.
[22] Permane infatti un simbolismo passivo che inerisce alla femminilità anche in C.G. Jung, (1952), Symbole der Wandlung. Analyse des Vorspiels zu einer Schizophrenie, Zürich, Foundation of the Works of C.G. Jung (trad. it. 1965, La libido: simboli e trasformazioni, Torino, Bollati Boringhieri).
[23] Pur volendo recuperare una psicologia del femminile fuori dall’ordine patriarcale anche Erich Neumann sembra cedere, nell’impostazione di fondo del suo pensiero, all’idea di un mitico Femminino ‘passivo’ che precede la ‘coscienza’. Al riguardo vedi E. Neumann, (1949), Ursprungsgeschichte Des Bewusstseins, Zürich, Rascher Verlag (trad. it. 1978, Storia delle origini della coscienza, Roma, Ubaldini Editore); Id., (1953), Zur Psychologie Des Weiblichen, Zürich, Rascher Verlag (trad. it. 1975, La psicologia del femminile, Roma, Ubaldini Editore); Id., (1971), Woman’s Mysteries a Psychological Interpretation of the Feminine Principle as portrayed in Mith, Story, and Dreams, New York, C.G. Joung Foundation for Analytical Psycology (trad. it. 1973, I misteri della donna, Roma, Ubaldini Editore).
[24] Vedi F. Giardini, (a cura di), Sensibili guerriere. Sulla forza femminile, Iacobelli, Roma 2011.
[25]In tal senso è utile il confronto ‘generazionale’ tra Simone de Beauvoir, (1949), Le deuxième sexe, Paris, Gallimard (trad. it. 1961, Il secondo sesso, Milano, il Saggiatore) e Julia Kristeva, (1990), Les Samuraïs, Paris, Librairie Arthème Fayard (trad. it. 1992, I Samurai, Torino, Einaudi).
[26] Vedi F. Giardini, G. Piccardi, Produzione e riproduzione. Genealogie e teorie, Edizioni Pigreco, Roma 2015.
[27] Oltre allo scritto di C. Lonzi, (1969), Autoritratto, Milano, et al./, 2010, vedi anche il testo inedito s.d. Carla Lonzi del 1980, “Fondo Rivolta femminile”, Fondazione Jacqueline Vodoz-Bruno Danese, Milano (in G. Zapperi, Il tempo del femminismo. Soggettività e storia in Carla Lonzi, «Studi Culturali», Anno XII, n. 1, aprile 2015, pp. 66 e 78).
[28]Cfr. C. Lonzi, (1977), Perché si sappia. Intervista di Michèle Causse a Carla Lonzi, in M.G. Chinese, C. Lonzi, M. Lonzi, A. Jaquinta, È già politica, «Scritti di Rivolta femminile», Milano, p. 104. Vedi anche di Diotima La sapienza di partire da sé, Liguori, Napoli 1996 e Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Liguori, Napoli 2002.
[29] Vedi E. Stein, Il problema dell’empatia, trad. it., Studium, Roma 1985 e lo studio di L. Boella – A. Buttarelli, Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Cortina, Milano 2000.
[30] Su questo si articola la riflessione di F. Giardini in Relazioni. Differenza sessuale e fenomenologia, Sossella Editore, Roma 2004. In sintonia con lo stesso approccio ho affrontato il rapporto tra Einfühlung e ‘corpo-memoria’ nel mio testo Dissonanze d’anima. Per una dottrina della conoscenza sensibile, Aracne, Roma 2011, pp. 131-157.
[31] Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, Milano, La Tartaruga, Milano 1987.
[32] Cfr. A. M. Piussi, Era là dall’inizio, in Diotima, Il cielo stellato dentro di noi. L’ordine simbolico della madre, La Tartaruga, Milano 1992, pp. 21-48. Vedi anche Diotima, L’ombra della madre, Liguori, Napoli 2007.
[33] Di H. Arendt mi riferisco, qui, soprattutto al testo del 1968, Between Past and Future, New York, The Viking Press (trad. it. 1991, Tra passato e futuro, Milano, Garzanti).
[34] Cfr. Diotima, Mettere al mondo il mondo. Oggetto e oggettività alla luce della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1990, pp. 9-77 e 173-189.
[35] H.R. Jauss, Breve apologia dell’esperienza estetica, trad. it., Mimesis, Milano 2011.
