In Fogli Campostrini, vol. 3, n. 3, 2012
- Dalla parodia drag all’etica della non-violenza. Il nome di Butler ha acquistato una certa fama in seguito al successo editoriale di Gender Trouble(1990)[2]. Con questo libro Butler si è inserita nel dibattito dei Women’s Studiescontestando quelle teorie femministe che muovono dal presupposto dell’esistenza di una differenza essenziale tra genere maschile e femminile riconducibile alla differenza corporea tra i sessi[3]. A queste teorie Butler risponde riprendendo e rielaborando la psicanalisi di Jacques Lacan[4] e la genealogia di Michel Foucault[5]. Com’è noto, Lacan sostiene che le “posizioni” maschile e femminile non derivano direttamente dalla biologia, ma appartengono all’“ordine simbolico” e che quest’ultimo è a sua volta posto in essere dalla struttura edipica – cioè da quel divieto dell’incesto che, per Jacques Lacan come per Claude Levi-Strauss, costituisce il momento inaugurale di ogni cultura e di ogni soggettività. Butler assume in parte queste tesi strutturaliste, ma a Lacan contesta di dare per scontato che il divieto dell’incesto implichi anche la proibizione dell’omosessualità. Soprattutto, a Lacan Butler contesta di non tenere conto del fatto che l’“ordine simbolico” è in realtà un ordine sociale, che non trascende la cultura ma è a sua volta culturale[6]. Dal metodo genalogico di Foucault (a cui resta ancorata in tutto il suo percorso teorico) Butler apprende, infatti, che la sessualità non è una realtà immutabile comune a tutti gli esseri umani, ma un “dispositivo” di sapere-potere, un prodotto storico. Al femminismo essenzialista Butler contrappone quindi la tesi costruttivista, e altamente controintuitiva, secondo cui la differenza di genere deriva non da un’elaborazione culturale delle differenze corporee, ma da una matrice di potere che Butler, seguendo Adrienne Rich[7], chiama “eterosessualità obbligatoria”. Per Butler, il dominio degli uomini sulle donne (quel dominio che le femministe chiamano “patriarcato”) è l’esito dell’“eteronormatività”: sarebbe cioè il desiderio eterosessuale, elevato a rango di struttura normativa fondamentale, a rendere culturalmente significativa la differenza sessuale e a determinare la condanna morale di quei soggetti che a questa struttura normativa non si conformano. Pertanto, secondo Butler, il femminismo, quando non si interroga sulla costruzione culturale della soggettività femminile e quando non accoglie al centro delle proprie riflessioni e delle proprie lotte politiche le questioni dell’omosessualità, della transessualità, del transgenderismo e dell’intersessualità, finisce per sostenere surrettiziamente le stesse strutture di potere che dichiara di voler demolire. Le conclusioni a cui approda Gender Trouble sono note: Butler celebra la drag queen[8] come eroina di una politica sovversiva del genere che usa le armi della parodia. Facendosi beffe dell’imperativo di coerenza tra sesso e genere, sfidando il copione dell’eterosessualità obbligatoria, la drag queen rivela infatti «che l’identità originaria in base alla quale il genere modella se stesso è un’imitazione senza origine»[9], e che il genere stesso altro non è se non una “performance”, una recita creduta reale che è possibile variare con improvvisazioni che sfidino il copione dell’eterosessualità obbligatoria.
