Loredana Ranieri – Dall’emancipazione femminile alle pari opportunità

Dall’emancipazione femminile alle pari opportunità.             

Il dibattito sulle “quote rosa”                                                                      

 

Per Aristotele la donna era un “errore della natura”, per Tommaso d’Aquino è un “uomo malriuscito”, incompleto. Entrambi sottolineano l’importanza del ruolo domestico della donna, rimarcando però la necessità che nella casa sia l’uomo ad avere il potere. In altre parole, il fatto che la donna sia indispensabile non porta alla parità con l’uomo.

La valenza negativa o positiva delle diverse posizioni nei confronti delle donne è tutt’oggi oggetto di interpretazioni diverse, a seconda dei contesti di riferimento ma possiamo affermare che abbia origini fin dalla nascita dei tempi se consideriamo che a proposito della posizione della donna rispetto all’uomo, e della stessa natura di entrambi, i riferimenti hanno origini ben più remote, ci riconducono alle immagini della Bibbia, e in particolare del libro della Genesi, con un interrogativo di fondo a dir poco inquietante: Dio ha creato “l’essere umano a sua immagine e somiglianza”, in un unico atto di creazione “come uomo e donna oppure la donna proviene dalla costola dell’uomo”? E il fatto che la donna sia stata generata dalla costola dell’uomo, è un simbolo di superiorità o inferiorità rispetto a quest’ultimo?

Fino al XII secolo, il matrimonio costituiva una sorta di alleanza tra famiglie, fondata sullo scambio delle donne, quali garanzia e strumento di accordo, rappresentava dunque soprattutto una transazione di denaro e beni materiali, eppure già allora erano evidenti le indubbie capacità della donna di essere in grado di provvedere non solo a se stessa ma anche di produrre lavoro nel suo ruolo sociale, pensiamo infatti a tutte quelle donne che provvedevano a costituire la loro dote attraverso lavori retribuiti di cucito e ricamo quando i padri non riuscivano a fornire alle figlie eredità cospicue. Nel ruolo di moglie la donna ha sollevato per secoli il marito anche dallo svolgimento di nuovi compiti come quello dell’istruzione dei figli o la cura della casa, come anche di attività fondamentali per un equilibrio tra generi, eppure per tutte le donne valeva il principio giuridico del Corpus Iuris Civilis di Giustiniano: major dignitas est in sexu virili.

Lo stesso Lutero usò la metafora del rapporto tra il sole e la luna: il sole splende più della luna, che pure è dotata di “grande splendore” ma sempre inferiore rispetto a quello del sole; parafrasando dunque, la donna sarebbe sempre inferiore all’uomo per dignità e quindi a lui sottomessa per natura.

L’espressione organizzata di un’aspirazione all’uguaglianza tra donne e uomini si affermerà realmente a partire dalla Rivoluzione Francese, costituendosi come movimento sociale solo a partire dal XIX secolo: questo fu possibile perchè le rivoluzioni che segnarono il XVIII e il XIX secolo sconvolsero e ridefinirono radicalmente non solo l’ordinamento politico e le stesse forme della politica, del potere, delle organizzazioni, ma anche i limiti che che definivano i rapporti tra i due sessi, specialmente per quanto riguarda la Rivoluzione Francese, considerata la pietra miliare in Francia e anche nel resto dell’Europa dei fondamenti del mondo moderno.

È dunque durante la Rivoluzione che emerge una vera e propria espressione di volontà collettiva delle donne, caratterizzata da due elementi fondamentali e paralleli: la presa di coscienza della loro condizione come qualcosa di discutibile e da cambiare, non più data “per natura”, e il desiderio di appartenere, tanto quanto gli uomini, alla nuova società politica scaturita dagli eventi rivoluzionari.

Iniziano ad essere affermate con forza alcune idee rivoluzionarie sotto più punti di vista: le donne vogliono la possibilità di manifestare al re le proprie lamentele e le proprie esigenze, considerato che,esattamente come gli uomini, pagano i tributi e mantengono il loro impegno nel lavoro; inoltre, si sottolinea la necessità che i rappresentanti dei diversi gruppi che compongono la società condividano gli interessi dei rappresentati, di conseguenza che le donne possano essere rappresentate solo da donne.