[36] Ibid., p. 43.
[37] G.W. F. Hegel, Estetica, trad. it., Einaudi, Torino 1972, pp. 39-40.
[38] Cfr. P. Bono, Scritture del corpo, in AA. VV, Scritture del corpo. Hélène Cixous variazioni su tema, Sossella Ed., Roma 2000, p. 8.
[39] A. Buttarelli, (2002), Tabula rasa, in Diotima, Approfittare dell’assenza, pp. 144-145.
[40] Sull’ornamentale simbolico, proprio della poiesis narrativa delle donne, mi sono soffermata nel mio testo Ricezione e narrazione di un’estetica femminile, Aracne, Roma 2012.
[41] Rivolta Femminile (1971), Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile, op. cit.
[42] Vedi S. Danesi Squarzina, Tracce per lo studio della cultura figurativa fiamminga e olandese dal XV al VII secolo, Apeiron, Roma 1997.
[43] Cfr. T. Tzvetan, (2000), Éloge de l’Individu. Essai sur la peinture flamande de la Renaissance, Paris, Sovieté Nouvelle Adam Biro (trad. it. 2001, Elogio dell’Individuo. Saggio sulla pittura fiamminga del Rinascimento, Roma, Apeiron, pp. 22-34).
[44] Per converso vedi l’analisi di M. Forcina, Soggette. Corpo, politica, filosofia: percorsi nella differenza, Franco Angeli, Milano 2000.
[45] C. Lonzi, (1972), Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi, in Ead., Sputiamo su Hegel e altri scritti, «Scritti di Rivolta Femminile» 1, 2, 3, Milano 1974, p. 141.
[46] L’opera è conservata presso il Musée d’Histoire a Berna.
[47] E. Panofsky, (1924), Idea. Ein Beitrag zur Begiffsgeschichte der älteren Kunsttheorie, Leipzig-Berlin, Teubner (trad. it. 1973, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, Firenze, La Nuova Italia).
[48] A. Chastel, (2001), Le geste dans l’art, Éditions Liana Levi (trad. it. 2008, Il gesto nell’arte, Roma-Bari, Laterza).
[49] F. Giardini, L’alleanza inquieta, op. cit., p. 136.
[50] Anonimo, Neferoure e Neferneferoute, Oxford, Ashmolean Museum.
[51] C. Lonzi, Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, op. cit., p. 32.
[52] Ibid., pp. 33 e 77.
[53] Tale forza del simbolico, in F. Giardini, ripropone anche tra “rappresentazione e rappresentanza” il problema «della presa di parola, una parola che sia comunicativa, che esprima chi parla, che sappia sollecitare attenzione e ascolto, non rumore ma voce che sappia entrare nel conto, nelle relazioni», in Ead., L’alleanza inquieta, op. cit., p. 141.
[54] Vedi lo studio di R. de Mambro Santos, Il Canone Metamorfico. Saggio sulla pittura del Manierismo fiammingo e olandese, Apeiron, Roma 2002.
[55] Al riguardo sono emblematici i racconti di ‘avventura’ e di ‘amore’ del cavaliere negli studi di G. Duby, (1981), Le chevalier, la femme et le prête. Le mariage dans la France féodale, Paris, Hachette (trad. it. 2003, Il cavaliere la donna e il prete, Roma-Bari, Laterza); Id., (1993), Le chevalierìe racontée aux enfants, Paris, Editions Perrin (trad. it 2015, L’avventura di un cavaliere medievale raccontata da Gerges Duby, Roma-Bari, Laterza); Id., (1995), Dames du XII siècle. Le souvenir des aïeules, Paris, Gallimard (trad. it. 2001, Il potere delle donne nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza).
[56] F. Zambon (a cura di), Richard de Fournival. Il bestiario d’amore, Carocci, Roma 1997.
[57]Circa il valore politico del linguaggio vedi soprattutto H. Arendt (1963), On Revolution, New York, The Viking Press (trad. it. 1983, Sulla rivoluzione, Milano, Edizioni di Comunità) e lo studio di L. Moschini, L’attualità di Hannah Arendt nelle politiche di genere, in Brezzi, Pansera (a cura di), L’eredità di Hannah Arendt a cento anni dalla nascita, Milano, B@belonprint, pp. 119-130.