Dato il successo di Gender Trouble, il nome di Butler è rimasto a lungo legato al pensiero lesbofemminista e queer[10]. Del resto alcuni suoi testi sucessivi, come Bodies that Matter (1993)[11], The Psychic Life of Power (1997)[12], Excitable Speech (1997)[13], Undoing Gender (2004)[14] sono in buona parte dedicati a riesaminare le tesi di questo libro e a tentare di scioglierne alcuni nodi problematici. Esiste però anche un’altra Butler, forse oggi altrettanto nota della pioniera delle queer theories. Si tratta della Butler che, dopo l’11 settembre 2001, si è opposta alle politiche di guerra inaugurate dall’amministrazione Bush affermandosi come una delle più autorevoli voci della sinistra americana. In Precarious Life (2004)[15] e Frames of War(2010)[16], ad esempio, Butler denuncia come nella “guerra contro il terrore” il nemico sia stato disumanizzato. Scandalose prove di questo processo di disumanizzazione sono state per lei non soltanto la sospensione dei diritti umani dei sospetti terroristi detenuti a Guantanamo bay, ma anche il rifiuto, da parte dei media statunitensi, di esprimere cordoglio per le vittime irachene dei bombardamenti americani e per le vittime palestinesi delle rappresaglie dell’esercito israeliano. A essere esibite sulla stampa degli USA sono state soltanto immagini delle vittime americane o israeliane, «quei corpi che devono essere compianti»[17] al fine di giustificare la guerra. A questa disumanizzazione del nemico, Butler contrappone un’etica non-violenta fondata sulla consapevolezza della vulnerabilità che accomuna ogni essere umano. In Precarious Life Butler approda a questa etica attraverso il recupero delle riflessioni di Emmanuel Lévinas[18] sul concetto di responsabilità; in seguito, in Giving an Account of Oneself (2005)[19], Butler arricchisce le proprie riflessioni confrontandosi con la critica della violenza di Theodor Wiesengrund Adorno[20]. Lévinas sostiene che il desiderio di uccidere è il primo impulso che un essere umano avverte quando incontra la vulnerabilità dell’altro e che «l’ingiunzione etica consiste precisamente nel combattere questo primo impulso»[21]. La scelta morale tra la tentazione di uccidere o il desiderio di pace è quindi una decisione di cui siamo sempre responsabili, di cui cioè dobbiamo sempre rispondere all’altro. Questo vale, per Lévinas, anche quando siamo di fronte a una minaccia di morte violenta: a suo avviso infatti «l’autoconservazione non è mai una condizione sufficiente per una giustificazione etica della violenza», e quindi «uccidere in nome dell’auto-conservazione non è [mai] giustificato»[22]. Butler, che è ebrea e statunitense, fa valere questo insegnamento tanto per gli ebrei dopo la Shoah, quanto per gli americani dopo l’11 settembre. Paradossalmente, per Lévinas e per Butler le situazioni in cui maggiormente siamo istituiti come soggetti responsabili non sono quelle in cui siamo accusati di aver commesso un atto violento, ma quelle in cui siamo vittime di violenza. Anche Adorno sostiene, del resto, che «il modo in cui rispondiamo a un’offesa può offrirci la possibilità di diventare umani»[23]. Butler sembra voler suggerire che per diventare pienamente umani occorre riconoscere nella nostra vulnerabilità la vulnerabilità dell’altro, e scegliere il dialogo, l’interrogazione delle motivazioni dell’altro, in luogo di un’accusa che muove da un’assolutizzazione delle nostre motivazioni. Paradossalmente, ciò che caratterizza l’etica non-violenta di Butler è la sospensione del giudizio morale sull’altro: da Adorno Butler apprende infatti che il giudizio, sussumendo un particolare sotto un universale, tende sempre alla violenza. Solo lasciando l’altro libero di mostrarsi qual è, e quale sta diventando in relazione a noi[24], senza pretendere da lui una narrazione coerente sui propri atti, lo incontreremo davvero, e questo incontro cambierà i nostri giudizi morali.
- L’estasi dell’alterità, tra genealogia e psicoanalisi. Le riflessioni pacifiste dell’ultima Butler possono sembrare molto distanti dalla tematizzazione della politica sovversiva del genere di Gender Trouble. Ma in realtà nella produzione di Butler è possibile, a mio avviso, reperire una profonda continuità derivante dalle ascendenze hegeliane presenti nella sua concezione della soggettività. Infatti è proprio in virtù di un recupero della teoria hegeliana del riconoscimento che Butler negli anni 1990 contesta il binarismo sessuale, ed è in virtù di una rielaborazione della stessa teoria che, in testi successivi al 2000, tematizza la possibilità di un’etica non-violenta.