Si tratta di argomenti fortemente rivoluzionari, usati dalle fautrici della partecipazione politica femminile fino al Novecento; peraltro, essi sono rivoluzionari in due sensi: il primo è relativo alla espressione a favore di un parlamentarismo moderno, il secondo alla partecipazione delle donne in quanto donne.

I cahiérs de doléances, i club politici e la Déclaration des droits de la femme sono i primi elementi che testimoniano e fondano la pratica “militante” delle donne.

Olympe de Gouges , uno dei primi personaggi femminili che guideranno le donne nella rivendicazione dei diritti di partecipazione politica, aveva colto nella £Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” come la parola homme non stesse ad indicare l’essere umano in senso generale, bensì unicamente il maschio in senso di sesso biologico. Nel 1791, appena due anni dopo l’uscita della famosa prima dichiarazione, scrisse la sua “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”. Le parole del discorso con il quale introduce la sua Déclaration sono inequivocabili ed eloquenti: la Dichiarazione della de Gouges ricalca la struttura della Dichiarazione “maschile”, articolata come quest’ultima in diciassette articoli al fine di evidenziare gli elementi di connessione con il dibattito più attuale sulle tematiche dell’uguaglianza delle opportunità tra uomini e donne, si afferma la necessità di considerare, nell’accesso al lavoro, solamente le capacità, le virtù, i talenti, e non dunque il sesso.

Olympe de Gouges pretende che le donne siano considerate come individui, non negando la differenza tra i sessi ma facendone, invece, il fondamento dell’estensione dei diritti dell’uomo alle donne: gli argomenti che rappresentano i motivi dell’esclusione delle donne dalla politica e, in generale, dalla vita pubblica, sono invece presentati proprio come argomenti che legittimano la citoyenneté femminile.

Evidenzia qui non l’identità degli “individui assoluti” ma la differenza fra i sessi, rovesciando i consueti argomenti secondo i quali le donne, a causa dei compiti tradizionalmente loro assegnati, non possono partecipare alla vita politica.

Una delle prime, ma non certo l’ultima, battute d’arresto nella lotta per la conquista dei diritti di parità è sancita, nel 1793, dalla condanna a morte della stessa Olympe de Gouges, avvenimento che segna l’inizio di una repressione che durerà fino alla cosiddetta “epoca delle rivoluzioni” degli ultimi decenni del Novecento.

Verso l’emancipazione

Il percorso che conduce all’affermarsi dell’emancipazione femminile è stato lungo e difficile: solo dopo la prima guerra mondiale, nei primi decenni del Novecento, tale conquista fu raggiunta da ventuno Paesi europei.

Il suffragismo si sviluppò in modo simile, e ciò in ragione di un aspetto in particolare: le donne iniziarono a discutere e ad affermare il loro diritto al voto. Tuttavia, fu solo alla fine degli anni Quaranta che si videro dei segnali di significativo cambiamento: nel 1945, l’equiparazione dei sessi fu accolta nella Carta delle Nazioni Unite, insieme alla discriminazione per motivi legati alla “razza”.

In Occidente, una seconda questione emancipativa si aprì una volta preso atto dell’inarrestabilità della tendenza all’aumento del lavoro delle donne, si cercò di porre rimedio alle problematiche legate alla sovrapposizione degli impegni familiari, esclusivamente a carico delle donne, con gli impegni propri di un’attività lavorativa che si mostrava non più come complementare ma sostitutiva.

Alle questioni lavorative seguirono quelle interne alla struttura famigliare stessa: in Italia, nel 1975 viene approvato il nuovo diritto di famiglia, nel quale, in particolare, si afferma il principio della conduzione paritaria, da parte dei coniugi, del governo della famiglia e l’intera nazione si mobilitò in occasione del referendum del 1974 sul divorzio,che , dopo l’introduzione nel 1970, si stava tentando di abrogare.

Le giovani che protestano e lottano per l’ottenimento dei diritti e della parità, sia in Europa che negli Stati Uniti d’America, non vogliono più tollerare quella che è la condizione delle donne all’interno della famiglia e nel mercato del lavoro: il cosiddetto New Feminism degli anni Settanta mette in discussione radicalmente i ruoli sociali attribuiti alle donne e agli uomini, denunciando le discriminazioni e le ingiustizie che a tale assegnazione sono legate e dalla quale traggono origine.

