L’intervista a Beatriz Preciado di Rachele Borghi

Roma, 28 settembre 2011, Libreria Fandango, ore 10.30

di Rachele Borghi

1. Da molte persone che si interessano di queer studies sei considerata un idolo, una ‘dea’ . Ti riconosci in questa immagine?
[ride] No, non mi riconosco assolutamente. Non saprei. Penso che siano le persone ad avermi costruita. Ti spiego. Sono cresciuta all’interno dei movimenti femministi, gay, lesbici e mi sono costruita attraverso un rapporto di fantasia con Monique Wittig quando ancora ero bambina. Il primo libro che ho letto è stato Il corpo lesbico. Avrò avuto 14, 15 anni. L’avevo trovato in un mercato delle pulci a Burgos, che è una piccola cittadina cattolica. E questa scoperta ha accompagnato tutta la mia vita. Ho così sviluppato tutta una mitologia che è, di fatto, una mitologia della sopravvivenza; mi sono attaccata a questo perché non c’era nessun altro riferimento attorno a me. Questo è stato fondamentale. Solo successivamente ho incontrato di persona Monique Wittig ed è stato per me, come dire, è stata un’altra forma di filiazione, quella che io chiamo la filiazione sintetica. Non si tratta di una filiazione del sangue ma per me è diventata molto più importante della mia famiglia perché da lì partiva la trasmissione di una cultura che per me era fondamentale.
Quando sono arrivata a New York, ho frequentato i gruppi lesbici radicali, eravamo punk e lesbiche allo stesso tempo, avevo la testa rasata, eravamo punk e lesbiche molto, molto radicali. E’ lì che ho incontrato, per esempio, Judith Butler e Jacqui Alexander e per me era qualcosa di nuovo. C’era in loro un modello di azione politica che era per me fondamentale e che mi parlava. Mi diceva ancora una volta che potevo continuare a vivere la mia vita, che c’era uno spazio dove anch’io potevo abitare, vivere. Non saprei bene come spiegarlo; queste figure sono delle figure di finzione, ma allo stesso tempo sono dei miti necessari per continuare a vivere. Poi anch’io sono stata costruita, attraverso le persone, per esempio dal movimento post porno. Ma io la prima volta che ho fatto un atelier post porno non sapevo assolutamente niente, nemmeno quando ho incontrato per la prima volta Annie Sprinkle. Questo è ciò che chiamerei architettura degli affetti, ovvero un’architettura che si tesse attraverso relazioni e affetti. E’ stato dopo aver incontrato Annie Sprinkle che mi sono detta che si poteva fare qualcosa, andando al di là della critica della pornografia eterosessuale, inventando nuove tecniche di rappresentazione della sessualità. Per questo mi sono messa a fare un laboratorio post porno, anche se non sapevo assolutamente cosa fosse, era qualcosa di assolutamente nuovo, direi quasi un’utopia, una fiction ma una macchina creatrice. E hanno partecipato un gruppo di persone che non conoscevo che erano ben più creative di me; sono state loro a costruirmi come Beatriz Preciado, in qualche modo i miei genitori sono loro. Io posso essere al massimo una rete di relazioni. Ecco, Beatriz Preciado è questo: un’enorme rete di relazioni e di affetti che serve ad altri per continuare a resistere, a vivere, una rete che oserei direi infinita…