[58] Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg § Sellier, Torino, 1987.
[59] F. Zambon (a cura di), Il Fisiologo, op. cit., p. 31.
[60] Ibid.
[61] Mi riferisco soprattutto a M. Nucci, Le lacrime degli eroi, Einaudi, Torino, 2013, pp. 143-170.
[62] F. Zambon, (a cura di), Richard de Fournival, op. cit., p. 34.
[63] C. Segre, (a cura di), Li bestiaires d’amours di Maistre Richart de Fornival e li reponse du bestiaire, Ricciardi, Milano-Napoli 1957, p. 44.
[64] In particolare mi riferisco allo studio di M.-M. Davy, (1964), Initation à la symbolique romane, Paris, Éditions Flammarion (trad. it. 1988, Il simbolismo medievale, Roma, Edizioni Mediterranee).
[65] Vedi soprattutto M. Detienne, (1972), Les jardins d’Adonis, Paris, Gallimard (trad. it. 2009, I giardini di Adone, Milano, Raffaello Cortina Editore).
[66] Tra i numerosi saggi segnalo, perché funzionali alla mia interpretazione dell’immaginario medievale, quelli di L. Binni, (a cura di), 1971, Manuel d’Histoire littéraire de la France. Des origines à 1600, Paris, Messidor/Editions Sociales (trad. it. 1985, Storia della Letteratura Francese. Dalle origini al 1789, vol. I, Milano, Garzanti); M. Fumagalli Beonio Brocchieri, L’estetica medievale, il Mulino, Bologna 2002; J. Le Goff, Jacques, (1985), L’imaginaire médieval, Paris, Gallimard (trad. it. 1988, L’immaginario medievale, Roma-Bari, Laterza); Id., (2012), Hommes et Femmes du Moyen Âge, Paris, Flammarion (trad. it. 2013, Uomini e donne del Medioevo, Laterza); F. Bertini – F. Cardini – M. Fumagalli Beonio Brocchieri – C. Leonardi, Medioevo al femminile, Laterza, Roma-Bari 1989.
[67] Testo estratto da Il libro della caccia di Gaston Phébus, Bibliothèque Nationale de France.
[68] Qui mi riferisco in particolare al testo di N. Loraux del 1989, Les expériences de Tirésias, op. cit.
[69] Numerosi i passaggi, al riguardo, in E. Rasy, Le donne e la letteratura. Scrittrici eroine e ispiratrici nel mondo delle lettere, Editori Riuniti, Roma 1984.
[70] Storicamente rilevante, e non soltanto per la Società delle Letterate, resta la pubblicazione di L. Borghi,– R. Svandrlik (a cura di), S/Oggetti Immaginari, Quattroventi, Firenze 1996. Vedi anche A. Buttarelli, Sovrane. L’autorità femminile al governo, Il Saggiatore, Milano 2013 e M. Forcina – A. Prontera – P.I. Vergine (a cura di), Filosofia Donne Filosofie. Atti del Convegno Internazionale, Lecce, 27-30 Aprile 1992, Milella, Lecce 1994.
[71] Anche in questa prospettiva si possono leggere le pagine di J. Butler, (1997), The Psychic Life of Power, Stanford, Stanford University Press (trad. it. 2013, La vita psichica del potere. Teorie della soggetivazione e dell’assoggettamento, Milano, Mimesis); Ead., (2004), Undoing gender, New York-London, Routledge (trad. it. 2014, Fare e disfare il genere, Milano, Mimesis).
[72]C. Segre, (a cura di), Li bestiaires d’amours, op. cit., p. 42.
[73]M. Forcina, Soggette, cit.
[74] Circa la complessità psicologica del ‘raccontarsi una storia desiderabile’, nonostante la realtà la smentisca, vedi P. Pedrini, L’autoinganno. Che cos’è e come funziona, Laterza, Roma-Bari 2013.
[75] B. Friedan, (1997), trad. it., La mistica della femminilità, Castelvecchi, Roma 2012.
[76] F. Castelli, Corpi in rivolta, Mimesis, Milano 2015, p.11.
[77] Ibid.
[78] A. Heller, (2013), Freiheit ist für mich der höchste Wert, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», 4, pp. 593-603 (trad. it. 2014, Solo se sono libera, Roma, Castelvecchi).
