LIBERE DALLA VIOLENZA ECONOMICA, DALLO SFRUTTAMENTO E DALLA PRECARIETÁ. Strumenti economici per autodeterminarci

LIBERE DALLA VIOLENZA ECONOMICA, DALLO SFRUTTAMENTO E DALLA PRECARIETÁ. Strumenti economici per autodeterminarci

La violenza di genere nella crisi
I temi economici legati al lavoro e al welfare sono centrali per contrastare la violenza nel suo carattere sistemico. Esiste infatti un nesso stretto tra la ristrutturazione capitalistica e neoliberale in atto e la violenza di genere che, in questo ambito, viene perpetuata attraverso i dispositivi di nuova segmentazione e frammentazione del lavoro, di esclusione, disoccupazione forzata, sfruttamento e impoverimento, attraverso la crescente dismissione del welfare in nome del risanamento del debito. Questi fenomeni riguardano tutt@, ma si abbattono con maggiore virulenza sulle donne, là dove, nella crisi, riemerge con rinnovata forza un preciso modello di divisione sessuale del lavoro: quello patriarcale, che assegna “naturalmente” alle donne le attività riproduttive e di cura, costringendole nuovamente tra le mura domestiche o addossando sulle loro spalle il doppio carico di lavoro, dentro e fuori casa, o segregandole esclusivamente in alcuni settori lavorativi. Combattere la violenza a partire dalla specificità di questi temi vuol dire porsi il problema in termini di prevenzione, individuare ex ante strumenti e misure capaci di garantire materialmente l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne, sottraendole in forma preliminare alla potenziale spirale di violenza data dalla dipendenza economica, dallo sfruttamento, dalla precarietà e dall’assenza di welfare e servizi.

Il mondo del lavoro contemporaneo
La cosiddetta femminilizzazione del lavoro richiama oggi non solo all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, ma a un processo più articolato e complesso: da un lato l’estensione a tutta la forza lavoro dei tratti che hanno storicamente caratterizzato il lavoro femminile, quindi l’obbligo a una piena disponibilità del tempo, l’intermittenza e la gratuità lavorativa; dall’altro una modalità specifica di sfruttamento che mette al lavoro le soggettività stesse, gli stili e le forme di vita, le capacità relazionali e di cura.
È il femminismo, del resto, ad aver mostrato come, nel capitalismo, la sfera della riproduzione sociale¹ e della cura sia divenuta immediatamente produttiva. Ma, se il lavoro produttivo viene quantificato e scambiato con un salario (seppur oggi sempre più basso), quello riproduttivo, che da tempo ormai eccede le sole attività domestiche qualificando la produzione stessa, ancora non viene conteggiato economicamente né socialmente riconosciuto. Quando è conteggiato, o formalmente riconosciuto, è sottopagato e sfruttato oltre misura.
In altri termini, la ricchezza che quotidianamente – in molte forme e su più livelli – produciamo ci viene sottratta e non è in alcun modo ridistribuita. A ciò si aggiungono i dati sulla disparità salariale, sulla disoccupazione femminile, sulle molestie e sulle violenze nei luoghi di lavoro: in Italia il differenziale salariale di genere complessivo è pari al 43,7% (Eurostat 2014), la disoccupazione femminile al 12,5% e il tasso di inattività al 44% (Istat 2017), 1 milione e 403 mila sono le donne fra i 15 e i 65 anni che hanno subito molestie e ricatti sessuali nell’arco della loro vita lavorativa (Istat 2016). Ricattabilità aumentata a dismisura con le ultime riforme del mercato del lavoro, il Jobs Act sopra tutte: la drastica erosione di diritti e tutele contrattuali, infatti, espone, in primo luogo le donne, e tutt@ coloro che sono maggiormente vulnerabili, a ogni tipo di ricatto sui posti di lavoro. Discorso che vale una volta di più per chi non gode di riconoscimento normativo e lavora in condizioni di invisibilità formale, e per cui chiediamo immediate garanzie e tutele. Inoltre, non è ancora pienamente riconosciuto l’impatto che tutto ciò – intensificazione dello sfruttamento, precarietà, doppio carico di lavoro produttivo e riproduttivo – ha sulla nostra salute (fisica, psicologica, sessuale e riproduttiva).
Pertanto pretendiamo:
• Un salario minimo europeo per contrastare i bassi salari, i meccanismi di gender pay gap (cioè la differenza di retribuzione tra uomini e donne), di dumping salariale (ossia l’abbassamento dei salari determinato dalle differenze territoriali e normative oltre che di genere) e di segregazione lavorativa delle donne e delle/dei migranti, connettendosi anche all’esperienza delle donne di altre parti del mondo, come le statunitensi che hanno fatto propria la parola d’ordine del salario minimo di 15 $;
• Un reddito che noi definiamo di autodeterminazione, incondizionato e universale, slegato dalla prestazione lavorativa, dalla cittadinanza e dalle condizioni di soggiorno. Un reddito che serva come garanzia di indipendenza economica, e dunque concreta forma di sostegno, per le donne che intraprendono percorsi di fuoriuscita da relazioni violente (intrafamiliari e lavorative); più in generale, come strumento, per tutte e tutt@, di prevenzione rispetto alla violenza di genere, di autonomia e liberazione dai ricatti dello sfruttamento, del lavoro purché sia, della precarietà, delle molestie. In tal senso si ritiene assolutamente inadeguato il Reddito di Inserimento (REI) appena varato dal Governo, perché lontano dai principi dell’universalismo, dell’individualità e dell’autodeterminazione: mera misura (peraltro irrisoria) di contrasto alla povertà, rivolto alla famiglia – come sappiamo primo luogo di origine della violenza – e non alla persona, condizionato a un percorso di “inclusione lavorativa”, spesso utile solo alle aziende e alle amministrazioni per sfruttare manodopera a basso costo, quando non a titolo gratuito.

