Scuola e università come luoghi primari di contrasto alle violenze di genere
Riteniamo che la prevenzione e il contrasto alla violenza maschile contro le donne debbano passare attraverso un ripensamento strutturale del sistema educativo e formativo, perché la violenza sulle donne è un fenomeno sistemico che innerva la società nella sua interezza e interessa tutti i contesti educativi e formativi, dal nido all’università, fino alle scuole di alta formazione.
Da femministe, pratichiamo e rivendichiamo un approccio pedagogico radicale, fondato su princìpi anticlassisti, antirazzisti, antifascisti, non etero-normati e aconfessionali, su uno sguardo interdisciplinare e intersezionale, capace di fornire strumenti immediati di trasformazione della realtà. Una lente che ci consenta di guardare l’insieme delle differenze che compongono le soggettività, riconoscendone l’azione combinata che opera sulla vita delle persone. Per questo parliamo di educazione a una pluralità, potenzialmente infinita, di differenze.
Presupposto necessario dell’educazione alle differenze in ottica femminista è il superamento del binarismo di genere come categoria obbligata nella lettura e nell’interpretazione delle identità. Si tratta della griglia teorica più largamente condivisa a livello sociale che discerne i due sessi (maschile e femminile) in maniera fissa e dicotomica. Gli esseri umani si distinguerebbero, sulla base di un mero dato biologico, in due categorie differenti e complementari: ai maschi si lega l’attività, alle femmine la passività, ai maschi la ragione, alle femmine l’emozione, ai maschi la cultura, alle femmine la natura, e così via. Il binarismo di genere è direttamente legato all’eterosessualità e porta a considerare “anormali” e “innaturali” tutte le variazioni da questa classificazione. Al contrario, riteniamo necessaria un’educazione alle differenze che sappia parlare alle molteplici identità di genere e non costringa i destini affettivi e relazionali a seguire la norma costituita dei rapporti di coppia eterosessuali. Strumento cruciale di questo processo è il linguaggio: dobbiamo costruire una lingua non sessista che riconosca le differenze e non le silenzi nel maschile neutro e universale.
Così concepita, l’educazione alle differenze non può che avvalersi di metodi e pratiche femministi, e dunque cooperativi, orizzontali e partecipati da chi vive i contesti educativi, scolastici e universitari.
Ora, è evidente che tale prospettiva risulta essere nettamente in contrasto con il sistema educativo e formativo vigente. Riteniamo infatti che la Riforma del Sistema Nazionale di educazione e formazione, conosciuta come Buona Scuola (legge 107/15), abbia inferto un colpo mortale al nostro sistema scolastico: dietro i concetti chiave di innovazione, autonomia, inclusione e merito si cela in realtà una visione della scuola fortemente antidemocratica, che preclude la continuità lavorativa e didattica e rende impraticabile qualsiasi progetto pedagogico. La Riforma apre le porte delle scuole alla esternalizzazione e alla privatizzazione dei servizi attraverso diversi dispositivi che introducono pericolosamente le nozioni di profitto e di merito nel sistema di istruzione e formazione.
Dal punto di vista del personale docente inoltre, l’introduzione del dispositivo del merito ha l’effetto di produrre un impatto sui salari: in luogo degli scatti di anzianità sono stati infatti istituiti dei meccanismi selettivi di aumento salariale a esclusivo appannaggio di chi ne dovrebbe essere “meritevole”. Dal punto di vista delle e degli studenti, l’introduzione massiccia dei programmi obbligatori di alternanza scuola-lavoro si traduce in forme di lavoro minorile gratuito, che nulla hanno a che vedere con un progetto formativo, ma che di fatto vanno a sostituire il lavoro salariato.
Elemento centrale di una visione realmente trasformativa è l’introduzione dell’educazione alle differenze sin dalla primissima infanzia. Le linee guida del neo istituito segmento 0-6, in un contesto normativo di privatizzazioni e esternalizzazione non rispondono alle necessità di un servizio pubblico e di qualità. I nidi vanno considerati a tutti gli effetti parte integrante del sistema educativo nazionale e pertanto devono essere pubblici, gratuiti e accessibili a tutt@.Occorre invertire la tendenza indicata dalla Buona Scuola e iniziare a re-internalizzare le tante e i tanti che, in condizioni sempre più precarie vi lavorano.