Come ho accennato sopra, la concezione butleriana del genere come performance deriva soprattutto da una rielaborazione delle teorizzazioni di Lacan e di Foucault. Prima di Gender Trouble, in Subjects of Desire (1987)[25] che è il suo primo libro, rielaborazione della sua tesi di dottorato, Butler si era soffermata sulle influenze di Hegel sulla filosofia francese del secondo Novecento. In Subjects of Desire sia l’affermazione lacaniana secondo cui la soggettività è resa possibile dalla “legge del padre”[26], sia la tesi foucaultiana secondo cui il soggetto è costitutivamente condizionato nel suo essere da dispositivi di potere, appaiono a Butler come riformulazioni della teoria della lotta per il riconoscimento tra signore e servo esposta da Hegel nellaFenomenologia dello spirito e commentata da Alexandre Kojève nelle sue celebri lezioni degli anni 1930[27]. Secondo l’interpretazione che Butler fornisce di questa teoria, ogni essere umano viene all’esistenza non come individuo padrone di sé, ma come soggetto caratterizzato «da un coinvolgimento ex-statico con l’altro»[28]. Ogni soggetto esiste cioè fuori di sé, perché la realtà della sua identità dipende dal riconoscimento degli altri soggetti. È appunto rielaborando con categorie lacaniane e foucaultiane questi assunti di Hegel, che in Gender Trouble Butler contesta le teorie essenzialiste della differenza sessuale e giunge a sostenere la natura performativa del genere: ogni identità è una recita che per essere efficace richiede un pubblico in grado di apprezzarla. Il copione di questa recita solo in apparenza è già deciso, mentre in realtà, come dimostrano gli spettacoli delle drag queen, può essere rielaborato attraverso una mediazione (pacifica o conflittuale) tra gli attori e gli spettatori.
Ciò che caratterizza il recupero butleriano della teoria del riconoscimento è, fin dall’inizio, una particolare attenzione alla possibilità che il soggetto ha di intervenire sulle norme stesse che rendono possibile il riconoscimento e quindi la sua stessa esistenza ex-statica. In Butler la dipendenza del soggettivo dal sociale non implica la passività del soggetto rispetto alla normatività della società di cui fa parte, ma al contrario comporta la possibilità, per il soggetto, di intervenire sulle stesse norme che hanno permesso il suo emergere da una rete di relazioni. Questo vale tanto per la possibilità di “dislocare” le norme dell’identità sessuale in un mondo sociale dominato dall’eterosessualità obbligatoria, quanto per la facoltà di scegliere una condotta non-violenta in una società politica in cui le relazioni internazionali sono dominate da logiche di guerra.
In The Psychic Life of Power (1997) Butler definisce il soggetto come un’«escrescenza della logica»[29]: come colui/colei che è in grado di superare i propri limiti, di intervenire sulle proprie matrici trascendendo il principio di non-contraddizione. In questo libro, che si apre appunto con un’analisi della figura hegeliana della signoria-servitù, Butler sistematizza il suo tentativo di coniugare la genealogia del potere foucaultiana con l’interpretazione psicoanalitica della genesi della soggettività. Qui Butler ripete non solo che il soggetto emerge dalla relazione con l’altro, ma anche che il soggetto è plasmato dal potere dell’altro. Il soggetto riconosciuto è quindi sempre anche soggetto assoggettato, ma questo non lo rende incapace di agire. Tra soggetto e potere esiste un rapporto dialettico: il soggetto non è sovrano sul potere che esercita, perché è a sua volta determinato da quel potere. Però il soggetto non è totalmente determinato dal potere che subisce, perchè è libero. Come insegna Foucault, infatti, non si dà libertà senza potere, né si dà potere senza libertà. E quindi neppure si dà riconoscimento senza potere, perchè in una data società il riconoscimento è reso possibile da norme sociali che preesistono al soggetto.