Contro il welfare residuale e neoliberale
I tagli e la completa destrutturazione di forme universali di welfare, capaci di porre argine all’intermittenza lavorativa, alla disoccupazione, di garantire un reale sostegno alle donne che intraprendono percorsi di fuoriuscita dalla violenza, rendono l’attuale contesto storico, sociale ed economico ancora più problematico e inadeguato. In tal senso, radicale è il rifiuto del modello neoliberale di riorganizzazione del welfare, che vuole che siano le donne, spesso migranti, secondo meccanismi di segregazione lavorativa, a farsi carico di tutte quelle prestazioni che non vengono più erogate dal pubblico. Altrettanto netto è il rifiuto sia del welfare aziendale, in quanto forma privatizzata di welfare, spesso attuata al prezzo della riduzione dei salari, sia delle politiche tese a favorire la cosiddetta conciliazione dei tempi di lavoro con quelli di vita, nella misura in cui riaffermano, anziché contestare, la logica per cui alle donne spetterebbero, per definizione, le attività domestiche e di cura.
Pertanto pretendiamo:
• Un welfare universale, gratuito e accessibile a tutt@: non basato dunque sul modello familistico vigente, piuttosto capace di riconoscere garanzie e diritti sociali non solo alle donne, ma alle persone migranti, alle soggettività lesbiche, gay, trans, queer e intersex; adeguato alle forme, alle relazioni, ai bisogni e agli stili di vita contemporanei e capace di liberare dalla coazione al lavoro sfruttato e sottopagato. Servizi laici, gratuiti e non ingerenti rispetto alle scelte degli individui; così come riteniamo fondamentale anche il riconoscimento di esperienze autogestite e autonome di welfare, – come per esempio i centri antiviolenza non istituzionali e le consultorie, esperienze fondate sulle pratiche femministe delle donne e in grado di sovvertire le forme di riproduzione sociale che impongono e fissano le identità e i ruoli di genere. In questo ambito riteniamo misure imprescindibili: il ri-finanziamento e il potenziamento dei servizi pubblici per l’infanzia, nonché l’accesso universale agli stessi (la priorità data ai genitori lavoratori determina infatti troppo spesso situazioni di disoccupazione forzata per le madri precarie); il rafforzamento dei servizi e delle infrastrutture a sostegno delle donne disabili, la cui carenza aggrava peraltro l’esposizione di queste ultime alla violenza; politiche reali per la cura dei familiari, delle persone anziane, degli individui, che affrontano la questione del lavoro riproduttivo e di cura e dell’organizzazione dello stesso come un problema che riguarda la società tutta e non soltanto, e “naturalmente”, le donne; più complessivamente, la costruzione di nuove infrastrutture sociali, capaci di liberare i nostri tempi di vita invece di costringerci una volta di più tra le mura domestiche; la garanzia del diritto all’abitare, a maggior ragione che le condizioni di precarietà lavorativa rappresentano un forte ostacolo alla conquista di una situazione abitativa stabile e dignitosa per le donne e per le soggettività più vulnerabili;
• Politiche a sostegno della maternità e della genitorialità condivisa, dunque estensione incondizionata delle indennità (di maternità, di paternità e parentale) a tutte le tipologie contrattuali, non solo al lavoro subordinato e parasubordinato, e non solo in presenza di un contratto di lavoro.