Altrettanto problematiche sono le condizioni in cui versa l’università pubblica, istituzione sempre più “maschilizzata”, che svolge un ruolo fondamentale nelle dinamiche di ristrutturazione neoliberale della società. Le università, riorganizzate come entità finanziarie e gestite in nome di logiche di mercato, sono luoghi di estrazione diretta di capitale umano, il quale viene addestrato a competere in un mondo
del lavoro sempre più intermittente e privo di tutele. E così, anche il sapere da esse veicolato, risponde a logiche gerarchiche ed escludenti.
In risposta alla quasi totale assenza di dipartimenti di “Studi di genere” in Italia, rivendichiamo l’autonomia e il riconoscimento di quest’ambito di ricerca e la valorizzazione di luoghi di diffusione di culture e pratiche femministe all’università – sia sul piano curricolare con la creazione di corsi specifici, sia introducendo la prospettiva di genere nei corsi già esistenti – che sappiano riconoscere la centralità dei soggetti in formazione e che siano in grado di contaminare altri saperi e dipartimenti.
Vogliamo una scuola e un’università dove i processi di produzione e trasmissione dei saperi siano determinati da chi quotidianamente le vive, a partire dall’individuazione dei propri bisogni, desideri e necessità; dove si possa decidere di come gestire le risorse, creare reti mutualistiche territoriali assieme a consultori, Centri Antiviolenza (CAV), associazioni femministe di comprovata esperienza in ambito di prevenzione della violenza ed educazione alle differenze (i cui princìpi corrispondano a quelli prima esposti); dove si possa progettare in cooperazione metodi e pratiche didattiche e di ricerca.
Chi forma chi?
Perché la scuola e l’università possano realmente adempiere al duplice compito di prevenire e contrastare la violenza di genere riteniamo innanzitutto necessario che insegnanti, educatori ed educatrici lavorino sulla decostruzione degli stereotipi interiorizzati che, spesso inconsapevolmente, riportano nella relazione educativa. Questo faticoso lavoro può nascere solo dal confronto e dalla relazione tra colleghe e colleghi in sinergia con specialiste e specialisti che abbiano maturato competenze in merito, e ha senso solo se pensato come accompagnamento e supporto per tutto il tempo della vita lavorativa.
Per questo, riteniamo imprescindibile che la formazione in materia di prevenzione della violenza di genere, mediazione dei conflitti ed educazione alle differenze sia organizzata in percorsi organici, adeguatamente finanziati e presenti in maniera uniforme sul territorio nazionale. È altresì necessario che tali percorsi formativi siano fruibili anche dal personale precario e, soprattutto, che siano presenti nei corsi di abilitazione all’insegnamento. A tal proposito riteniamo che la formazione, obbligatoria e non retribuita, prevista dal Piano Nazionale Formazione Docenti, sia assolutamente inefficace poiché incentrata su temi rigidamente stabiliti dal Ministero, esternalizzando il servizio a Enti formatori accreditati. Il personale docente deve poter scegliere di quale formazione avvalersi e deve essere adeguatamente retribuito per il monte ore impiegato nei percorsi formativi.
Da femministe riteniamo che la formazione continua di docenti e discenti debba essere affiancata, sostenuta e supportata dalla pratica dell’autoformazione per individuare le necessità e i desideri formativi di studenti e docenti. Un’autoformazione che, partendo dalla condivisione dei saperi acquisiti e dalla socializzazione di esperienze pregresse, produca una rielaborazione consapevole delle conoscenze, indispensabile al processo di insegnamento-apprendimento.
È necessario dunque che, a partire dalle necessità individuate, siano i soggetti stessi (docenti e/o studenti) a fare rete con i servizi presenti sul territorio e che tali strutture vengano a loro volta finanziate adeguatamente per poter svolgere un’attività capillare ed efficace.
Costruiamo altri luoghi e strumenti didattici
Riteniamo sia fondamentale portare l’attenzione anche sulla questione degli spazi scolastici e degli strumenti didattici più diffusi, come ad esempio i libri di testo. Insufficienti e gerarchizzati i primi (cattedra e banchi disposti per la sola lezione frontale), inadeguati nella forma e nei contenuti i secondi, riteniamo che una didattica che metta al centro la pratica della relazione debba usufruire di luoghi e mezzi tutti da reinventare. Fondamentale è perciò la revisione dei manuali e del materiale didattico adottati nelle scuole di ogni ordine e grado e nei corsi universitari, attualmente divulgatori di una visione stereotipata e sessista dei generi e dei rapporti di potere tra essi. Allo stesso modo è necessario mettere in discussione i cosiddetti canoni dell’italianità, a partire dalla presunzione di “bianchezza”, rileggendo la storia coloniale italiana ed europea e il nesso tra razzializzazione, sessismo e sfruttamento, sottolineando il ruolo della violenza sui corpi delle donne nei processi storici di colonizzazione.