Per Butler, quindi, neppure rispetto alle norme del proprio riconoscimento il soggetto è condannato alla passività: il soggetto può infatti intervenire su tali norme sfidando perfino le regole della logica. Senza questa possibilità di agire retroattivamente, a livello psichico, sul proprio passato, la psicoanalisi non avrebbe, del resto, ragion d’essere. Butler torna sulla psicoanalisi in Giving an Account of Oneself confrontandosi con autori come Donald W. Winnicott, Jean Laplanche, Christopher Bollas[30] che più di altri hanno insistito sul ruolo del transfert e del controtransfert nella pratica clinica. E ancora torna sulla psicoanalisi in Undoing Gender, confrontandosi con Jessica Benjamin[31], autrice che opera una rilettura della psicoanalisi alla luce della teoria hegeliana del riconoscimento, a cui Buter attribuisce i meriti di aver tentato di elaborare «un tipo di psicoanalisi non-eterosessista»[32] e di «aver dato avvio alla più importante discussione su genere e sessualità oggi a nostra disposizione, all’incrocio tra filosofia e psicoanalisi»[33]. La psicoanalisi, riletta attraverso questi autori, appare all’ultima Butler come quella tecnologia del sé che insiste non solo sulla natura relazionale dell’ego e sulle valenze trasformative della narrazione, ma anche sulla mancanza di autotrasparenza del soggetto. Nella pratica psicoanalitica narrare non significa, infatti, svelare la verità del proprio sé, ma significa edificare performativamente la propria identità in virtù del riconoscimento dell’analista con cui si è istituito un legame transferale. Ogni essere umano viene al mondo senza averlo scelto, e non può quindi rendere conto della propria origine. Tantomeno può rendere conto del momento in cui è emerso come soggetto cosciente dalle relazioni primarie con chi si è preso cura di lui, o di lei, appena nato/a. Questa opacità del soggetto a se stesso[34], questa sua incapacità di dare conto totalmente di sé, potrebbe apparire come lo scacco della responsabilità (se non ho scelto di essere quello che sono, potrei pensare di non essere pienamente responsabile delle mie azioni), ma per Butler è al contrario la condizione di possibilità per il cambiamento. Come insegna Lévinas, infatti, la responsabilità non è relativa a un atto compiuto, ma deriva dall’essere «soggetti all’appello inatteso dell’altro»[35]: quindi, paradossalmente, in presenza di un altro io divento responsabile addirittura di quel passato di cui non so dare conto. In presenza di un altro io divento responsabile non solo e non tanto di ciò che nel passato ho fatto, quanto di ciò che nel passato ho subito. Proprio perché sono stato forgiato da relazioni di cui non sono padrone, che hanno strutturato la mia personalità già da prima che io fossi pienamente soggetto, ho la possibilità di ritematizzare queste relazioni, di rielaborarle emotivamente e di divenire un soggetto diverso. Ma questa ritematizzazione e questa trasformazione sono possibili soltanto in una relazione transferale, con l’analista o comunque con un altro che, con la sua presenza benevola, si faccia pubblico testimone di cambiamenti che non potrei fare in solitudine. Solo all’interno di nuove relazioni di riconoscimento posso infatti ridislocare le mie matrici psicologiche, ad esempio assumendo la responsabilità della violenza che altri hanno compiuto su di me scegliendo di non riprodurla a mia volta su altri. Queste riflessioni conducono ad esempio Butler, cittadina ebrea americana, a sostenere che sarebbe stato possibile rispondere alla tragedia dell’11 settembre 2001 non con l’odio reattivo verso quelli che appaiono come i nemici dell’Occidente, non con uno sfoggio della presunta potenza degli USA, ma elaborando attivamente il lutto della vulnerabilità statunitense, e interrogando se stessi e gli altri sulle motivazioni che possono aver condotto i propri “nemici” a un gesto tanto terribile.
- Paradossi e aporie di una teoria foucaultiana del riconoscimento. Anche quando utilizza un approccio psicoanalitico per indagare la struttura del soggetto o per riflettere sull’attualità, quindi, Butler si richiama a una psicoanalisi che assomiglia molto a una teoria del riconoscimento. Com’è noto, prima della Fenomenologia dello spirito, negli anni del suo insegnamento a Jena, Hegel elaborò la teoria del riconoscimento a partire dalla celebrazione dell’amore inteso come eterosessualità riproduttiva[36], e in seguito, nei Lineamenti di filosofia del diritto, difese il diritto di ogni stato sovrano di muovere guerra agli altri stati. Eppure proprio Hegel ha fornito l’impalcatura teorica per mezzo della quale la più nota filosofa queercontemporanea ha edificato tanto il suo pensiero sul genere quanto la sua etica pacifista. Non so se si tratti di potenza della dialettica o piuttosto di ironia della sorte… So, invece, che all’uso che Butler fa della teoria del riconoscimento è possibile muovere un’obiezione.
