di Anna Simone
Prima scena: c’è una mamma, una donna, da sola dentro casa con un mucchio di panni da lavare che fissa il vuoto, ossessionata dal pianto del suo bambino e dal telefono che squilla in continuazione. Seconda scena: come fosse diventata all’improvviso un’altra persona quella stessa mamma e donna prima mette tutti i panni in lavatrice e poi ci mette anche il suo bambino. Terza scena: quella stessa madre e donna ora è in cura presso l’unico reparto femminile, tra i sei ospedali psichiatrici giudiziari presenti sul territorio, a Castiglione delle Stiviere. Dopo varie sedute con lo psichiatra prende improvvisamente coscienza del suo gesto rimosso per anni, arriva in cima a delle scale costruite a tornanti circolari, fissa gli stessi tornanti e si butta giù. Sono solo tre scene, tra le tante, di “Maternity Blues”, un film straordinario del 2011 di Fabrizio Cattani, tratto dal dramma teatrale “From Medea” e da una realtà che se guardata in faccia senza paura assomiglia ad un insieme di armi fendenti sempre pronti a colpire.
Con la stessa nozione “maternity blues” lo psicoanalista inglese Donald Winnicott ha indicato una sintomatologia composta da tristezza e improvvisa malinconia che colpisce quasi la metà delle donne nella prima settimana dopo il parto, una volta si chiamava “il pianto del latte”, poi anche “sindrome da puerperio”. Per la criminologia positivista, per la sociologia della devianza di superficie, per l’opinione pubblica e per il cinismo che ammanta molte delle inutili parole che affollano i talk show a sfondo giallistico, invece, trattasi solo di “madri assassine” ovvero di “mostri”.
Sara Fariello, sociologa della devianza presso la seconda Università di Napoli, aveva già lavorato sul figlicidio in un brillante saggio presente in un volume da me curato nel 2012, Sessismo democratico. L’uso strumentale delle donne nel neoliberismo, soffermandosi prevalentemente sulla costruzione, e dunque sulla decostruzione, degli ordini discorsivi sul tema, così come vengono tradotti nei mezzi di comunicazione di massa, nonchè sulla rimozione collettiva che un tale fenomeno porta alla luce sul piano della responsabilità sociale legata all’esperienza della maternità. Dopo qualche anno quel piccolo saggio di Sara è diventato un libro fitto, lucido, interessante anche in virtù del suo doppio posizionamento esperenziale dichiarato fin dall’inizio: la nascita della sua bambina, il parto, il dopo-parto, e il suo mestiere di ricercatrice in sociologia giuridica della devianza.
Madri assassine. Maternità e figlicidio nel post-patriarcato è, dunque, in prima battuta l’esito di una ricerca prima inesistente sul fronte sociologico giuridico (l’argomento era stato studiato in prevalenza solo dalla psichiatria e dalla criminologia), nonché uno strumento importante di riflessione per l’approccio legato al femminismo giuridico che cerchiamo di promuovere attraverso queste pagine. Il primo gesto teorico compiuto dallo studio di Sara va nella direzione di costruire una linea di interpretazione sociologica al tema in grado di decostruire la nozione stessa di “madri assassine” perché rispondente più a un tentativo di colpevolizzare l’esperienza della maternità che a inquadrare il fenomeno. Un fenomeno che, a ben guardare, esiste solo sull’eco che alcuni singoli casi evocano attraverso la morbosità della cronaca nera: come dimostra l’autrice del volume il figlicidio, in realtà, oltre ad avere percentuali in calo, resta un atto criminale prevalentemente compiuto dai padri (spesso associato anche all’omicidio della coniuge o della ex).
La seconda linea, sviluppata assai bene in questo lavoro, concerne il nesso che intercorre tra sintomatologie specifiche legate a questo fatto sociale, per esempio la depressione post-partum, e la “solitudine sociale” di molte madri. I processi di individualizzazione della società contemporanea, infatti, hanno avuto un’eco anche rispetto alla genitorialità, un tempo decisamente più condivisa su scala comunitaria e familiare. I bambini, in altre parole, sono sempre più “solo” nell’alveo della responsabilità dei genitori e sempre meno dell’intera comunità: amici, parenti, vicini ovvero gli attori di una responsabilità sociale allargata e di forme di solidarietà informale che si vanno progressivamente scomponendo soprattutto nelle grandi città.
La terza linea presente nel volume indaga il ruolo della “madre” e della donna che, come sappiamo, può anche non coincidere, all’interno del pensiero femminista, per decostruirne la “mistica” o per sottolineare quanto, in alcuni casi, giochi un ruolo fondamentale anche l’idea di un desiderio eterodiretto che genera situazioni di difficoltà qualora diventi difficile la gestione del rapporto materiale tra madre e figlio. Si passano pertanto in rassegna i lavori di Gilligan, Rich, Muraro, Lonzi, ma anche De Lauretis, Wittig, Butler arrivando a sostenere la tesi secondo cui madri si diventa, non si nasce.
La quarta e ultima linea che attraversa il volume si sofferma sulle modalità attraverso cui si è costruita la “devianza femminile”. Qui v’è una storia molto stratificata che va dalla criminologia positivista di fine ottocento sino all’imperialismo culturale delle neuroscienze sulle scienze umane e sociali, basti pensare alla nascita della figura dell’isterica o della “prostituta nata” e via discorrendo. Sara Fariello non ricostruisce questa genealogia, ma si colloca prevalentemente su un presente attraversato da una sorta di involuzione teorico-politica che tende a trasformare ogni “questione sociale” in una “questione criminale” per risolverla sempre con gli strumenti della stigmatizzazione mediatica, psichiatrica, penale, a scapito di una cultura del Welfare che sembra retrocedere di anno in anno. Un libro vivo, insomma. Interessante e molto utile, non solo per il femminismo giuridico-penale e per la sociologia della devianza, ma per chiunque voglia provare a non semplificare, in formule rozze di giudizio senza conoscenza, un fatto sociale così ostico e difficile.