Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte raccolta collettanea curata da Ilaria Bussoni e Raffaella Perna, pubblicato recentemente da Derive Approdi, può considerarsi un libro di storia e di memorie personali e politiche ma non solo perché, come giustamente scrive Paola Rudan (Il gesto femminista, una fessura sulla sovversione, Il Manifesto, 19/07/2014), oltre a rendere conto di una storia sovversiva ed eccezionale come quella del movimento femminista, è costruito attorno ad una scomparsa – la scomparsa del gesto femminista – nel presente e pertanto porta ad interrogarsi proprio sul presente, su cosa resta o non può restare di quella storia e di quelle memorie.
Come affermano le curatrici nell’introduzione «questo libro parla di un gesto […] un gesto trasversale che serpeggia tra le mani delle donne, che si fa con le mani delle donne. Questo libro parla di un gesto, ed è dunque un ossimoro. Perché un gesto non dice, non comunica, sta fuori dal linguaggio, ma sta dentro una lingua. La lingua di un segno. Un segno che è qui metonimia» (p. 5).
Un bel formato in cui i sedici saggi che compongono il volume sono accompagnati da fotografie in bianco e nero, foto di chi quel gesto lo ha fatto durante manifestazioni, cortei, foto di artiste che durante le loro opere, performance e pratiche artistiche lo hanno riprodotto, analizzato, problematizzato.
Significativa la scelta di accompagnare i testi con le immagini, nella misura in cui – come sottolinea Tano d’Amico in Una storia di donne. Il movimento femminile dal ’70 agli anni no global – le immagini femminili furono capaci di cambiare le immagini maschili. Riprodurre tali immagini mostra la vera e propria rivoluzione che il femminismo ha operato nella storia, come le donne non si accontentavano delle immagini che già c’erano, come percepivano di essere rappresentate male e come hanno preteso che anche dalle immagini, a cominciare dalle immagini fosse loro resa giustizia.
«Vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte. Noi cerchiamo l’autenticità del gesto di rivolta e non la sacrificheremo né all’organizzazione né al proselitismo» tali le parole con cui si conclude il manifesto nel 1970 di Rivolta femminile di Carla Lonzi, al cui lavoro di critica d’arte è tra l’altro dedicato l’intervento di Vanessa Martini,L’estrema critica di Carla Lonzi: 1968-1978.
Il gesto di rivolta dunque, il gesto scabroso e sovversivo che significava al tempo stesso autenticità, affermazione e auto-determinazione e che ha attraversato la storia del movimento femminista è il filo rosso che attraversa l’intero volume.
Il gesto è l’istituzione del senso, ciò che vuol dire produce senso. Come d’altronde scrive Merleau-Ponty in Signes: «Nous avons dans l’exercice de notre corps et de nos sens, en tant qu’ils nous insèrent dans le monde, de quoi comprendre notre gesticulation culturelle en tant qu’elle nous insère dans l’histoire».
Il gesto di rivolta, la vagina simulata dalle quattro dita che si uniscono a formare un triangolo è «un’iconografia che serve ad affermare ho un corpo dunque sono e io sono questo mio corpo, così il corpo diviene immediatamente politico» (Cristina Morini, Quel corpo sono io. Dal femminismo insegnamenti di resistenza al biopotere, (pp. 82-88).
E il femminismo è anzitutto politica, come sosteneva Françoise Collin, un’insurrezione permanente che si pensa e si inventa ad ogni passo e ripercorrere tale gesto significa ripercorrere anche la storia del movimento femminista, l’entrelacement permanente di teoria e pratiche. È nel rapporto che noi intratteniamo con il nostro corpo, nel modo in cui è strutturata la sua relazione all’altro/a al mondo, che si radica e si perpetua il sistema di dominazione di cui siamo l’oggetto. Analizzare tale rapporto, per modificarlo, è operare un atto positivo di liberazione: liberazione delle donne e liberazione tout court,poiché non c’è rivoluzione che non sia legata a una modificazione profonda della pratica delle relazioni. La rivoluzione, che nella prospettiva marxista era una rivoluzione economica, legata alla sfera della produzione ora non è più sufficiente, la rivoluzione è anche rivoluzione libidinale.
Il femminismo ha voluto inizialmente rendere alle donne il loro corpo, ciò che gli era stato rubato, ma più rubata ancora era stata per loro la parola. La liberazione del godimento femminile è il suo passaggio nel simbolico in cui godere è dislocarsi senza limiti e dislocare costantemente il limite. Il nostro godimento è godimento del pensiero e del linguaggio e non c’è godimento se non di sé e a partire da sé e non è la liberazione, ma la sopravvivenza delle donne che è a questo prezzo: poter donare a se stesse il proprio alimento, scegliersi, preferirsi, da qui la potenza sovversiva del gesto femminista.
