Il personale è politico. Questa fu l’illuminante intuizione delle donne che dal 1970 in poi iniziarono a riunirsi in gruppi autonomi di discussione, dando così vita ai primi collettivi femministi italiani. Asserire, infatti, che il personale è politico permise alle donne di mettere da parte il concetto di emancipazione, la cui spinta si era ormai esaurita già nel 1946 con il raggiungimento del diritto di voto, per tendere al concetto di liberazione, nel quale non c’era solo la volontà di studiare, lavorare e avere parità di salario rispetto gli uomini, ma ancor più la necessità di ridiscutere diritti civili e ruoli consolidati da secoli. In questa ottica, non solo il personale di ogni donna poteva essere raccontato in gruppi di autocoscienza, affinché l’esperienza privata fosse punto di partenza per ridiscutere la situazione politica, ma quella discussione politica poteva trovare realizzazione non solo a livello teorico, ma soprattutto a livello pratico, nella vita vera e reale di ogni donna, apportando cambiamenti sul fronte delle leggi, del diritto di famiglia ed, in ultima istanza, della qualità della vita di tutti, donne e uomini.
Le innovazioni apportate dall’approvazione del nuovo diritto di famiglia nel 1975, quali per esempio la separazione nel matrimonio tra rito religioso e rito civile, il riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio, la depenalizzazione dell’adulterio femminile, la comproprietà dei beni acquisiti dopo il matrimonio e la patria podestà riconosciuta anche alla madre, furono i primi cambiamenti profondi che il movimento femminista apportò all’assetto patriarcale della società. A questo seguirono la cancellazione dal codice penale dell’attenuante per i delitti d’onore e l’abolizione dell’obbligo per le minorenni di accettare il cosiddetto “matrimonio riparatore”, fino ad arrivare alle leggi su divorzio e aborto (e alla vittoria del NO ai successivi referendum abrogativi rispettivamente del 1974 e del 1981), alla legge su consultori e asili nido ed infine alla proposta di legge presentata nel 1980 sul riconoscimento della violenza sessuale, non più come semplice “offesa al pudore”, bensì come reato contro la persona, quindi perseguibile penalmente (salvo vederne l’approvazione solo nel 1996).
In dieci anni il femminismo italiano modifica la società patriarcale con un vento di cambiamenti travolgenti per le donne e per le famiglie. Ciò che era impensabile solo dieci anni prima si era realizzato per merito di un lungo periodo di lotte, purtroppo forse irripetibile. Talmente irripetibile da essere addirittura dimenticato. Nulla infatti si sa nello specifico delle vittorie femministe degli anni Settanta e, se escludiamo le donne che parteciparono a quel periodo di fermento, le intellettuali che ne hanno studiato il pensiero, le tante associazioni attive sul campo a difesa della donna, le adolescenti e le giovani donne degli anni Duemila in maggior parte neanche immaginano che ci sia stato un tempo in cui ad adolescenti e giovani donne come loro molto o quasi tutto di ciò che loro oggi vedono come diritto acquisito non era allora concesso non solo dal padre o dal marito, ma, cosa ben più grave, dalla legge e dallo Stato.
Il movimento femminista con l’inizio degli anni Ottanta va disgregandosi, probabilmente perché molto era stato fatto e la spinta della lotta stava venendo meno. Ma se quelle donne dal politico sono rientrate nel personale, cosa ne è stato della generazione successiva e cosa ne è o ne sarà di quelle a venire? Perché per loro (per noi) il monito del personale che diventa politico non ha avuto e non ha l’importanza che dovrebbe?
Se negli anni Settanta la spinta femminista era al suo culmine, successivamente, negli anni Ottanta e Novanta, ha prevalso un femminismo di tipo accademico, lontano dalla scena pubblica e quindi lontano dal poter creare un cambiamento reale nella vita del Paese. La strada intrapresa va verso “una disgregazione e frammentazione del soggetto collettivo femminista, che non riesce più a influenzare le scelte politiche e a mantenere un ruolo rilevante nel dibattito pubblico” (Monica Pasquino, Femminismo e femminismi dagli anni Ottanta al XXI secolo, in Identità e differenze. Introduzione agli studi delle donne e di genere, a cura di Maria Serena Sapegno, 2011).
Nella mia esperienza di vita (sono nata nel 1980) non ho trovato nelle mie coetanee la spinta verso un movimento femminista a cui in cuor mio tendevo e tendo. Ci è mancato il senso di appartenenza a quella condizione di donne che avrebbero dovuto continuare sulla strada delle loro madri e nonne per non vederci derubate di quei diritti a lungo sofferti ed oggi dati per scontati.
Le donne sono rientrate nel loro personale, senza agire più in un’ottica collettiva, ma guardando ognuna alla propria individualità. Credo che la forza del movimento femminista stesse nell’unione di donne diverse per provenienza geografica e sociale, ma unite nella loro identità di donne appunto. Negli anni Settanta l’unione tra donne era motivata forse anche dal fatto che poco avessero da perdere, ma tutto da guadagnare nel lottare per una società diversa, che le rispettasse. Oggi il senso di appartenenza è offuscato da ciò che si possiede nel proprio piccolo e le donne non sono più in grado di scendere in piazza unite.