Contro gli stereotipi di genere nei percorsi formativi
Dalla riflessione sul ruolo delle lavoratrici nei contesti educativi e formativi emerge come le ultime riforme della scuola abbiano usato la retorica della missione e del sacrificio – che insieme alle capacità relazionali e di cura sono considerate pretestuosamente qualità femminili – allo scopo di precarizzare e impoverire sempre più. La conseguenza macroscopica di questo modo di intendere il lavoro di insegnanti ed educatrici, come fosse la prosecuzione di un ‘naturale istinto materno’ e non una professionalità acquisita in anni di studio e formazione, si misura su alcuni aspetti materiali, tra questi, ad esempio, la formazione dell’ormai noto soffitto di cristallo: un meccanismo capace di differenziare la carriera lavorativa lungo la linea di genere. Se da un lato l’80% della forza lavoro nei primi due cicli d’istruzione della scuola è donna, dall’altro, ai livelli più alti (secondo ciclo e università), si nota una netta diminuzione della presenza delle insegnanti e delle docenti. A questo si aggiunge, in ambito universitario, una segregazione occupazionale legata al genere, strettamente connessa al ciclo formativo, che vede una maggiore presenza di donne nelle facoltà umanistiche rispetto a quelle di carattere tecnico-scientifico che generalmente offrono sbocchi di carattere professionale meglio retribuiti.
Pertanto pretendiamo:
• Il finanziamento pubblico e strutturale del settore dell’educazione, della formazione e della ricerca, dal nido all’università, da destinarsi nello specifico a: retribuire le ore di formazione di docenti ed educatrici, sia per chi le eroga che per chi vi partecipa; attivare percorsi strutturati di prevenzione e contrasto della violenza di genere con realtà territoriali, che prevedano una retribuzione adeguata per le figure coinvolte, in opposizione alla logica di bandi una tantum; stabilizzare insegnanti, educatrici, ricercatrici e ricercatori precar@ e adeguarne gli stipendi alla media europea; garantire una ricerca slegata dalle logiche di mercato e che sappia mettere al centro la qualità e le esigenze della società;
L’abolizione della Legge 107/15 e della riforma Gelmini che, alla – luce delle trasformazioni che hanno introdotto tanto sul piano dei processi educativi, quanto su quello dell’organizzazione del lavoro, riteniamo siano leggi irriformabili;
• L’apertura di un processo dal basso di scrittura delle riforme di scuola e università che preveda anche la rimodulazione dei contenuti e dei programmi, seguendo i principi sopra esposti;
• La possibilità di definire percorsi di formazione dal basso e di autoformazione, in contrasto con il nuovo Piano Nazionale Formazione Docenti, che si basino sui principi esposti e che coinvolgano realtà competenti nell’elaborazione e nella realizzazione di progetti formativi orientati alla prevenzione e al contrasto della violenza di genere;
• Una più equa distribuzione degli incarichi che rompa, una volta per tutte, il soffitto di cristallo;
• Che gli scatti salariali per le e gli insegnanti siano legati esclusivamente all’anzianità di servizio;
• Che la formazione e l’orientamento al lavoro, per le donne coinvolte nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza, superino gli stereotipi sessisti, ossia non indirizzino l’occupazione delle donne su un arco ristretto e specificatamente “femminile” di opzioni. Per questo è opportuno implementare una rete di supporto che sia efficacemente collegata alle aziende, alle strutture istituzionali e agli enti territoriali e che preveda un percorso basato sul riconoscimento della centralità delle donne, sul rafforzamento dell’identità personale, sullo sviluppo della progettualità;
• Che vengano semplificate le procedure di riconoscimento dei titoli di studio e le qualifiche professionali ottenuti nei paesi di provenienza, sia per consentire l’accesso al lavoro qualificato sia per favorire gli ingressi per studio o ricerca nelle università italiane.