Liberare il lavoro, liberarsi dal lavoro: significato della doppia presenza come autosfruttamento

di Adriana Nannicini

Lavoro per il mercato e lavoro di cura e/o domestico, lavoro fuori casa e dentro casa, produzione e riproduzione..diciture diverse, soltanto diciture e quanto diverse? Nella storia densa di riflessioni e di approcci teorici su questi temi da parte delle donne del nostro paese, provenienti dalle varie aree dei vari femminismi, dalle donne del movimento, dalle accademiche quanto inevitabilmente dalle donne del sindacato, su questa connessione e polarizzazione siamo intervenute, abbiamo prodotto analisi, raccolto dati, espresso interpretazioni e letture. Non propongo dunque una sintesi, per quanto rivisitata, della ricchezza e della policromia delle elaborazioni compiute, vorrei piuttosto  tentare di collegare la centralità, acquisita, del tema con le esigenze, le urgenze e con alcune indicazioni situate nel contesto dell’oggi: quello di una crisi economica tra le più gravi e destabilizzanti ( crisi che apre a quella alimentare ) e ancor più grave nel nostro paese ( per ragioni che non vengono qui ricordate) e quello di alcuni esiti già visibili della manifestazione delle donne del 13 febbraio.

Quali dati numerici mette in evidenza la crisi, che stentano a diventare informazione per un programma sia del governo che, ahimè, dell’opposizione: li ricorda Del Boca, come già prima di lei hanno fatto Saraceno, Picchio,Piazza (solo per citare le più tenaci).

”Nonostante il fatto che siamo il 51 per cento della popolazione, che siamo più istruite dei maschi e dimostriamo di essere più indipendenti dalle nostre famiglie d’origine, solo il 47 per cento di noi ha attualmente un’occupazione, contro il 70 per cento dei maschi. (…) secondo i calcoli di Claudia Olivetti e Barbara Petrongolo il differenziale salariale tra uomini e donne è circa al 25-30 per cento. Inoltre, tra le donne l’incidenza del precariato è diventata più del doppio di quello dei maschi, e il tasso di disoccupazione femminile è diminuito, segnale di scoraggiamento e rinuncia, mentre si esce di più dal mercato del lavoro alla nascita dei figli e spesso non si ritorna.”

Umiliate, sintetizza Del Boca,

“Lo spreco di capitale culturale femminile  è uno dei connotati più deplorevoli del funzionamento del nostro mercato del lavoro”.(Bellavitis e Piccone Stella 2010)
 La crisi attuale ha delle peculiarità per le donne? C’è un impatto di genere, con quali conseguenze. Hanno conseguenze sulle donne le misure che gli Stati europei hanno preso ( chi più che niente o quasi) per fronteggiare, per arginare la crisi? Una su tutte emerge anche dagli studi di Paola Villa: tagliare i costi del welfare ha effetti nefasti sull’occupazione femminile ( professioni di impiego) e toglie servizi, appesantisce la presenza delle donne a casa, nel lavoro di cura.

Sono già profondamente mutati quei due poli del lavoro femminile, e la figura di doppia presenza  era già esperienza antica nelle tante forme dei secoli precedenti, oggi prevale l’ immagine di equilibrista e di funambula,  di acrobata,  spesso lusingata nel possedere talenti multitasking, mentre misura ogni volta l’assenza e la incompiutezza nel contesto, nella comunicazione appena lasciato. Mi pare che non basti più mettere in evidenza una opposizione che riconsegni un uguale segno di sfruttamento, di disagio, mi pare che sia necessario vedere quanto il quadro del lavoro delle donne sia percorso da linee di frammentazione, che ne spezzettano la soggettività, creano distanze, mutismi, incapacità di ascolto, di agire in dialogo. La soggettività di un noi, lavoratrici, si frantuma in una miriade di soggetti che risultano definiti da condizioni di lavoro e di vita diverse, opposte, in contraddizione e in contrasto, condizioni che limitano spazi sempre più segmentati, delimitati, con il rischio , per molte già ben in atto, di strutturare fisionomie sempre più individualizzate, separate non solo perché eterodirette, ma perché sembra  essere già nata un’afasia, perduta una grammatica del vedersi nell’altra , quella diversa e “altra”. La costruzione di reti di solidarietà sembra essere a rischio, molto difficile da “sentire” come una rete che sostiene, che supporta, consiglia e aiuta. Da doppia presenza a frammentazione, quali effetti si porta con dietro il cambiamento?come leggere la relazione tra produzione e riproduzione, quale dialogo e/o quale contrasto tra quel tempo e l’altro, quello e l’altro spazio, soprattutto quando sono nella stessa casa, quando richiedono di tollerare nuove ambiguità, di inventare nuove modalità, quando richiede di sostenere “l’ambiguità contenuta nelle forme di  un’attività tanto conveniente” come quella che è possibile e necessario svolgere a all’interno della propria casa (Burchi 2010). Già si è espansa la dimensione di autosfruttamento, tra coloro che lavorano senza poter/voler porre dei confini di tempo nella giornata, l’ambiguità illumina prassi s strategie intrecciate di elementi di precarietà e di innovazione, il mondo socio-professionale del lavoro atipico detto della conoscenza fa affidamento, a modalità informali nelle diverse dimensioni (organizzativa, nelle relazioni di lavoro, nella formazione) che risultano indissolubilmente ambivalente.