Si dovrebbe invece fare nostro il monito del personale che si fa politico, si dovrebbe ripartire da quel punto, a mio parere.
“Non possiamo davvero pensare che ognuna debba studiare la storia delle donne prima di cominciare a parlare, ma proprio perché una rivoluzione c’è stata – l’unica riuscita del secolo scorso, a quanto pare (Touraine 2009) – oggi è sufficiente mettere a confronto non tanto o non solo ciò che una donna poteva o non poteva fare, quanto ciò che era impensabile e che è avvenuto.” (Eleonora Mineo, Il nostro futuro prossimo. Dialogo con Carla Lonzi, in Sensibili guerriere. Sulla forza femminile, 2011)
E l’impensabile è avvenuto grazie alla forza delle donne, punto di partenza di ogni decisione, mobilitazione, cambiamento.
Il concetto di forza femminile è un concetto spesso sottovalutato e quasi mai preso in considerazione, sia se si parli di forza fisica sia se si parli di forza intellettuale. Il sistema patriarcale ha attribuito alla donna unicamente il concetto di forza morale, intesa come insieme di tolleranza, pazienza, accondiscendenza e mansuetudine. Questa attribuzione è eterodiretta, proviene dall’uomo e indica il desiderio dell’uomo, cioè come l’uomo vorrebbe che la donna fosse. Ma il punto più importante della filosofia femminista è proprio in questa questione: le caratteristiche che una donna dovrebbe incarnare non devono provenire da un’attribuzione maschile, ma devono essere individuate dalle donne stesse ed è necessario che ogni singola donna possa scegliere per sé stessa ed agire in questo modo la propria identità come meglio crede e come più le è confacente. Il problema dell’identità femminile e della concretizzazione della sua forza, intesa come manifestazione di sé stessa e delle proprie inclinazioni, scelte, motivazioni e decisioni, è una questione che mi sta particolarmente a cuore. Condizionamenti culturali, violenza epistemica, aspettative su sé stesse scaturite da elementi esterni sono gli avversari contro cui combattere e il punto sta nel capire quale sia lo spazio che noi donne dobbiamo andare ad occupare per annullare la forza di tali condizionamenti e violenze simboliche. Rifacendomi all’intervento di Alessandra Chiricosta nel quinto incontro del seminario, vorrei menzionare il paragone che lei fece con le Arti Marziali: così come in un combattimento la forza che serve per annientare l’avversario deve essere misura a sé stessa, deve essere equilibrio, allo stesso modo è necessario che le donne imparino a conoscere sé stesse e le proprie caratteristiche rimanendo sempre in equilibrio, con autenticità e senza giudizio. La pratica della liberazione si può concretizzare unicamente nel momento in cui sono io, e nessun altro, ad attribuire a me stessa la forza nella quale mi identifico, la forza che mi appartiene e che mi può guidare verso lo spazio dell’autonomia libera da qualunque violenza.
Andarsi a prendere questo spazio dovrebbe essere l’obiettivo di noi donne e cercare la giusta forza per farlo dovrebbe essere l’oggetto di discussione principale: la forza che noi donne dovremmo mettere in campo è ancora la stessa che hanno messo in campo le nostre madri e nonne? Dobbiamo agirla nello stesso modo e negli stessi spazi, con le stesse modalità o dobbiamo trovare un registro diverso, solo nostro, che ci identifichi, oltre le nostre individualità, come generazione di questi anni?
“Non si tratta di smantellare quanto di prezioso è stato fatto da chi ci ha preceduto – sarebbe una sorta di matricidio rinnovato – ma noi arriviamo dopo, e a volte ci sembra che si voglia far quadrare il presente con il passato, come se i conti debbano per forza tornare. Il presente ha linee di modificazione totalmente imprevedibili, che è necessario sperimentare se si vuole avere una propria misura. L’esperienza in prima persona del presente può dare la possibilità di elaborare, prendere posizioni diverse che richiedono invenzioni di nuove pratiche, che non cancellano quelle vecchie, ma allargano il campo, aumentando la ricchezza dell’agire politico.” (Laura Colombo, La passione di esserci, in Diotima, L’ombra della madre, 2007).
Il femminismo voleva permettere alle donne di scegliere in base alle proprie inclinazioni chi essere e come esserlo ognuna per sé stessa e la responsabilità di agire in base alle proprie singole decisioni è una presa di coscienza che comporta non solo una scelta individuale, ma anche una scelta collettiva, ed è in questa scelta che dovremmo riuscire a ripartire da quella intuizione iniziale per cui “facendo dello sguardo dell’altra su di sé un’opportunità preziosa per il riconoscimento e l’affermazione della propria soggettività, si attuò una trasformazione culturale profonda nella relazionalità femminile, da vivere giorno per giorno. Facendosi politica.” (Paola Stelliferi, Il femminismo a Roma negli anni Settanta. Percorsi, esperienze e memorie dei collettivi di quartiere, 2015)