A mio avviso Butler, anche nei suoi ultimi testi, resta legata all’eredità di Foucault, e quindi a un’idea di filosofia come pratica di pensiero al tempo stesso descrittiva e decostruttiva che non le consente di dichiarare fino in fondo lo statuto normativo della sua teoria del riconoscimento[37]. Da un lato Butler sembra volersi limitare a narrare una presunta genesi della soggettività attraverso un sincretismo di metodo genealogico (Foucault), psicoanalisi (Lacan, Winnicott ecc.) e teoria del riconoscimento (Hegel), ma da un altro lato attraverso la descrizione della vulnerabilità umana propone un’etica pacifista radicale. Butler mi sembra, quindi, operare un salto logico dal piano descrittivo al piano normativo: come può il fatto della fragilità dell’essere umano, della sua esposizione alla violenza dell’altro, fondare il valore dell’etica della responsabilità e della non-violenza? Dalla consapevolezza della vulnerabilità mia e dell’altro potrei anche trarre l’indicazione che, qualora, attraverso un oculato calcolo di forze, io possa prevedere di farla franca, mi converrà esercitare impunemente violenza sull’altro, e trarre da questa violenza un riconoscimento della mia potenza. Non potrebbe essere considerata anche questa un’azione responsabile, che risponde cioè alla presenza dell’altro? Come Butler sa bene, in senso descrittivo il misconoscimento è una possibilità iscritta in ogni relazione di riconoscimento. In una relazione di riconoscimento-misconoscimento che cosa dovrebbe allora convincermi che l’etica della non-violenza è una risorsa di senso più ricca dell’esercizio della violenza? Una risposta potrebbe essere depositata in un sentimento di gratitudine derivabile dal fatto stesso di essere in vita: costitutivamente esposto alla violenza dell’altro, il neonato è diventato adulto perché qualcuno se ne è preso cura, perché qualcuno ha permesso l’emergere della sua soggettività. Ma perché un bambino diventato adulto solo per il fatto di essere stato (sufficientemente) curato ed amato dovrebbe prendersi cura degli altri ed essere capace di amore? Perché dovrebbe agire seguendo un ideale di gratitudine? Non potrebbe invece sviluppare una personalità egoista, viziata e prepotente?
È come se Butler sostenesse che ogni essere umano dipende dal riconoscimento dell’altro ed è vulnerabile al misconoscimento dell’altro (constatatzione di un fatto), e che quindi ogni essere umano deve rispondere alla propria condizione facendosi carico della vulnerabilità propria e altrui, scegliendo di riconoscere l’altro piuttosto che misconoscerlo (prescrizione di una norma). Ma Butler non indica sotto quale condizione normativa dal fatto della vulnerabilità dell’umano sia possibile far discendere il dovere del riconoscimento: Butler non rivela il principio normativo non negoziabile implicito nella sua etica non-violenta (Lévinas, invece, lo dichiara apertamente: per lui si tratta del comandamento “Non uccidere!” pronunciato dall’Altro in senso assoluto, cioè da Dio[38]). L’argomentazione di Butler manca, insomma, della premessa maggiore: la sua validità dipende da una condizione normativa che la filosofa non esplicita, e che forse avrebbe potuto esplicitare se si fosse soffermata maggiormente sulle riflessioni di Adorno sull’idea di umanità. Dalla vulnerabilità dell’umano discende il valore del riconoscimento se e solo se al sentimento di appartenenza all’umano si associa il dovere morale della giustizia. L’aporia di Bulter dovrebbe pertanto essere corretta come segue: se e solo se un essere umano vuole far salvo il senso di giustizia implicito nel suo sentimento di appartenenza al genere umano, allora dal fatto della dipendenza e vulnerabilità che caratterizzano la condizione umana ella/egli trarrà la conseguenza normativa del dovere del riconoscimento. Per poter completare la sua argomentazione etica, Butler dovrebbe assumere uno stile argomentativo più “analitico” e al tempo stesso dovrebbe addentrarsi in una riflessione ontologica, “meta-storica” e “meta-culturale” (come lo statuto del simbolico in Lacan), sulla soggettività, che investa il problema fondamentale (fattuale e normativo assieme) del rapporto tra umanità e giustizia. Ma il suo modo di filosofare, che resta fedele al metodo della genealogia foucaultiana e legato alla filosofia della decostruzione, per il momento sembra averle impedito l’accesso a queste possibilità del pensiero.
* Questo articolo è una rielaborazione del mio saggio La teoria del riconoscimento di Judith Butler: dalla parodia drag all’etica della non-violenza, in Marcucci N. e Pinzolo L. (a cura di) Strategie della relazione. Riconoscimento, transindividuale, alterità, Roma, Meltemi, 2010.