[79] S. Weil, La condizione operaia, trad. it., Se, Milano 1994, p. 122.
[80] H. Ibsen, L’anatra selvatica, trad. it., Rizzoli, Milano1956, opera che prelude ai più intimisti Rosmersholm (1886), La donna del mare (1888) ed Edda Gabler (1890).
[81] Vedi A. Cavarero, Corpo in figure, Feltrinelli, Milano 1995; Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità, Liguori, Napoli 1995.
[82] Ibid., pp. 141 e 154-155.
[83] F. Giardini, L’alleanza inquieta, op. cit., p. 149.
[84] Per la centralità della relazione tra desiderio e riconoscimento, nonché per la radicale relazione con l’alterità che la costituzione del soggetto comporta, vedi soprattutto J. Butler, Soggetti di desiderio, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2009.
[85] Esiodo, Èrga kai Hemérai, vv. 39 e 200.
[86] M. Forcina, Ironia e saperi femminili. Relazioni nella differenza, Franco Angeli, Milano 1998.
[87] Ch. Zamboni, Quando il reale si crepa, op. cit., pp. 99-112.
[88] H. Cixous, Tancredi ancora in P. Bono, (a cura di), Scritture del corpo. Hélène Cixous variazioni su un tema, Sossella Ed., Roma 2000, p. 71.
[89] Vedi D. Sartori, Dare autorità, fare ordine, in Diotima, Il cielo stellato dentro di noi, 1992; L. Muraro, La nostra comune capacità di infinito, in Diotima, Mettere al mondo il mondo, 1990; Ead., Partire da sé e non farsi trovare…, in Diotima, La sapienza di partire da sé, Liguori, Napoli 1996, pp. 5-22.
[90] La mia lettura della licorne prende continuamente le distanze dall’interpretazione di C.G. Jung offerta nel suo testo del 1944, Psychologie und Alchemie, Zürich, Foundation of the Works of C.G. Jung (trad. it. 1992, Psicologia e alchimia, Torino, Bollati Boringhieri, pp. 416-461).
[91] F. Sigmund, (1919), 1977, Il perturbante in Opere, Torino, Bollati Boringhieri.
[92] R. Ceserani, Il fantastico, il Mulino, Bologna 1996.
[93] J. Derrida(1979), L’écriture et la différence, Paris, Seuil (trad. it. 1990, La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi).
[94] F. Giardini, (a cura di), Sensibili guerriere, op. cit., p. 7.
[95] Oltre al pensiero di L. Irigaray, già ricordato, vorrei sottolineare la valenza etica dell’amore nelle filosofe italiane F. Brezzi, – M. T. Russo, (a cura di), Oltre la società degli individui. Teoria ed etica del dono, Bollati Boringhieri, Torino 2011; C. Briganti, Amo dunque sono. L’esperienza femminile tra filosofia e testimonianza, Franco Angeli, Milano 2002; C. Dovolich, Singolare e molteplice, Franco Angeli, Milano 1999; Ead., Etica come responsabilità. Prospettive a confronto, Mimesis, Milano 2003.
[96] Sul valore del soggetto in relazione vedi F. Brezzi, Piccolo manuale di etica contemporanea, Donzelli, Roma 2012.
[97] P. Bono, (a cura di), Scritture del corpo, cit.
[98] Mi sono soffermata ampiamente su questo tema sia nel mio testo Estetica al femminile. Cosmetica e kosmos, Aracne, Roma 2012 sia in Estetica performativa. La forma e la sua dissoluzione creativa, in Carolina Carriero (a cura di), La difforme bellezza di un testo letterario, Aracne, Roma 2012, pp. 5-37.
[99] P. Bono, (a cura di), Scritture del corpo, op. cit., p. 57.
[100] N. Setti, Passaggi di genere. Figure e transfigure della differenza, in Paola Bono (a cura di), Scritture del corpo, op. cit., pp. 79-105.
[101] Ibid., pp. 57-58.
[102] J. Derrida (2000), Le toucher, Jean-Luc Nancy, Paris, Éditions Galilée (trad. it. 2007, Toccare, Jean-Luc Nancy, Genova-Milano, Marietti).
[103] A. Riegl, Problemi di stile, trad. it., Feltrinelli, Milano 1963.