2. Come i laboratori drag king possono diventare laboratori di pratiche collettive finalizzate alla rottura dell’eteronormatività dello spazio pubblico?
Partirò da ciò che è stata la pratica drag king per me in un certo momento della mia vita, dato che ora non faccio più laboratori. Ne ho fatti molti, poi altre persone hanno cominciato a farli al mio posto, ed è proprio questo che mi piace!
Sentivo che c’era una specie di nocciolo duro all’interno del movimento femminista che impediva di articolare una critica della mascolinità che andasse al di là della teoria dell’oppressione. C’era, in qualche modo, un’idea eccessivamente monolitica della mascolinità, dell’uomo come il nemico da abbattere, l’oppressore. Ma a parte ciò, non si capiva esattamente cosa fosse la mascolinità. E il problema era ancora più sentito dalle persone come me che non si identificano del tutto come donne. E’ quindi possibile riappropriarsi di certi codici della mascolinità; io lo considero una tecnica di resistenza e di azione politica fondamentale.
Bisogna ricordare che nella struttura dello spazio democratico, così come è stata fatta nel XVIII secolo, la parola politica è una tecnica della mascolinità. Credo che l’accesso allo spazio politico passi attraverso la riappropriazione di un certo numero di tecniche, tecniche che sono state considerate come caratteristiche della mascolinità. Ma è evidente che non lo sono, semplicemente perché la mascolinità non esiste al di là di queste tecniche. Ciò che consideravo importante invece era altro: denaturalizzare queste tecniche. Cominciando a pensarle come tecniche aperte di produzione del genere, si può dare avvio ad un gioco di riappropriazione, di decodificazione, di risignificazione che parte proprio da queste stesse tecniche, attraverso pratiche che sono per me estremamente piacevoli. Chi ha provato lo sa. Ovviamente ho pensato subito ai primi gruppi femministi che si riunivano negli anni settanta, in cui vi erano davvero queste pratiche di consciouness raising prodotte a partire dalla parola. Quindi quello che ho fatto io è stato integrare le tecniche proprie ai movimenti degli anni settanta. Per quanto ne sapevo, laboratori drag king come quelli fatti da Diana Torr usavano una tecnica strettamente teatrale, drammatica. Ma per me mancava una dimensione più politica. Credo infatti che sia l’incrocio di tecniche performative e di critiche politiche del genere che fanno del laboratorio uno spazio unico. Per questo credo che si debbano tenere dei laboratori drag king a scuola; io li immagino come una tecnica virale che potrebbe attraversare tutte le istituzioni. Cosa accadrebbe se oggi al parlamento italiano, al parlamento europeo, organizzassimo un grandissimo laboratorio drag king e drag queen? Francamente penso che qualcosa succederebbe… di sicuro.
Le tecniche performative di produzione della soggettività non sono solo quelle del genere. Quindi se fossimo a scuola – e qui riprendo molte delle idee di Guattari – cosa succederebbe se performassimo le tecniche di un potere specifico o le tecniche della malattia mentale? E’ stato a partire da un miscuglio di tecniche di produzione della soggettività che ho cominciato a lavorare, anche al di là della mascolinità e della femminilità. Ed è così che sono arrivata al post porno perché mi sono resa conto che nei laboratori drag king succedeva anche altro. Quando delle ragazze, o meglio, dei corpi a cui è stato assegnato un certo genere alla nascita, delle biodonne, che sono state culturalmente prodotte come corpi femminili, cominciano un processo di riappropriazione delle tecniche della mascolinità, arriva un momento in cui non è solo il genere ad essere messo in causa ma anche la sessualità. Per esempio, una donna che si identificava come donna eterosessuale arrivava al laboratorio e dopo due ore, se ne andava con un’altra donna vestita anche lei da ragazzo e al ritorno mi diceva “lascio mio marito perché sono diventata gay”. Gay, non lesbica, gay! Questa era davvero una costante e siccome ho fatto molti laboratori mi sono resa conto che toccare le tecniche di produzione del genere implicava anche toccare i meccanismi di produzione del desiderio e del piacere. Per forza, perché se non andiamo al di là restiamo semplicemente in una caricatura della femminilità e della mascolinità nello spazio pubblico. Questa rottura dello spazio pubblico portava per forza alla sua sessualizzazione. Così, ad un certo punto, mi sono resa conto che nei laboratori drag king stavamo performando anche la sessualità perché le persone dopo tre o quattro ore di laboratorio inventavano nuove pratiche sessuali che andavano al di là delle tecniche specifiche dell’eterosessualità o anche della sessualità lesbica, per esempio, o altre ancora. Si tratta di una riarticolazione delle tecniche di produzione della soggettività.