[1] Butler è nata a Cleveland, Ohio, nel 1956, da una famiglia ebraica. Attualmente è Maxine Elliot Professor presso l’Università della California (Berkeley) dove insegna Retorica, Letteratura Comparata e Women’s Studies. [2] Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, London-New York, Routledge, 1990 e 1999²; ed. it. Scambi di genere: Identità, sesso e desiderio, Firenze, Sansoni, 2004. [3] La riflessione di Butler sul femminismo si alimenta soprattutto del confronto con autrici quali Simone De Beauvoir, Luce Irigaray, Monique Wittig e Julia Kristeva. [4] Di centrale importanza nella riflessione di Butler sul genere è il confronto critico con la conferenza di Lacan del 1958 Die Bedeutung des Phallus (ed. it. La significazione del fallo, in Scritti, Torino, Einaudi, 1974 e 2002². [5] In Gender Trouble di Foucault Butler utilizza soprattutto: La volonté de savoir, Paris, Gallimard, 1976; ed. it. La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978; e l’introduzione all’edizione inglese di Herculine Barbin, Being the Recently Discovered Memoirs of a Nineteenth-Century Hermafrodite, New York, Colophin, 1980; ed. it. Il vero sesso, «Aperture. Punti di vista a tema», 3, 1997. [6] Per un approfondimento del complesso rapporto tra Butler e la psicoanalisi mi permetto di rimandare al mio articolo Vulnerability of the Subject, Opacity of Desire: Judith Butler Dislocating Psychoanalysis, in «Journal of European Psychoanalysis», n° 29, 2009. [7] Rich A., Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence, «Signs», 5, 1980; ed. it. Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica, «Nuova DWF», 23-24, 1985. [8] “Drag queen” è un termine inglese che designa attori e cantanti che si esibiscono in abiti femminili sfarzosi e di cattivo gusto, mettendo in scena una femminilità esagerata nelle movenze, nelle acconciature e nel trucco e al tempo stesso non nascondendo del tutto il proprio corpo maschile sotto gli abiti di scena. [9] Gender cit., p. 193. [10] Gender Trouble è considerato il manifesto delle queer theories, ma in realtà il termine “queer”, a cui Butler ricorre spesso in Bodies that Matter e in Undoing gender, non vi compare ancora. L’aggettivo inglese «queer», rivolto agli uomini omosessuali come epiteto dispregiativo, deriva dal tedesco «quer» (trasversale, diagonale, obliquo) ed è traducibile in italiano con «strano», «bizzarro» anche se per il suo uso semantico equivale a «checca» o «frocio». È stato utilizzato per la prima volta per designare le teorie decostruzioniste dell’identità sessuale, come quelle di Foucault o Butler, da Teresa de Lauretis in una conferenza tenuta all’Università di Santa Cruz (California) nel 1990 (Queer Theory: Lesbian and Gay Sexualities. An Introduction, «Differences», 3, 1991). Sul piano teorico, “queer” viene preferito a termini come “gay” o “lesbica” da chi contesta la naturalità e la fissità di queste identità, per evidenziare la comune genesi delle identità omosessuali, transessuali ed eterosessuali nei giochi di potere e di sapere del dispositivo moderno della sessualità. Nel movimento lesbico gay trans si autonominano “queer” i gruppi radicali che non si accontentano delle rivendicazioni di diritti civili espresse dalla maggior parte del movimento, e che, contestando l’immagine rassicurante delle minoranze sessuali come lobbies che chiedono la propria assimilazione alla società esistente, promuovono politiche antagoniste volte alla trasformazione della società. “Queer” non indica quindi propriamente un’identità, ed è anzi una categoria anti-identitaria, utilizzata per mettere in evidenzia come le etichette del binarismo sessuale siano troppo povere per esprimere la varietà e la complessità delle pratiche e dei desideri sessuali. [11] Bodies that Matter: On the Discursive Limits of Sex, London-New York, Routledge, 1993; ed. it. Corpi che contano: I limiti discorsivi del sesso, Milano, Feltrinelli, 1996. [12] The Psychic Life of Power: Theories in Subjection, Stanford, Stanford University Press, 1997; La vita psichica del potere: Teorie della soggettivazione e dell’assoggettamento, Roma, Meltemi, 2005. [13] Excitable Speech: A Politics of the Performative, London-New York, Routledge, 1997; trad. it. Parole che provocano: Per una politica del performativo, Raffaello Cortina, Milano, 2010. [14] Undoing