Il saggio che apre la raccolta è di Laura Corradi. Nel segno della vagina. Dalla ri-appropriazione semiotica negli anni Settanta alle Vagina Warriors negli anni Novanta, alla critica decolonizzante del femminismo indigeno (9-24 pp.) ha il grande merito di fare una vera e propria genealogia del gesto e di problematizzare la nozione stessa di femminismo al singolare aprendo ai femminismi postcoloniali, decoloniali e travalicando i limiti teorici e politici di una nozione – anch’essa problematica e controversa – come quella di intersezionalità[1], negli ultimi anni al centro delle riflessioni femministe soprattutto in Francia e negli Stati Uniti.
Laura Corradi ripercorrendo à rebours la storia del gesto, ne rintraccia un’origine europea: apparso per la prima volta ne Le Torchon Brulé, la rivista femminista militante francese di cui uscirono solo cinque numeri tra il ’71 e il ’73, e fatto pubblicamente da una donna italiana, di nome Giovanna Pala, durante il convegno della Mutualité a Parigi.
Problematizza poi, fra altri, quello che è un fenomeno recente e che nei paesi anglofoni è stata definito “Vagina protest” che ha quale simbolo il testo il Eve Ensler, Vagina Monologues. Quest’ultimo, da una parte, rischia di ri-essenzializzare le donne assimilate al sesso biologico, dall’altra, di aprire ad un femminismo liberal ed individualista. In tale prospettiva, giustamente, Corradi sottolinea come le femministe indigene di Usa e Canada abbiano preso le distanze dalle manifestazioni di vagina protest.
In Le lotte e la risata delle donne (pp. 25- 34) Stefania Consigliere e Lelia Pisani si soffermano sui limiti di una visione occidentale delle lotte e della pratiche di liberazione, prendendo in considerazione due esempi africani di resistenza delle donne attraverso l’uso del proprio corpo, completamente differenti dal controverso movimento delle Femen che purtroppo ha avuto, invece, una risonanza mediatica maggiore.
Letizia Paolozzi, nel suo intervento Ma lui finge di essere sordo (pp. 35-39) analizza, di contro, il silenzio degli uomini, «una mossa simbolica» che gli uomini non intercettano, scrive Paolozzi, nella misura in cui aprirsi a nuove prospettive, a modalità relazionali condivise comporta sempre dei rischi. Per queste ragioni, il gesto delle dita unite, pur all’origine del cambiamento, avrebbe faticato a produrre effetti di trasformazione evidenti nell’altro sesso.
Silvia Bordini, in Il dentro e il fuori (pp. 40- 45), analizza come il femminismo attraverso le sue pratiche (autocoscienza, separatismo, il partire da sé) sia stata l’unica rivoluzione riuscita e non violenta del Ventesimo secolo – che ha costituito una temporalità e una genealogia simbolica per le donne. Problematizza inoltre il suo essere una rivoluzione interrotta o meglio una rivoluzione che è stata riassorbita e recuperata. Da qui l’interesse nell’analizzare come «il gesto della vagina, tutto quello che quel gesto simboleggiava è ora appannato, rimosso o strumentalizzato» (p. 45).
I due saggi di Paola Agosti, Una fotografa degli anni settanta ricorda il movimento femminista (pp. 46-51) e quello di Agnese De Donato, Fotografare per il femminismo? È stata come una liberazione (pp. 52-56) raccontano le due esperienze personali di due donne che il movimento femminista lo hanno vissuto e raccontato attraverso la loro macchina fotografica. Il saggio di Paola Agosti è un vero proprio documento storico perché riporta numerosi slogan che aveva fotografato durante le manifestazioni.
Segue il saggio di Ilaria Bussoni, co-curatrice del volume, E con un gesto le donne si inventarono il sesso (pp. 57- 66) in cui giustamente e analiticamente ritorna a Carla Lonzi, al Manifesto di Rivolta Femminile e Sputiamo su Hegel che se vogliamo, può considerarsi la madre simbolica per il femminismo italiano, così come Simone de Beauvoir lo è stata per il movimento femminista francese. Non a caso Lonzi, come giustamente ricorda Bussoni, distingue donna clitoridea e donna vaginale e all’eccedenza – per Lacan innominabile e indicibile del godimento femminile – invece dà un nome.
Scrive Bussoni: «Sesso è il segno del gesto. Nella triplice accezione del significante: parte anatomica da circoscrivere e indicare, dunque una vagina; distinzione di un genere sessuato tanto nella sua dimensione individuale quanto nella sua dimensione psichica collettiva, dunque una donna e le identità di un soggetto collettivo più ampio; attività e pratica di relazione sessuale, nel suo godimento e nella sua finalità procreativa» (p. 57).