“Gli elementi di forza dell’informalità si presentano congiuntamente agli aspetti critici. Con tale definizione si fa riferimento alla messa in produzione delle attitudini relazionali, affettive, di interazione flessibile e di cura, appartenenti all’ambito definito di riproduzione della forza-lavoro e storicamente determinate come femminili.e la relazionalità che investono le relazioni di lavoro nell’ambito della conoscenza anziché essere solo delle risorse, assumono valenze chiaramente contradditorie. La grande ambivalenza di queste reti informali, amicali pseudo comunitarie, (…) genera precarietà e autosfruttamento”.(Armano 2011)

Dell’ambiguità presente in varie forme di organizzazione del lavoro atipico e nelle forme di produzione di contenuti di alcuni segmenti professionali che più fanno riferimento all’era della conoscenza, così come della nostra soggettività frammentata abbiamo scritto e parlato più e più volte, eppure ogni occasione sembra richiedere di ripresentare l’elenco delle nostre presenze , cercando di rintracciare cosa accomuni le condizioni di lavoro e di vita di una donna knowledge worker, magari giovane e di una città del nord, con quelle di un’altra, che lavora in una impresa di pulizie, magari solo 3 ore al giorno, sempre nella stessa città, o con quelle di un ‘insegnante precaria a 40anni in un paese del meridione, con quella di una donna che nella casa accudisce i membri fragili di una famiglia per cui il welfare non offre più sostegni, dicendo che non dispone di risorse. Non penso che riproporre un elenco come fosse una lista sia necessario, ma avverto e riconosco in me come in altre, un esigenza di “nominare” nel senso più alto del termine: per riconoscere l’esistenza della pluralità, per esprimere il sentimento che la sostiene: un estremo bisogno di riconoscimento. Delle tante forme , delle troppe forme che ha assunto il nostro essere lavoratrici e di tutte le conseguenze gli impatti che la frammentazione ha determinato.

Non ultima la diversità di tutele e garanzie tra garantite e atipiche in quanto a paga, salute, ferie, pensione. Che certo è condivisa nella forma astratta con gli uomini, ma nella realtà delle vite quotidiane e nelle strategie sono intrecciate con le scelte. La precarietà connessa alla debolezza delle tutele formali previste dai contratti atipici si riverbera sulla scelte di vita: la maternità, l’allevamento dei bambini piccoli, l’autonomia economica dalla famiglia di origine con un orizzonte di durata. Desiderio di riconoscimento, bisogno di visibilità, di presenza in un tessuto di relazioni che sia prossimo e che sia pubblico, di piena cittadinanza. Come riconoscerci tra noi? Tra precarie e garantite? Tra giovani e adulte? Tra autonome e dipendenti? Come vederci le u ne “ altre “ per le atre? Come esigere riconoscimento dalla società italiana di oggi? E su questo, e sulle conseguenze di questo sono certa che la manifestazione del 13-02 ha già contribuito.
Nella crisi e nella precedente trasformazione della organizzazione del lavoro, ispirata alla logica postfordista,  la produzione e il reddito si sono separati,  chi lavora non ha più la certezza di essere pagato, né quella di trovare le forme per “esigere” ( paga, salute, ferie e pensione) se le forme di garanzia e di tutele sociali ( CIG, sussidio disoccupazione) sono parziali, e la proposta di reddito di cittadinanza ovviamente richiede di essere presentata, discussa, commentata, quello che mi preme sottolineare è una domanda: e la produzione?

Quella relazione con il lavorare, come produrre, relazione con il creare, che sia lavoro immateriale intellettuale di conoscenza, o invece un lavoro artigiano, manuale, o un lavoro di cura ( produzione di relazioni, di affetti, di sopravvivenza dell’altro) tutti hanno a che fare con il desiderio di svolgere bene un compito per il piacere che questo comporta, una relazione con la creazione di qualcosa fuori di sé e con temporaneamente ha a che fare con al creazione della propria identità, della socializzazione, con l’idea di trascendere la propria singola esistenza e contribuire alla storia del proprio paese , se non dell’umanità. Questa relazione con un piacere del produrre che può essere “ostacolato dalla pressione, dalla competitività della frustrazione” ( Sennett 2008). Questo piacere, fatto di capacità, di competenza, di saperi e di sapienza, all’essere soggetti di produzione non si può rinunciare, neanche nell’era della crisi.

(Su la testa, 15 febbraio 2011)

Redazione

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