La historia establece vencedores y vencidos y sus respectivos relatos se encarnan y transmiten generación tras generación estableciendo algunas verdades a cada lado y muchas justificaciones que pervierten el sentido de los hechos. La historia contiene una verdad que funciona para quienes ha sido vencido como resorte para la conciencia colectiva.
“La storia stabilisce vincitori e vinti e le rispettive storie si incarnano e si trasmettono generazione dopo generazione stabilendo alcune verità a seconda della parte considerata e molte giustificazioni che pervertono il significato dei fatti. La storia contiene una verità che funziona, per coloro che sono stati sconfitti, come una spinta verso la coscienza collettiva”. (p. 23)
Questo saggio, che è allo stesso tempo filosofia e poesia, diario e esperienza, parla della vita e dell’opera di Gloria Anzaldúa, filosofa no bianca*, lesbica, proveniente da un mondo di sconfitte, sconfitti e sconfittu. Questa è un’esperienza in cui l’autrice, Martha Palacio, si riconosce, tra ricordi descritti e relazioni create vivendo sempre al margine o, meglio, vivendo la frontiera, come direbbe lei stessa. In questo luogo abitato da chi non risponde alla norma, in questo luogo fuori dalla storia, spazio inaspettato di chi è stata colonizzata per il colore della pelle, per il genere, il sesso, per le proprie capacità fisiche e mentali, è dove si posizionano i vinti. Dove la tradizione orale prevale su quella scritta, dove nascono resistenze e si creano ponti che connettono lo spazio di frontiera con quello centrale che segue la razionalità del sistema dominante.
Definirei la scrittura di questo testo come una scrittura creativa, emozionale e scientifica allo stesso tempo, in quanto parte dalla materia, dal corpo. L’autrice, come Gloria Anzaldúa, parte da sé, utilizzando quella che definisce la “la teoria incarnata” (p. 30) come una teoria che cerca di evidenziare il modo con cui si produce il corpo e il significato che a questo si assegna; ed è così che ciò che pensiamo, lo pensiamo con e a partire dalla carne.
Il corpo, quindi, diventa la prima frontiera che incontriamo nel divenire delle nostre vite, una frontiera che è porosa e che ospita e si mescola con le contraddizioni di questo sistema rompendone i limiti che definiscono la norma, il normale.
A partire da qui, dall’essere altro da, diventiamo consapevoli dell’esistenza della “ferita coloniale”, che contiene in sé la ferita primigenia, ossia «un trauma que te revela el desprecio de quien te llama otro» (p. 40), Questo male si converte in un trauma corporale, della carne, ossia in questa ferita che si fa materia.
Martha palacio, nella seconda parte del libro, tratta la questione della lingua e dello spazio del discorso. Quí l’Altra vive una realtá differente, una realtá che riproduce le violenze di razza e di genere. Il bilinguismo, che trasforma le parole e l’accento della lingua parlata da chi nasce dalla “parte giusta”, fa della persona “straniera” una persona ibrida. L’accettazione, conseguente alla ferita coloniale, di cui soffre l’Altra, si trasforma in quello che Anzaldúa chiama “terrorismo linguistico”, attuato da noi stesse per prime quando neghiamo la nostra lingua, il nostro accento fino ad arrivare a trasformare questo terrore in un “terrorismo intimo”, ovvero, quando avviene che il rifiuto a noi stesse si aggrava fino alla negazione delle proprie radici e della propria identitá. Ma è proprio da qui, da questa ferita che diventa frattura, che si puó rompere con la legge del potere e il suo discorso, formando resistenze di soggetti altri, nati giá “rotti”, in quanto vivono e sono la frattura che aspetta di prendere coscienza di sé con la relazione che sovverte il prestabilito, la relazione che sta fuori dal discorso, non rappresentata. In questo luogo del TRA si fa necessario un nuovo linguaggio che nasce dalla “lingua bifida”.