Denso e ricco di riferimenti e analisi storiche e filosofiche, il saggio di Claire Fontaine,Gallerie da non riempire (pp. 67-76) in cui ciò che è in gioco è la politica delle donne, una politica vicina al corpo e ancora una potenza che non si trasformi in potere. «Il non politico certo non è il non ancora politico, non è un terreno da conquistare, ma è al contrario, un cunicolo che rende l’esistente pericolante restituendogli un’inattesa profondità. Il non politico mette in pericolo tutto ciò che fino ad allora si era definito appunto come politico. Potremmo dire che quel gesto che materializza un sesso che è un buco ed è anche una bocca muta, aveva scavato uno di questi cunicoli nel cuore del visibile che resta ancora da esplorare» (p. 69).
Se, come sosteneva Merleau-Ponty, l’essere al mondo o il corpo proprio, ci posizionano all’origine del linguaggio, nella misura in cui l’esercizio del corpo è espressivo e ancora «lungi dal rivaleggiare con lo spessore del mondo, quello del corpo è viceversa l’unico mezzo che io ho di andare al cuore delle cose, facendomi mondo e facendomi carne» (Il Visibile e L’invisibile), il saggio di Federica Giardini, Tra il visibile e l’invisibile, il gesto(pp. 77-81) analizza e mostra perfettamente la potenza del gesto in grado di rompere un silenzio e di lasciare una traccia, un segno. «All’inizio, il gesto. È questa soglia – il muro invisibile – su cui ristà chi è “senza parte” (Rancière, 1995), è il non ancora della partecipazione all’ordine degli scambi, sociali, redistributivi, discorsivi, ma il già dell’esserci» (p. 78).
Segue il saggio di Cristina Morini, Quel corpo sono io. Dal femminismo insegnamenti di resistenza al biopotere (pp. 82- 88).
Morini si sofferma sulla potenza sovversiva e insurrezionale del corpo, che come sottolineavamo, citandola all’inizio, non è mai neutro ma immediatamente politico. Come sostiene Judith Revel a proposito della soggettivazione, si può affermare lo stesso per il femminismo, ovvero che la soggettivazione così come il femminismo deve evitare un triplo scoglio: quello dell’identitarizzazione, quello dell’individualizzazione e quello della naturalizzazione e può farlo – afferma Morini – a condizione di ripensare la politica che non può esistere senza tenere conto della “vita”. Attentamente chiarisce che per vita non intende solamente la dimensione biologica, ma le sue condizioni di possibilità, di esistenza, con un linguaggio butleriano, diremmo la sua vivibilità.
«Se il femminismo ha svelato all’origine che il personale è politico, oggi deve rendere manifesto che il sociale sta diventando privato» (p.87).
Anna Curcio in Un gesto scabroso. Affermazione soggettiva e rifiuto di un ruolo, (pp. 89-96) in chiave materialista, ben descrive l’apporto del femminismo marxista storicamente e politicamente. Il sottotitolo scelto è fondamentale perché riassume perfettamente la posta in gioco altamente sovversiva del gesto: «congiungendo le mani a formare la vagina, le donne hanno messo in scena se stesse. Un atto di affermazione di sé che esprime al contempo il rifiuto per il ruolo sociale loro attribuito. Non siamo mogli, madri e figlie, siamo espressione della nostra autonoma e autodeterminata sessualità» e ancora «con quel gesto scabroso le donne hanno rotto la narrazione capitalista e patriarcale (perché non c’è capitalismo senza patriarcato e non c’è patriarcato senza capitalismo) che ha storicamente accompagnato i processi di stigmatizzazione e subordinazione della donna» (p. 89-90). Dettagliata è l’analisi del rifiuto del lavoro, dell’eterosessualità come regime normativo e altresì del corpo della donna quale campo di battaglia – al centro il concetto di riproduzione – per spiegare come rifiutando il ruolo riproduttivo, le donne mettono in discussione l’intera organizzazione del lavoro.
L’intervento che segue è scritto a più voci ed è fondamentale come racconto di sé che alcune partecipanti della Collettiva XXX hanno fatto a Bologna nel marzo 2013 fino al marzo 2014 a proposito di ricordi ed esperienze legate al gesto femminista. A ciascun* il suo gesto (pp. 97- 112) ben mostra la pluralità di singolarità femministe in gioco, un dialogo fra generazioni e una riflessione sul percorso di trasmissione del gesto femminista.