Le lotte femministe acquisiscono, dunque, una loro specifica autonomia identitaria e organizzativa: al loro centro vi è la denuncia dell’oppressione e dello sfruttamento della donna da parte dell’uomo, ma anche dell’androcentrismo e del patriarcato.

 

Le pari opportunità                                                                                                

Nonostante le moltissime lotte realizzate per ottenere le pari opportunità fra uomini e donne quella di genere continua ad essere ancora oggi la più grande disparità di condizioni economiche e sociali nel mondo.

I dati che emergono dal “Rapporto UNDP – United Nation Development Programme – n. 6 1995” sono tutt’altro che rassicuranti se pensiamo che persino nel sistema giuridico le donne vivono una condizione impari. Nel settore manageriale e amministrativo solamente il 14% degli impieghi è occupato dalle donne e non va certo meglio in campo politico dove i seggi parlamentari a loro affidati sono appena il 10% e la percentuale scende ancora al 6 per quanto riguarda i ministeri governativi.

Un altro aspetto allarmante è dato dal fatto che le donne costituiscono il 70% del totale mondiale dei poveri e i due terzi del totale degli analfabeti.

Le statistiche confermano che la percentuale di donne come produttrici di forza lavoro, va dal 40 al 50% in alcuni Paesi Ricchi, fino al 20% nei Paesi di religione islamica.

Soprattutto nei Paesi Poveri, le donne costituiscono la principale forza lavoro e sebbene sia evidente quanto contribuiscano notevolmente ai processi di sviluppo e alla produzione della ricchezza, spesso il loro lavoro non viene riconosciuto né retribuito. Il dato allarmante è che nello sviluppo e nella crescita economica la donna sopporta i costi ma non ne condivide i benefici: è il caso ad esempio dell’America Latina, dove le donne svolgono attività economiche informali non riconosciute, spesso a causa della mancanza di un’istruzione adeguata, della difficoltà della gestione familiare e della maternità. Le conseguenze stanno nel fatto che in questo modo le donne non vengono considerate partecipi o protagoniste dello sviluppo, poiché il loro operato avviene, per così dire, all’insegna dell’invisibilità.

Per quanto riguarda i Paesi industrializzati si potrebbe pensare su carta ad una situazione più equa, ma riscontriamo che così non è: anche se la donna ha un livello culturale più elevato di quello degli uomini spesso il suo lavoro corrisponde ad un livello gerarchicamente più basso e con una retribuzione inferiore. Si ha l’errata concezione che solo quando la donna sia “single”, possa sopportare il confronto produttivo con un uomo “single”, e sul mercato del lavoro produca meglio e di più; diversamente, una donna sposata rispetto ad un uomo sposato ha meno possibilità di carriera poiché destinata ad abbandonare, anche se per un periodo, il lavoro per prestare le dovute cure ai figli e naturalmente, in caso di rientro, dovrà affrontare tutte le difficoltà dei meccanismi di un nuovo reinserimento e riqualificazione professionale.

Per ovviare a queste disparità, notevoli passi avanti sono stati fatti nell’ambito della selezione lavorativa dai paesi della fascia nordica Svezia, Finlandia, Norvegia e Danimarca: l’indice dello sviluppo umano correlato al genere è stato via via soppiantato da quello delle capacità umane basilari, che rappresenta un affrancamento dalla discriminazione legata al concetto di sesso.

Con l’intento di porre fine alle relative privazioni delle donne, questi paesi hanno adottato l’uguaglianza di genere e l’attribuzione di potere alle donne come politiche nazionali: un esempio è il tentativo di uniformare il grado di alfabetizzazione degli adulti per donne e uomini, che ha dato oggi il risultato superiore alle aspettative con un tasso di iscrizioni scolastiche più elevato per le donne.

Negli ultimi vent’anni l’incremento dell’iscrizione scolastica e l’aumento dei salari femminili nei paesi industrializzati ha contribuito al parziale riequilibrio del divario di genere, ma le opportunità aperte alle donne rimangono limitate e appare l’evidente l’enorme disuguaglianza di accesso alle opportunità. Anche nei Paesi “più avanti” nelle politiche di genere il reddito percepito dalle donne è ancora circa 3/4 di quello percepito dagli uomini: appare quindi evidente che in nessuna società moderna le donne godono ancora delle medesime opportunità degli uomini.