3. Pensi che un elemento di continuità tra femminismo e transfemminismo possa essere nelle pratiche? Nel fare dei laboratori dei gruppi di azione? C’è un comune denominatore tra il self help e un workshop di squirting? Non sarebbe ‘rivoluzionario’ riprendere oggi certe pratiche del femminismo?
Assolutamente. Ad ogni modo penso che un problema fondamentale della pratica femminista sia proprio la mancanza di trasmissione, di archivi, di produzione culturale; è davvero terribile. Siamo di fronte ad una cancellazione sistematica e strutturale. Penso che sia necessario che noi come moltitudine – chiamiamola così -, come insieme di minoranze resistenti, riusciamo a creare strutture di trasmissione e di produzione della conoscenza perché altrimenti è finita… Questo è ciò che mi motiva, è la mia esperienza, ed è il motivo per cui tengo sempre corsi e seminari. Trovo che seminari e conferenze siano spazi di produzione politica. Dalla mia esperienza posso dire che nessuno conosce davvero la storia del femminismo. Spesso le persone non conoscono l’origine della parola femminismo in sé. Mi capita a volte di chiedere alle persone che vengono ai miei seminari quando il femminismo è cominciato. Non ne hanno idea, non capiscono nemmeno che il femminismo ha la stessa tradizione dei movimenti democratici del XVII e XVIII secolo. Lo sradicamento è totale. [Il lavoro di trasmissione] è affascinante e straordinario e lo dobbiamo fare insieme. Le istituzioni dominanti, infatti, lavorano contro di noi, per la cancellazione delle culture minoritarie. C’è un film che  raccomando sempre di vedere Not for sale di Laura Cottingham, che rintraccia  il lavoro e l’impegno delle artiste e delle attiviste femministe degli anni settanta – di cui io sono una grande fan; è un film straordinario ed è assolutamente introvabile e sconosciuto, insomma una catastrofe!
Abbiamo un secondo problema all’interno di questa genealogia politica. Quando recuperiamo la storia del femminismo, la recuperiamo all’interno della narrazione nord americana. Faccio mea culpa, perché mi sono educata anch’io all’interno di questo femminismo dopo essere partita per gli Stati Uniti. Ma oggi, dopo che ho viaggiato molto in America Latina, mi sono resa conto che negli anni sessanta e settanta c’è stato un movimento straordinario che è stato anche un movimento di critica razzista, coloniale. Ciò che oggi chiamiamo l’intersezione, ovvero la critica sesso, razza, classe ecc. come critica incrociata, era completamente operativa nei movimenti neri degli anni settanta e anche sessanta e nei movimenti latino americani degli anni stessi anni, come anche nei movimenti spagnoli di resistenza antifranchista. Il problema è che non conosciamo la nostra storia e i nostri testi. Più urgente della pubblicazione di Testo Junkie che potrebbe attendere, è effettivamente una ripubblicazione dei testi degli anni sessanta-settanta che sono pressoché introvabili e che non conosciamo. Questa è la passione della mia vita, allo stesso tempo è la mia cultura, ne sono immersa, per me è come se fosse la cultura dominante perché sono circondata da questi testi e riferimenti. Penso sia il solo modo di cambiare in maniera più vasta la cultura dominante oggi. Le persone di 18-20 anni che vengono alle mie conferenze non hanno nessun accesso alla cultura femminista degli anni sessanta. Dobbiamo inventare con urgenza strumenti, strutture di trasmissione e di produzione.
[Le dico la mia idea di andare in giro in gruppo per le strade e fare delle performance a partire dai testi femministi, dando poi una bibliografia che la gente può portarsi a casa. Lei dice “c’est génial”].
Bisogna fare delle cose. Io ho un sogno, non so se ci riuscirò, vorrei fare un gruppo come le peregrinazioni di Jean Genet. Vorrei fare un’enorme marcia a piedi in Europa, fermarci in ogni paese e fare dei laboratori. Vorrei mettere insieme un gruppo che faccia laboratori post porno, femministi, drag king, drag queen in ogni paese e uno spazio di lettura e di commento ai testi; continuare così, raccogliendo ogni volta nuove persone. E’ il mio sogno, non so se riuscirò a realizzarlo o no. Ogni volta mi dico che riusciremo a farlo un giorno o l’altro, non so quando. Annie Sprinkle ci sta, dice però che preferirebbe farlo in bici, vedremo. Ma lo faremo Proprio oggi che l’Europa affonda bisogna chiedersi che cos’è l’Europa, cosa vogliamo fare di quest’Europa che sta crollando.