I quattro saggi che concludono il volume, Politiche del corpo. La rappresentazione del sesso femminile nella critica e nell’arte delle donne (pp. 113-131) di Raffaella Perna, co-curatrice, Temi di genere nelle pratiche performative delle artiste in Italia di Francesca Gallo (pp. 132- 145); L’aggettivo donna. I primi passi del cinema femminista italiano(pp. 146-154) di Alina Marazzi e l’ultimo L’estrema critica di Carla Lonzi: 1968-1978 di Vanessa Martini (pp. 155-165) hanno il grande merito di dare conto della presenza del gesto e delle varie manifestazioni femministe dal punto di vista artistico, cinematografico e critico.
Come ha attentamente analizzato Françoise Collin è prioritariamente il loro proprio corpo che le artiste hanno, a partire dagli anni Settanta, spesso messo, continuando anche oggi a metterlo in scena e in gioco – e non quello degli uomini -, come se bisognasse anzitutto sopperire alla rappresentazione fittizia che ne era stata fatta. Bisogna darlo a vedere come non è stato visto, come un corpo inciso, ferito, ma corpo-soggetto, o corpo parodico dell’oggetto che si dà a vedere e ad avere: l’altro corpo. Poiché «questo non è il mio corpo»[2].
Come se il primo gesto di libertà delle artiste fosse stato quello di andare a recuperare il proprio corpo sulla scena pubblica – dove è esibito da secoli – non per dissimularlo, nasconderlo, ma per esporlo, dentro e fuori, in tutti i suoi contorni, nella sua visibilità inappropriabile – servitù senza padrone.
Si possono comprendere così i percorsi di Gina Pane ma anche di Kiki Smith, di Ana Mendieta, di Orlan, di Nil Yalter, tra altre, necessitando ciascuna di un’analisi specifica così come si può spiegare la presenza imponente e inventiva delle donne nella creazione della nuova danza, da Yvonne Rainer a Pina Bausch o Catherine Diverres passando per Anne-Teresa De Kersmaker, attesta di questa svolta.
Raffaella Perna passa in rassegna la produzione artistica che va dagli anni Settanta fino ai nostri giorni e ciò che ne emerge è la scelta comune a molte artiste di mettere appunto al centro il corpo femminile, che si tratti dei genitali o anche, nelle varie performance, dell’esibizione di processi biologici considerati tabù come il parto, il ciclo mestruale; ciò assume ed ha il valore di gesto politico.
Ciò che emerge allora dagli ultimi interventi è che l’arte femminista come arte critica ha senso solamente quando la critica non la assorbe completamente, quando non si risolve in negazione e chiusura, ma in apertura di uno spazio possibile di fioritura per un’affermazione e una promessa. Quando invita a un rapporto che non si esaurisce nella “denuncia” ma suscita un’“enunciazione”.
Il primo imperativo di una politica femminista dell’arte è dunque di sostenere lo sviluppo, la presentazione e l’affermazione di opere di donne, non solamente sradicandole dall’oblio e riabilitando quelle che nel passato furono occultate – lavoro di storicizzazione e di memoria – ma sostenendone l’emergenza delle contemporanee attraverso un’attenzione prospettica.
Poiché l’opera di una donna è un modo d’azione: contribuisce all’elaborazione di ciò che è, e alla sua iscrizione simbolica.
L’opera è sempre un atto – e non una semplice rappresentazione. Essa rende visibile, e attraverso ciò, fa essere. Ogni opera suscita in colei/colui che l’approccia un’interrogazione, un tempo di arresto, una dislocazione del rapporto al mondo. A questo titolo, ogni opera di donna, che sia astratta o figurativa, è come tale politica – o se si vuole, come sostiene Françoise Collin, «ogni opera di donna è femminista» – nella misura in cui contribuisce alla trasformazione in termini nuovi dell’apprensione del mondo che fu secolarmente, certo umana, ma essenzialmente maschile.
Un libro da leggere e rileggere dunque, un libro che apre e non ri(n)chiude, capace di descrivere un passato rivoluzionario senza toni nostalgici e che al contempo problematizza il presente e prospetta cartografie insurrezionali, margini e spazi di lotta perché «la rivoluzione è una cosa seria. Quando ci si impegna nella lotta, deve essere per la vita» (Angela Davis).
[1] E. Dorlin, De l’usage épistémologique et politique des catégories de “sexe” et de “race” dans les études de genre, Cahiers du genre, n. 39, 2005 e K.W. Crenshaw,Cartographies des marges: intersectionalité, politique de l’identité et violences contre les femmes de couleur, Id. ibidem.
[2] Titolo del secondo numero della rivista femminista Les Cahiers du Grif, apparso nel 1974: Ceci (n’) est (pas) mon corps.