                                                                                                                 

Le “quote rosa”                                                                                                          

Nonostante vi sia stato un considerevole progresso nello sviluppo delle capacità delle donne, la loro partecipazione alle decisioni economiche e politiche rimane molto limitata. E’ in questo insieme di considerazioni che è stata introdotta l’ipotetica soluzione, non ancora pratica diffusa, delle fantomatiche e discusse “quote rosa”, sulla cui legittimità ancora si dibatte animatamente.

Le quote rosa o “quote di genere” sono disposizioni o meglio regole legali sia di carattere costituzionale che legislativo, che garantiscono, nelle composizioni di alcuni organi, il rispetto di una percentuale di genere femminile, soprattutto per quanto riguarda la rappresentanza politica.

Sia nella vita politica che nelle organizzazioni queste quote trovano applicazione mediante lo statuto a posti all’interno dei partiti o indirettamente nelle candidature, sono determinate per legge nelle candidature alle elezioni o prevedere posti riservati in Parlamento.

Le quote rosa sono state principalmente utilizzate al fine di aumentare il numero di donne presenti nei Parlamenti. Si è ritenuto che la presenza femminile sotto la quale non è possibile asserire che vi sia una presenza di genere nelle pratiche politiche si aggiri tra il 20% e il 50 %, e che, inoltre, le donne candidate all’interno delle liste debbano essere inserite in una posizione che comporti per loro reali possibilità di elezione: in questo caso si parla di “doppie quote” o sistema “a cerniera”. Il sistema a cerniera prevede un’alternanza sistematica di presenza femminile e maschile nelle liste dei candidati e indica non solo che ci sia la giusta percentuale di donne candidate, ma impedisce anche che queste siano inserite in posizioni che comportino la scarsa possibilità di essere elette.

Possiamo affermare che in Italia le quote rosa abbiano avuto una lunga e laboriosa storia, questo almeno per quanto concerne l’ambito della rappresentanza politica.

Dopo vari tentativi di leggi che proponevano il criterio di proporzione tra i due sessi, dichiarate illegittime perché ritenute in contrasto con i principi di eguaglianza, e dopo una prima bocciatura della legge 3051 del 2004 – proposta dal Ministro per le Pari Opportunità Giovanna Prestigiacomo, sulle misure per sanare il gap legislativo – e l’introduzione di vincoli per la formazione delle liste elettorali dei partiti, si è finalmente arrivati alla modifica-integrazione della Costituzione che è stata rielaborata per offrire una copertura costituzionale verso tutti i provvedimenti legislativi ed amministrativi con i quali si volessero garantire forme paritarie in particolare alla designazione di cariche elettive per un’equa presenza femminile e maschile nella rappresentanza.

«Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra uomini e donne.»

Questo è quanto sancisce l’art. 51, comma primo, della Costituzione (legge costituzionale n. 1/ 2003) che costituisce un importante passo avanti per la parità di generi nella vita politica e sociale.

Per quanto riguarda la suddivisione di genere nel mondo delle imprese la situazione è leggermente più ottimistica: le società dovranno riservare una quota pari ad almeno un quinto dei propri membri al genere femminile e la quota rosa dovrà necessariamente essere in aumento fino ad arrivare a coprire nel 2022 un terzo dei membri esistenti in una azienda.

Il 12 agosto 2011 è entrata inoltre in vigore in Italia la Legge 120/2011, lo scopo di questa Legge è quello di promuovere un processo di rinnovamento culturale che supporti una maggior meritocrazia, ma dal punto il vista etico vede contrapporsi coloro che ritengono le quote di genere una deviazione dalla definizione liberale di equità e, pur affermando l’utilità di questi strumenti, ne contestano la legittimità.

Dall’altra parte il senso di creazione delle quote è quello di favorire un raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale tra generi in tempi rapidi e con risultati verificabili in scala percentuale, per garantire dunque una più equa rappresentanza femminile negli organi direttivi e parlamentari.

Ma quali le principali obiezioni alle quote rosa? Le tesi principali atte a sfavorire questo sistema sono sia da parte degli uomini – che temono a loro volta di essere penalizzati, in quanto ritengono che questo sistema violi il principio di uguaglianza in un’ottica in cui le donne vengano preferite ai candidati maschi non per meriti – tanto quanto da parte delle donne contrarie all’applicazione delle quote rosa poiché le ritengono degradanti, sempre a causa della preferenza accordata in scala potenzialmente non meritocratica.