Gender, London-New York, Routledge, 2004; ed. it. La disfatta del genere, Roma, Meltemi, 2006. [15] Precarious Life: The Powers of Mourning and Violence, London, Verso, 2004; ed. it. Vite precarie: Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Roma, Meltemi, 2004. [16] Frames of War, London-New York, Verso, 2010. [17] Precarious Life cit., ed. it. p. 178. [18] Di Lévinas Butler prende in considerazione soprattutto: Totalité et Infini, La Haye, Nijoff, 1961, trad. it. Totalità e Infinito, Milano, Jaca Book, 1980;Étique et infini: Dialogues avec Philippe Nemo, Paris, Fafard, 1982, trad. it. Etica e infinito, Roma, Città Nuova, 1982; Alterité et trascendance, Saint Clément, Fata Morgana, 1995, trad. it. Alterità e trascendenza, Torino, Rosemberg & Sellier, 1996. L’interpretazione che Butler fornisce di Lévinas, come lei stessa riconosce, è fortemente debitrice verso la riflessione di Adriana Cavarero. Sul rapporto tra le due filosofe, su cui purtroppo in questa sede non ho spazio per dilungarmi, mi permetto di rimandare a Bernini L. e Guaraldo O. (a cura di) Differenza e relazione: L’ontologia dell’umano nel pensiero di Judith Butler e Adriana Cavarero, Verona, ombre corte, 2009. [19] Giving an Account of Oneself, New York, Fordham University Press, 2005; ed. it. Critica della violenza etica, Milano, Feltrinelli, 2006. [20] In particolare Butler si confronta con l’Adorno di Probleme der Moralphilosophie, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1963. Per Adorno ogni imposizione di norme universali che non tenga conto delle realtà particolare a cui si applicano (Butler fa l’esempio dell’“esportazione della democrazia” nel mondo arabo praticata dall’amministrazione Bush) è necessariamente violenta. [21] Precarious cit., ed. it., p. 166. [22] Ivi, p. 165. [23] Giving cit., ed. it., p. 137. Il riferimento è, questa volta, a Minima moralia: Reflexionen aus dem beschadigten Leben, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1951, ed. it. Minima moralia. Meditazioni dalla vita offesa, Torino, Einaudi, 1997. [24] «L’“io” che narra viene ricostituito ogni volta che è convocato nella narrazione stessa. E paradossalmente, questa convocazione è un atto performativo, non narrativo, anche se funziona come fulcro della narrazione stessa. In altre parole, io sto facendo qualcosa con quell’“io” – rielaborandolo e posizionandolo rispetto a un pubblico, a degli interlocutori reali o fittizi.» (Giving cit., ed. it., p. 92). [25] Subjects of Desire: Hegelian Reflections in Twentieth-Century France, New York, Columbia University Press, 1999² (prima ed. 1987); trad. it.Soggetti di desiderio, Roma-Bari, Laterza 2009. [26] I debiti di Lacan verso Hegel e Kojève emergono ad esempio nella comunicazione che Lacan tenne al XVI Congresso internazionale di psicoanalisi di Zurigo del 1949: ed. it. Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’«io», in Scritti cit., vol. I, prima ed. in «Revue française de psychanalyse» 3, 1988, poi in Écrits cit. A proposito di questi debiti si veda anche Recalcati M., Il parricidio lacaniano di Hegel, in Biagi-Chai F. e Recalcati M. (a cura di), Lacan e il rovescio della filosofia: da Platone a Deleuze, Milano, Franco Angeli, 2006. Nello stesso volume si veda anche: Gueguen P.-G., Il dialogo di Lacan e Foucault. In Subjects of Desire, a Lacan è dedicato un paragrafo del cap. 4: Lacan: The Opacity of Desire. Qui Butler analizza come Lacan abbia trasposto alcuni temi della Fenomenologia hegeliana in una cornice psicoanalitica strutturalista, e sottolinea come, compiendo questa operazione, abbia messo ulteriormente in evidenza l’irrazionalità della coscienza umana e la sua subordinazione a un desiderio inconscio che essa non può dominare. [27] Kojève A., Introduction à la lecture de Hegel, Paris, Gallimard, 1947, ed. it. Introduzione alla lettura di Hegel, Milano, Adelphi, 1996. Si tratta delle lezioni tenute da Kojève all’École Pratique des Hautes Études negli anni 1933-1939. [28] Subjects cit., p. 49, traduzione mia. [29] «Se il soggetto non è né pienamente determinato dal potere, né pienamente capace di determinare il potere (ma risponde significativamente e parzialmente a entrambi gli stati), il soggetto supera la logica della non-contraddizione, è un’escrescenza della logica, per così dire.» (The Psychic cit.,p. 22). Secondo Butler, aver