Quando parla l’esperienza accade sempre qualcosa di autentico e potente, qualcosa che resta. Sapevo bene a cosa andavo incontro quando sono andata a vedere MDLSX all’Angelo Mai, lo spettacolo di Silvia Calderoni – una produzione Motus – e in parte sapeva anche lei cosa avrei potuto dire e pensare. Eravamo emozionate, io perché finalmente potevo vederla in scena, lei perché desiderava e temeva assieme a me.
“Sono preoccupata, lo so che non ti piace Preciado” e io “no, non capisco perché pensi che non mi piaccia, semplicemente non è la mia esperienza”. Ecco, l’esperienza. MDLSX è una narrazione esperienziale ed è questo che rende unico tutto lo spettacolo o forse solo tutta quella voglia di mettere in scena una vita, come atto terapeutico e ironico allo stesso tempo. Potremmo scrivere lunghe prolusioni sul senso e sul portato degli scritti di Preciado, di Judith Butler, di Foucault e della traduzione scenica della massa emotiva presente nel romanzo Middlesex di Eugenides, poi trasposti in questo spettacolo, ma andremmo fuori traccia. La potenza scenica di Silvia è quella di un corpo che parla, ma non nega l’esistenza di tutto quel che complica rispetto alle parole che impariamo leggendo e studiando perché lei non fa dell’ideologia queer una bandiera dietro cui trincerarsi, ma solo un modo per trovare le parole per dirlo, per dire la vita, la propria esperienza, quell’entrare e uscire dal corpo che tutte e tutti abbiamo vissuto a vario titolo tra infanzia e adolescenza, etero e no (corpi grassi, acne, brufoli, eccesso di magrezza…).
Silvia non nega di venire da un paese di provincia, non nega di doversi misurare con dei genitori che possono anche non capire, ma non per questo vanno messi al bando, non nega di misurarsi con suo fratello, non nega niente della sua storia. Ci sta dentro, tutta, e la attraversa come si fa stando in una barchetta nell’oceano, con la stessa forza che ogni tanto cede alla disperazione. MDLSX è una storia di amore complicata, persino divertente ed esilarante in alcuni momenti, come d’altronde lo sono tutti “i disastri”. Il suo corpo sta lì, sulla scena, come in una lunga seduta psicoanalitica dai toni pop che lavora a metà tra la parola fendente e l’alleggerimento, lì a dirci ciò che lei è stata ed è, spogliandosi di tutti quei “dover essere” che bloccano, limitano il desiderio sino a non sentirlo più. “E quindi? Dimmi!”. “E quindi sei stata fantastica Silvia, mi hai emozionata e provo a dire perché”.
Da giorni, forse mesi, chi viene dagli studi sulla norma eterosessuale e dalla differenza, come nel mio caso, fa fatica a trovare le parole per dire cosa e come nominare tutto quello che sta accadendo attorno ai dibattiti contemporanei sulle unioni civili, sul gender-no gender e sulla famosa questione degli “uteri in affitto”. La fatica viene da almeno due o tre elementi complessi, ma non per questo intraducibili: è davvero possibile collocarsi nei dibattiti polarizzati che, in quanto tali, mettono a tacere l’esperienza favorendo la parola astratta su sesso e genere? E’ davvero possibile stabilire una linea di demarcazione netta tra femminismo e queer? Se la mia esperienza di genere corrisponde con il mio sesso e l’esperienza di un’altra/o no perché devo negarmi di dire la mia verità per paura di essere tacciata di “essenzialismo” o “omofobia” e perché l’esperienza di Silvia o di Preciado vengono usate per collocarsi in questo o in quell’altro femminismo se alla fine tutto ciò che conta è solo far parlare il corpo contro ogni tentazione di scindersi?
Lo spettacolo di Silvia è potente, oltre che per le ragioni sopra descritte, perché rompe tutti i canoni narrativi, non solo quelli dell’eteronormatività, della creazione del “mostro” – come ci ha insegnato Foucault ne Gli Anormali– , ma anche e soprattutto perché scompone luoghi comuni non cedendo mai fino in fondo alla parola astratta e ideologica. Le parole si usano ma solo per riportare la narrazione di una vita nell’unico luogo, tempo e sapere che ci rende potenti: il dirci e farci singolarità al di là dei cartelli identitari, perché è solo ed esclusivamente questo a renderci differenti e non conformi, eccedenti dicevamo una volta. Spostarsi sulla nostra singolarità, infatti, è gesto intelligente proprio perché ci toglie da ogni forma di cristallizzazione che talvolta attraversa le parole del femminismo. Il punto, infatti, non è e non può essere la traduzione volgare della differenza in corpo biologico etero-normato, ma al contrario è quel fare la differenza a partire dalle parole che la nostra esperienza ci indica a determinare lo scarto. La rivoluzione vera avviene quando le parole, così come l’afasia, coincidono con il sentire del corpo e dell’esperienza sino a farsi pensiero.
Silvia, in un punto preciso del suo spettacolo, verso la fine, dice: “Io sono questo, sono sempre stata questo”, ma quel “questo”, proprio perché è un divenire, non approda mai ad una identità ideologicamente costruita, è il “questo” della sua singolarità e della sua esperienza, quasi innominabile, potente perché vero, forte perché incarnato, emozionante perché lontano anni luce dalla parola astratta. Quella parola astratta e scollegata dal corpo e dall’esperienza che in Carla Lonzi e nel suo gruppo costituì il primo passo per riappropriarsi di sé e del proprio desiderio sputando su Hegel e sulla dialettica servo-padrone, cioè su quel gesto nefasto di trasformare la propria differenza, la propria eccedenza in un processo di normalizzazione, per diventare come il padrone, per prendere il suo posto, come molto emancipazionismo spesso fa e non solo tra le donne, anche nei movimenti LGBTQ. Il corpo e la grana della voce di Silvia Calderoni la seguono incessantemente in tutto lo spettacolo arrivando fin dentro le viscere di ciascuno perché non altro da lei e si mostrano attraverso una piccola telecamera che sembra assumere il ruolo della cosiddetta funzione specchio, cioè quell’atto del guardare, del guardarsi, che spesso diventa difforme rispetto alla stessa narrazione performante. Talmente difforme da impressionarci, impaurirci. Esattamente come accade quando ci dicono cose che poi non combaciano con quello che vediamo, sentiamo, esperiamo. Il linguaggio performativo, infatti, può darsi sia come gesto che si scollega dal sé andando ad assumere tonalità prestazionali, sia come gesto che rompe ogni canone narrativo proprio perché traduce il sé. Jacques Lacan diceva che la donna non esiste. È vero, la donna come costruzione sociale non esiste, così come non esiste il gender e il no gender perché già frutto di un ordine discorsivo prodotto dialetticamente. Il salto, e Silvia con MDSLX salta, è un altro. E’ quel coraggio di essere se stessi, più o meno sempre, cioè quel coraggio che ha sempre reso l’esperienza femminista, nelle sue forme molteplici, un sapere che andava a minare le fondamenta di ogni infingimento linguistico. “Fare della propria vita un’opera d’arte” insegnava Lonzi e Silvia in MDLSX lo fa benissimo. Anzi, potremmo dire che Silvia è un’opera d’arte.