Di seguito un serie di quesiti tra quelli più spesso sollevati in merito all’argomento: se applicate nell’ambito politico le quote rosa rappresentano un caso antidemocratico, dato che la decisione su chi debba essere eletto viene imposta dal partito? Chi viene eletto o riceve un determinato incarico in questo caso lo ottiene principalmente in forza della sua appartenenza ad un determinato genere? Le quote, nel caso rappresentassero una violazione del principio della libertà democratica,sono portatrici di conflitti all’interno delle stesse organizzazioni che devono adottarle?

A fronte di ciò ci si domanda se vi sia una reale ed effettiva necessità di introdurre le quote rosa per garantire una carriera alle donne o se non sia più opportuno puntare esclusivamente sulla “meritocrazia”, come avviene in diversi Paesi stranieri.

In una società multietnica, così fortemente sviluppata, e in continua evoluzione come la nostra, apparealquanto singolare che per ottenere una uguaglianza di divisione dei generi nei ruoli strategici della politica e dell’economia, si debba ricorrere ad indicazioni, quali le quote, imposte dall’esterno a quelle stesse organizzazioni che dovrebbero garantire un pari accesso alle opportunità.

La media della presenza femminile in Parlamento nel nostro Paese è il 21,4 %, contro il 25,6 % della media Europea, inoltre numerosi altri Paesi europei hanno preferito adottare un regolamento interno sulla parità di genere, pochi invece i Paesi che hanno introdotto le quote di genere nella legislazione nazionale e la percentuale stabilita dalle quote varia nei diversi paesi e dipende dal sistema elettorale. Ci sono poi paesi come Svezia, Islanda, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito e Germania in cui le quote di genere sono adottate dai partiti e non sono stabilite per legge. Così come in Danimarca, Finlandia, Lituania, Bulgaria, Estonia e Liechtenstein, dove non esiste nessuna forma di regolamento per favorire la presenza femminile nelle liste elettorali e in parlamento.

Dati dall’Europa e dal mondo

Coloro che sono favorevoli all’introduzione delle quote rosa come mezzo regolatore, per supportarne l’esigenza e cercare di comprendere e valutare quali siano le possibili conseguenze della presenza femminile ai vertici delle istituzioni e delle imprese, hanno intentato vari studi ponendosi l’obiettivo di verificare l’apporto delle quote rosa sulle performance aziendali, concentrati in particolar modo sul rapporto corporale governance e performance aziendale, riscontrando che maggiore parità di genere produce società più eque e maggiore benessere economico.

Per ovviare al problema del sottoimpiego femminile e soprattutto alla crisi economica di fine anni Ottanta, un primo piccolo passo si è avuto con la legge n.215 del 1992, che aveva l’obiettivo di far rientrare nel tessuto economico italiano le moltissime donne che avevo perso il loro posto di lavoro, nonostante avessero portato alla luce le grandi capacità lavorative sia manuali che gestionali. Anche se la legge è stata attuata solo nel 1997, a questo primo impulso bisogna riconoscere il merito di aver avviato un consistente percorso di emancipazione della libertà femminile, che inevitabilmente ha causato trasformazioni sociali, culturali, economiche e produttive.

Studi empirici hanno messo in evidenza che la presenza delle quote rosa nei Consigli di Amministrazione genera effetti positivi sulla performance aziendale, nonostante vi siano ancora società non in linea con gli standard previsti dalla legge. In Italia il cambiamento definitivo nella composizione dei Consigli di Amministrazione e l’applicazione effettiva della legge 120 risulta essere ancora lontano, anche se nel giro di pochi anni, la politica intrapresa dai vari organi competenti, compreso il Ministero delle Pari Opportunità, inizia a dare i frutti sperati.

Alla luce di tali studi l’incremento della presenza femminile nel panorama politico italiano non costituirebbe affatto un danno per il Paese, ma uno dei possibili strumenti a disposizione per la concreta realizzazione delle pari opportunità tra donna e uomo.