evidenziato questa eccedenza del soggetto rispetto al potere è il grande merito di Foucault, e ciò che segna la sua “superiorità” teorica su Lacan: «Foucault […] propone la resistenza come effetto del potere stesso cui appare opporsi. Questa insistenza sulla duplice possibilità di essere sia costituiti dalla legge che un effetto della resistenza alla legge segna l’allontanamento dalla struttura lacaniana, in quanto laddove Lacan restringe la nozione di potere sociale al dominio del simbolico e delega la resistenza all’immaginario, Foucault riformula il simbolico quale relazioni di potere e intende la resistenza come uno degli effetti del potere. La concezione di Foucault dà vita a uno spostamento dal discorso sulla legge, inteso come giuridico (e che presuppone un soggetto subordinato al potere), a un discorso sul potere quale campo di relazioni generative, regolatrici e oppositive. Il simbolico, per Foucault, produce la possibilità delle sue stesse sovversioni e queste sovversioni sono effetti imprevisti delle interpellazioni simboliche.» (Ivi, p. 93). [30] Di questi autori Butler prende in esame: Winnicott D.W., Holding an Interpretation: Fragment of an Analysis, London, Hogart Press, 1986, ed. it.Sostenere e interpretare: Frammenti di un’analisi, Roma, Magi, 2007; Laplanche J., Le primat de l’autre in psychanalyse, Paris, Flammarion, 1997, ed. it. Il primato dell’altro in psicoanalisi, Bari-Roma, La Biblioteca, 2000; Id. Entre séduction et inspiration: l’homme, Paris, PUF, 1999, ed. it. Tra seduzione e ispirazione: l’uomo, Bari-Roma, La Biblioteca, 2002; Bollas Ch., The Shadow of the Object: Psychoanalysis of the Unthought Known, New York, Columbia University Press, 1987, ed. it. L’ombra dell’oggetto: Psicoanalisi del conosciuto non pensato, Roma, Borla, 2001. [31] Di Benjamin Butler prende in esame: Bonds of Love, New York, Random House, 1988, ed. it. Legami d’amore: I rapporti di potere nelle relazioni amorose, Rosenberg & Sellier, Torino, 1991; Like Subjects, Love Objects: Essays on Recognition and Sexual Difference, New Haven, Yale University press, 1995, ed. it. Soggetti d’amore: Genere, identificazione, sviluppo erotico, Milano, Raffaello Cortina, 1996; The Shadow of the Other: Intersubjectivity and Gender in Psychoanalysis, New York, Routledge, 1998, ed. it. L’ombra dell’altro: Intersoggettività e genere in psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri, 2006. [32] Undoing cit., ed. it., p. 168. [33] Ivi, p. 183. [34] «Entriamo in un ambiente comunicativo come neonati bambini che vengono sollecitati e interpellati, e che a loro volta apprendono alcuni modi di interpellare e sollecitare. Il procedere per errori e approssimazioni di questa forma relazionale emerge allora come un’opacità che si annida in ogni tentativo di dar conto di sé.» (Giving cit., ed. it., p. 88). «Il mio sforzo di sintetizzarmi fallisce, e fallisce necessariamente, dal momento che l’“io” che viene introdotto come voce narrante all’inizio della mia storia non può rendere conto di come è divenuto un “io” in grado di narrare se stesso o questa storia in particolare.» (Ivi, p. 91). [35] «Lévinas separa l’assunzione di responsabilità dalla possibilità di agire, e sostiene che la responsabilità emerge sempre come conseguenza dell’essere soggetti all’appello inatteso dell’altro. È questo in parte ciò che intende dire quando, destando scandalo, afferma che la persecuzione crea una responsabilità nel perseguitato.» (Ivi, pp. 117). [36] In particolare nel System der Sittlichkeit, testo redatto tra il 1802 e il 1803, che costituiva la prima parte di un corso sul diritto naturale. [37] «Una buona pensatrice illuminista scuoterebbe semplicemente la testa e direbbe che nel momento in cui ci si oppone alla normalizzazione lo si fa in nome di un’altra norma. Ma quella pensatrice dovrebbe anche prendere in considerazione la relazione tra normalizzazione e normatività. […] La norma produce il legame solo attraverso una strategia di esclusione. Occorre riflettere su questo problema, sulla natura duplice della norma.» (Undoingcit., ed. it., p. 239). [38] Un’interessante riflessione su questo comandamento, che muove proprio dall’interpretazione lévinasiana, è sviluppata nel saggio di Adriana Cavarero Archeologia dell’omicidio, contenuto in Cavarero A. e Scola A., Non uccidere, Bologna, il Mulino, 2011.