[104] O. Jones, The grammar of ornament, Quaritch, London 1910.
[105] Ricordiamo lo ‘spazio profondo’, in sostituzione del ‘piano illimitato’ di A. Riegl, in P. Schneider, Petite histoire de l’infini en peinture, Hazan, Paris 2001.
[106] W. Worringer, op. cit., p. 27.
[107] Cfr. Ch. Buci-Glucksmann (2008), Philosophie de l’ornement: d’Orient en Occident, Paris, Éditions Galilée (trad. it. 2010, Filosofia dell’ornamento, Palermo, Sellerio, p. 51).
[108] H. Cixous., Tancredi continua, in P. Bono, (a cura di), Scritture sul corpo, op. cit., pp. 59-60.
[109] Ibid., pp. 76-77.
[110] Si tratta qui di realizzare un pensiero immaginativo che voglia rischiare di mantenersi sulla soglia tra reale e irreale, tra immaginazione e politica, senza più separare, a differenza di Sartre, l’immaginazione dalla percezione. Al riguardo vedi la critica a J.-P. Sartre, (1936), L’Imagination, Paris, Presses Universitaires de France (trad. it. 1962, L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, Milano, Bompiani) avanzata soprattutto da Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza fra reale e irreale, Liguori Editore, Napoli 2009.
[111] C. Lonzi, Taci, anzi parla, «Scritti di Rivolta Femminile», Milano 1978.
[112] Cfr. N. Loraux, Éloge de l’anachronisme en histoire, op. cit., pp. 23-29.
[113] Rivolta femminile, Primati dell’intuizione nella tabula rasa della cultura, 1977.
[114] Sul significato propulsivo di questa dislocazione vedi F. Giardini, Identità/differenza, in “Paradigmi”, 59, 2002; Ead., Speculum of Being Two, in “Theory Culture and Society”, 3, 2003.
[115] Vedi il Primo manifesto di «Rivolta femminile» (1970).
[116] Cfr. G. Zapperi, Il tempo del femminismo. Soggettività e storia in Carla Lonzi, «Studi Culturali», Anno XII, n. 1, aprile 2015, pp. 66-69.
[117] Ead, Carla Lonzi: la creatività del femminismo, in «Studi Culturali», cit., pp. 49-51.
[118] Sulla forza e ricchezza del ‘conflitto’, quale incontro nella reciproca differenza, e sulla creatività nella sua gestione rinvio al testo di M. Forcina, Ironia e saperi femminili, Franco Angeli, Milano 1995.
[119] Vedi F. Giardini, Genealogie dell’immaginario sessuato nel discorso filosofico, in “Sofia. Materiali di filosofia e cultura di donne”, 0, 1996; Ead., Sull’immaginario, ancora, in “DWF”, 37-38, 1998.
[120] F. Giardini, Relazioni. Differenza sessuale e fenomenologia, Roma, Sossella Editore, Roma 2004, p. 141.
[121] A. Buttarelli – F. Giardini (a cura di), 2008, Il pensiero dell’esperienza, Milano, Baldini Castoldi Dalai.
[122] F. Giardini, Fare comune, rigenerare cultura, in AA. VV., Teatro Valle Occupato. La rivolta culturale dei beni comuni, DeriveApprodi, Roma 2012, p. 38.
[123] Ibid, p. 39.
[124] C. Bracchi, Il vissuto incomparabile. Scritti di Barbara Balzerani, in Ead, a cura di, Le dissenzienti. Narrazioni e soggetti letterari, Manni, San Cesario di Lecce 2007, p. 138.
[125] J. Butler, Parole che provocano, trad. it., Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, p. 3.
[126] Ibid., p. 5. Al riguardo vedi anche Ead. (1990), Gender Trouble, London-New York, Routledge e, del 1993, Bodies that Matter, New York-London, Routledge (trad. it. 1996, Corpi che contano, Milano, Feltrinelli).
[127] Circa l’anteriorità del corpo al linguaggio, fino al ‘dolorismo muto’, vedi Elaine Scarry, La sofferenza del corpo. La distruzione e la costruzione del mondo, trad. it., il Mulino, Bologna 1990.
[128] F. Giardini, Fare comune, rigenerare cultura, in AA. VV., Teatro Valle Occupato, op. cit., p. 41.