4. A proposito di post porno. Pensi che il movimento post porno corra il rischio di essere criticato un giorno come bianco e occidentale?
Penso che la questione non debba essere se ci siano donne nere che performano all’interno dei gruppi post porno. [chiedo: Negli Stati Uniti ci sono?Risponde: Sì, ce ne sono alcune]
La questione è, piuttosto, quali sono le pratiche di critica e di resistenza, di produzione del corpo che emergono dai movimenti anticoloniali in sé. Bisogna fare attenzione a non riprodurre le dinamiche di integrazione multiculturale, mettendo qualche persona nera a performare con noi… Non ce ne frega niente di questo perché magari a lei neanche interessa performare.
Ho fatto un’esperienza in America Latina; mi sono appassionata al movimento post porno lì. Sono arrivata per la prima volta nel 2004 e subito un gruppo di femministe sono venute alla mia conferenza per dirmi: “Fuori! Bianca, colonialista, spagnola!”. Tre giorni dopo hanno fatto un laboratorio drag king con me e alla fine abbiamo pianto di gioia e siamo uscite per le strade del Chili, insomma è stato meraviglioso! Oggi c’è un movimento post porno, ma davvero post porno, nel senso che sono molto radicali. Per esempio, le ragazze post porno in Colombia sono incredibili! C’è un gruppo che si chiama “PorNO PorSI”. C’è una strada in costruzione che dovrebbe congiungere il centro della Colombia con la periferia, quindi queste ragazze (ci sono però anche ragazzi), insomma questo gruppo di ragazze pressoché nude attraversano la strada 26 facendo una specie di grande laboratorio a cielo aperto. Sono impressionanti. C’è un movimento simile in Brasile,  Mujeres Creando in Bolivia. [Ne fa parte] Maria Galindo che mi aveva scritto per dirmi “Non capisco, il movimento queer è troppo americano!”. Ora io e lei lavoriamo insieme, viene ad Amsterdam… Insomma credo che, sì, nella critica dei modelli di produzione della mascolinità e della femminilità bianca eterosessuale ci sia anche una critica coloniale, per forza, e che questa critica coloniale passerà per l’alleanza strategica tra i movimenti queer europei e i movimenti neri, latinoamericani, i movimenti degli immigrati. Per forza. Mi piacerebbe che Maria Galindo e Ron Athey lavorino insieme, perché mi rendo conto che quando metti insieme Maria Galindo, Ron Athey e Annie Sprinkle si intendono come se fossero stati da sempre insieme! E’ la stessa grammatica politica, è la stessa strategia di lotta; qualcosa di nuovo sarà prodotto da lì, qualcosa che supera i limiti nazionali e anche i limiti identitari, perché anche delle ragazze che all’inizio si definivano eterosessuali femministe oggi non si identificano più così, prescindono dalle pratiche sessuali.
Io sono molto entusiasta di tutto ciò, lo considero qualche cosa che le persone mi danno, una forza che la gente mi dà ogni volta, non riesco a essere negativa rispetto al movimento queer, non vedo assolutamente persone bianche che stanno performando; quello che vedo nelle performances post porno è una critica dell’eterosessualità mainstream.

 

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