En el espacio del ENTRE que dejan las máscaras se crea la identidad: se reconocen las múltiples superficies que intersecan y su conexión entre ellas: el género, la raza, la clase y el status social. De allí emerge esta voz que demanda el reconocimiento del respeto y de la dignidad a pesar de encontrarse situada en «el lado incorrecto», el del Otro de la vida normal. “É nello spazio del TRA che si lasciano andare le maschere e si crea l’identità: si riconoscono le superfici multiple che si intersecano e le loro connessioni con il genere, la razza, la classe e lo stato sociale. É da qui che emerge la voce che domanda rispetto e dignità nonostante sia posizionata dalla «parte sbagliata», quella dell’Altro rispetto alla norma” (p. 74).
Discorso, corpo e materia si mescolano in questo saggio, ma il punto di vista rimane quello della carne, una carne con la quale si pensa, si suda, si soffre; una carne in continua trasformazione. In questo libro, dove si parla del vivere la frontiera, si creano ponti che attraversano ferite e rotture, dove gli opposti possiedono limiti poco definiti e diventano “altro da”. Si genera un movimento che dalla frontiera va verso il centro, attraversando lo spazio in modo imprevisto, senza permesso, in quanto il corpo rimane sempre il corpo dell’Altra marginale anche nella relazione tra legale e illegale. Questo movimento parte prima dal rifiuto e dall’odio che il peso del fenotipo da nel definire le opzioni della vita dell’Altra, per poi arrivare a un secondo movimento che avviene verso le Altre organizzate di fronte e contro lo sfruttamento del lavoro. Si crea allora un nuovo spazio del discorso, un discorso segnato da una parte da resistenza e lotte, dall’altra parte rappresentato dalla riappropriazione dell’insulto, dalla riappropriazione della lingua bífida, dalla riappropriazione e la risignificazione dello spazio politico compreso quello del corpo. Nasce l’orgoglio della ferita.
Il libro termina con un capitolo per me significativo, in linea con la scrittura del testo: «En primera persona: autohistoria». Qui si ricorda il partire da sé, ma anche il riconoscersi nell’esperienza dell’Altra, dando voce ai propri ricordi, a racconti e storie invisibilizzate dalla storia ufficiale.
Frontiera, corpo ibrido, corpo mestizo e il vivere nel TRA, risalta il molteplice político che si vive con la carne e si scrive nella carne. La teoria incarnata, che dai limiti delineati dal potere genera un movimento di trasformazione, un transito che comincia, per Martha Palacio, con l’esperienza soggettiva del dolore (p. 118) e che passa per il riconoscimento e si fa pubblico per essere, successivamente, risignificato stabilendo così una posizione distinta, una prospettiva nuova da dove è possibile costruire un ponte verso una nuova realtá: «la de la conciencia de la nueva mestiza».
Si evidenzia, quindi, l’importanza della scrittura in prima persona per il soggetto fuori dalla storia, che viene utilizzato come strumento per ridefinirsi, per creare una “auotostoria” che possa riscrivere la storia dei vinti.
Un libro fantastico, che proietta in mondi immaginari-reali, inframondi, dove c’è speranza, desiderio, dove dal dolore della ferita nasce la rEsistenza fatta di corpo e di corpi e di nuove relazioni ibride. Un libro dove ogni capitolo della parte saggistica comincia con una poesia di Gloria Anzaldùa, filosofa no bianca, lesbica, proveniente dal mondo della classe lavoratrice.
Dalla poesia alla prosa, dalla prosa al diario, dal diario al saggio filosofico, cosí Martha Palacio scrive di sé, vita connessa con la scrittura delle Altre utilizzando il filo connettore dell’arte.
The moon eclipses the sun.
La diosa lifts us.
We don the feathered mantle
and charge our fate (Anzaldúa, G. 1987, p. 99)1
*Utilizzo qui il termine ’no bianco’ per riferirmi a tutte quelle soggettività razzializzate e che non per forza si definiscono con il colore ’nero’. Bianco/nero fa parte, a mio avviso, del binarismo ideologico del linguaggio neoliberale e coloniale che provoca una falsa opposizione e uno scontro che invisibilizza una molteplicitá di soggettivitá marginali e non.
1 Poesia estratta dal libro di Martha Palacio, p. 81. “La luna eclissa il sole./ La dea ci eleva. / Vestite con manto piumato/ cambiamo il nostro destino”.