[129] Sulla ‘risonanza’ in Carla Lonzi vedi F. Ventrella, (2014), Carla Lonzi’s Artwriting and the Resonance of Separatism, in «European Journal of Women’s Studies», 21 (3), pp. 282-287.
[130] L. Irigaray, (2012), Au commencement, elle était (trad. it. 2013, All’inizio, lei era, Torino, Bollati Boringhieri); Ead., (2013), The Conditions of Hospitality, New York, Fordham University Press (trad. it. 2014, L’ospitalità del femminile, Genova, il melangolo).
[131] Straordinario è il diverso registro, entro uno stile letterario che è già contenuto, messo in atto/in scrittura da Christine de Pizan sia ne Il Dibattito sul Romanzo della Rosa, (trad. it. 2006, Milano, Medusa) sia ne La città delle Dame, (trad. it. 2015, Roma, Carocci) sia nel Libro della pace, (trad. it. 2007, Milano, Medusa).
[132] Vedi soprattutto L. Imperio, Vestire nel Medioevo, Edizioni Penne § Papiri, Novara 2012.
[133] Vedi R. Braidotti, (1991), Patterns of Dissonance, New York, Routledge (trad. it. 1991, Dissonanze, Milano, La Tartaruga); Ead., (2003), In metamorfosi, Milano, Feltrinelli; Ead., (2013), The Posthuman, Polity Press (trad. it. 2014, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, Roma, DeriveApprodi).
[134] Vedi F. Collin, (1992), De bords, in AA.VV., Le corps des femmes, Bruxelles, Editions Complexe.
[135] Mi riferisco, in particolare, allo studio di R. Cavalieri, Gusto. L’intelligenza del palato, Laterza, Roma-Bari 2011.
[136] Vedi M.G. Muzzarelli, Nelle mani delle donne. Nutrire, guarire, avvelenare dal Medioevo a oggi, Laterza, Roma-Bari 2013.
[137] Ho sviluppato questo tema, relativamente al linguaggio autoespropriante delle mistiche del Medievo, nel mio saggio Fame mistica. Il gusto del miele eucaristico, in Cipriani – Lombardi Satriani (a cura di), Il Cibo e il Sacro, Armando, Roma 2013.
[138] In particolare ho sviluppato il valore anti/orfico della corporeità nel mio testo Il controcanto di Euridice, Aracne, Roma 2011.
[139] Vedi H. Arendt, (1958), The Human Condition, Chicago-London (trad. it. 1988, Vita activa, Milano, Bompiani); L. Irigaray, (1987), Sexes et genres, Paris, Minuit (trad. it. 1989, Sessi e genealogie, Milano, La Tartaruga); Ch. Zamboni, Pensare in presenza. Conversazioni, luoghi, improvvisazioni, Liguori, Napoli 2009.
[140] Cfr. A. Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013.
[141] Si possono qui leggere, entro una distanza irriverente dall’immaginario patriarcale, i testi di C. Lonzi sulla critica all’aurea artistica (già citati). Vedi anche E. Garroni, Creatività, Quodlibet, Macerata 2010.
[142] J. Lacan, (1966), Ecrits, Paris, Seuil (trad. it. 1974, Scritti, Torino, Einaudi).
[143] G. Marramao, La passione del presente, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[144] Tra gli studi di Giovanni Pugliese Carratelli si ricordano qui: Id., Sulla lamina orfica di Hipponion, in “PdP”, XXX, 1975; Id., Ancora sulla lamina orfica di Hipponion, in “PdP”, XXXI, 1976; Id., L’orfismo in Magna Grecia: Magna Grecia, III: Vita religiosa e cultura letteraria, filosofica e scientifica, Adelphi, Milano 1988; Id., Le lamine d’oro orfiche. Istruzioni per il viaggio oltremondano degli iniziati greci, Adelphi, Milano 2001.
[145] Vedi H. Cixous, (1980), Illa, Paris, Editions des femmes.
[146] Al riguardo vedi C. Lonzi, Armande sono io!, «Scritti di Rivolta Femminile», Milano 1992; cfr. anche il testo di B. Craveri, La civiltà della conversazione, Milano, Adelphi, Milano 2001.
[147]G. Bufalino, Opere, 2 voll., Bompiani, Milano 2007, p. 76.
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