Mutualismo e solidarietà
Al fine di rompere la frammentazione e l’isolamento che contraddistinguono il mondo del lavoro contemporaneo, riteniamo fondamentale riaffermare, tra le nostre pratiche femministe, l’importanza della costruzione di nuove reti solidali e di mutuo soccorso, riaffermare cioè, contro la barbarie, l’individualismo e la solitudine, la potenza dell’essere in comune, il sostegno, la sorellanza. Mutualismo e solidarietà contro le ritorsioni datoriali, contro i ricatti, le molestie, le discriminazioni e ogni forma di violenza dentro e fuori i posti di lavoro; reti di supporto tra le lotte, creazione di casse di resistenza per sostenere le stesse e le situazioni di difficoltà delle lavoratrici; spazi – sulla scia della storia dei movimenti femministi che hanno rivendicato, costruito e autogestito servizi delle donne per le donne espropriando al dominio maschile conoscenze e decisioni – dove sia possibile rimettere al centro i propri bisogni e desideri, l’ascolto e il mutuo aiuto, scambio e autoformazione sui diritti che abbiamo e quelli che vogliamo conquistare.

Lo sciopero femminista
Pensiamo sia di assoluta importanza dare continuità al processo avviato lo scorso 8 marzo 2017 con lo sciopero globale delle donne, al processo cioè di riappropriazione e risignificazione di questa pratica come pratica eminente di lotta da una prospettiva femminista: lo sciopero quindi come strumento al servizio di tutt@, e non monopolio delle sole strutture sindacali, capace di coinvolgere il lavoro produttivo e riproduttivo, di andare oltre il corporativismo delle categorie e dei confini nazionali, di unire le molteplici figure del mondo del lavoro e del non lavoro invece di frammentarle ulteriormente; dunque sciopero insieme vertenziale, sociale e politico, per rifiutare la violenza neoliberale dello sfruttamento e della precarietà, per sovvertire le gerarchie sessuali, le norme di genere, i ruoli sociali imposti – in tal senso lo abbiamo definito anche sciopero dei e dai generi.

Note:

1 Con riproduzione sociale intendiamo l’insieme delle attività che rigenerano la vita umana in una determinata formazione storico-sociale; attività strettamente correlate con il modo di produzione dominante. Il lavoro riproduttivo si riferisce tanto al lavoro necessario per la riproduzione umana (gravidanza, parto, allattamento) quanto alle attenzioni e alle cure necessarie per il sostenimento della vita e la sopravvivenza umana (alimentazione, cure fisiche e sanitarie, educazione, formazione, relazioni sociali, appoggio affettivo e psicologico, cura degli spazi e dei beni domestici).