Questi risultati sarebbero peraltro in linea con i corrispettivi europei: all’inizio di questo secolo, i politici norvegesi hanno deciso fosse giunto il momento che il settore privato, seguendo le orme di quello pubblico e della politica, aprisse maggiormente le porte degli alti livelli dirigenziali alle donne, fu cosi fissato un obiettivo del 40% di donne nei consigli di amministrazione di tutte le società quotate (fra il 2004 e il 2006, le più grandi aziende del paese riuscirono ad incrementare la rappresentanza delle donne ai vertici dal 22% al 29%); allo stesso modo il governo spagnolo, per esempio, ha messo in atto pressioni sui consigli d’amministrazione affinché anche nella penisola iberico si potesse pervenire ad una presenza femminile del 40%; la Francia ha proposto, ma poi respinto, una legge che fissava tale quota al 20%;mentre negli Stati Uniti e in Canada, la persistente attenzione sulla questione femminile e sulla partecipazione delle donne alla leadership delle imprese da parte di associazioni e think tank femminili ha permesso, quanto meno, di conseguire una presenza simbolica delle donne ai massimi livelli aziendali.

Tutte le prime cento società statunitensi oggi contano almeno una donna nel consiglio d’amministrazione o nel comitato esecutivo, mentre quasi un terzo è riuscita a superare la soglia di una sola donna. In Europa, in 82 delle 100 principali società figura almeno una donna nell’organismo direttivo, ma solo in cinque ne siede più di una. In Asia soltanto il 34% delle grandi imprese ha una donna nel consiglio di amministrazione.

Il convegno internazionale del Women’s Forum, tenutosi nel 2006 a Deauville, nella Francia settentrionale, è stato contrassegnato da un ampio dibattito sull’adeguatezza ed efficacia delle quote come metodo per migliorare la situazione. All’inizio circa la metà dei rispondenti si era detto non coinvolto del sistema, mentre alle fine il 90% si è espresso in termini favorevoli, sostenendo che le quote, almeno temporaneamente, potrebbero correggere gli squilibri che lavorano contro le donne. Vi è anche chi, come Cherie Blair ritiene che le quote siano applicabili soltanto alla politica, il cui elemento chiave è proprio la rappresentanza: il settore privato, a suo giudizio farebbe invece perno soprattutto su capacità e competenze e dovrebbe quindi essere lasciato libero di scegliersi i propri leader sulla base di questi soli criteri.

 

Conclusioni

Doveroso notare come la presenza femminile risulti ancora troppo scarsa nei settori importanti per lo sviluppo economico e la gestione del Paese, come nel campo della ricerca e sviluppo scientifico. I dati delle ultime statistiche sulla presenza femminile ai posti di leadership delle imprese è pari solo al 20%, contro l’80% di presenza maschile. La stragrande maggioranza delle donne, infatti, resta arenata ai livelli di management intermedio o inferiore, mentre i team di vertice ed esecutivi restano predominio degli uomini. Persino in America, dove le donne rappresentano quasi il 40% degli occupati ai livelli manageriali, la loro ascesa verso posizioni di effettivo potere non è stata certo agevolata, per dirla con una citazione dantesca “la più rotta ruina è una scala”.

Nel ventesimo secolo abbiamo assistito all’ascesa delle donne e il ventunesimo ce ne mostrerà le conseguenze economiche, sociali e politiche. Negli ultimi trent’anni le donne, per la prima volta nella storia, si sono potute affiancare agli uomini, nelle stesse mansioni, con gli stessi livelli d’istruzione e non inferiori ambizioni.

Oggi le donne rappresentano la quota preponderante del patrimonio a cui attingere, otre che un notevole segmento di mercato: nei paesi sviluppati sono già in lizza per diventare un fattore chiave in un mercato sempre alla ricerca di nuove contro l’invecchiamento della forza lavoro, la bassa natalità e della carenza di competenze.

La riconsiderazione della leadership e delle regole che governano la gran parte delle nostre istituzioni, soprattutto quelle che regolano gli aspetti economico finanziari, ci viene però inaspettatamente dalla crisi che sta colpendo i Paesi industrializzati in questi ultimi anni.

Il World Economic Forum pubblica ogni anno un Global Gender Gap Report, nel quale si classificano i paesi anche in base al grado di accesso delle donne all’istruzione e alle cure sanitarie, oltre che alla loro partecipazione all’economia e al processo politico: l’Italia dal 74° posto in graduatoria, come del 2010 su 145 paesi, è riuscita oggi a risalire di più di trenta posizioni, collocandosi al 41° gradino. In cima alla lista si situano i Paesi scandinavi – Islanda, Norvegia, Finlandia e Svezia – che hanno compensato più dell’80% della disuguaglianza di genere.

Redazione

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