Quello che segue è lo “script” della lezione tenuta il giorno 24 Marzo 2018 a Roma Tre, nell’ambito del laboratorio Lineamenti del Master Studi e Politiche di Genere. Mi scuso in anticipo per il tono tipico del “parlato” riportato qui. Il testo vuole essere, oltre che un aiuto per gli studenti, occasioni di ulteriori scambi e approfondimenti sugli argomenti toccati.
Oggi esploreremo insieme il campo semantico e quello pragmatico di queste tre parole: maschilità, virilità e maschilismo. Cercheremo di capire in che modo, perché, in che senso queste tre parole ineriscono alla storia del pensiero di cui ci occupiamo in filosofia e dei paradigmi di cui ci occupiamo in questo master, in questo laboratorio.
Guiderò io questa ricerca: Lorenzo Gasparrini, filosofo – precisamente fenomenologo – femminista, cioè un filosofo che lavora con i metodi della fenomenologia e l’approccio femminista alla storia e alla pratica del pensiero occidentale. Questo è un master e un laboratorio: mi è parso molto onesto nei vostri confronti portarvi alla discussione quello che sto facendo, le cose su cui lavoro e che studio, affinché il nostro incontro di oggi sia insieme una esposizione – semmai le due cose si possano separare – di contenuti e di metodi.
Prima di affrontare le tre parole di cui abbiamo parlato, una premessa è necessaria.
Il posizionamento – un’altra parola – viene usata nel senso che ci interessa per la prima volta da Adrienne Rich in una conferenza in Olanda. Rich si accorge di cosa viene proiettato sul suo corpo di donna: discorsi costitutivi, identitari, simbolismi, sguardi altri che sussumono in categorie universali declinate in un generico impersonale maschile quello che universale maschile non è: il suo corpo. Che invece è un soggetto situato fonte di un senso proprio.
Quando mi pongo di fronte a voi come filosofo femminista che fa un’analisi dei fenomeni per come si presentano nella mia esperienza alla coscienza, faccio un lavoro analogo: mi pongo in una esperienza già data e la critico dalla mia situazione, ne cerco i fondamenti trascendentali. Essere-nel-mondo è tutto fuorché una condizione astratta o universale, ha innanzi tutto un genere che ne condiziona la percezione e il linguaggio, esperiti ed espressi, di cui ho coscienza nelle relazioni in quanto soggetto situato. Per esempio – non è certo una novità nella storia del pensiero – si dovrebbe cominciare con l’analisi di una relazione che si tua tutti e tutte per la prima volta: essere nati e nate da una donna.1
Cominciamo con la prima parola, maschilità. Per definizione essa è l’insieme dei caratteri fisiologici e/o tradizionali propri del maschio, del maschile. L’elemento interessante è la pretesa di tenere insieme un elemento naturale e uno storico: pretesa possibile solo attraverso l’attuazione di particolari poteri. Il potere del “normale”, metaconcetto sovrastorico e categoriale che interviene laddove la vigente caratterizzazione della maschilità è intaccata. Questo metaconcetto esiste anche nella versione opposta e complementare: l’emergenza. Stiamo parlando di eterosessismo: la normale maschilità è eterosessuale, condizionando così anche la femminilità. Lo strumento che attua questo potere è il sessismo, la discriminazione di comportamenti e di pensieri a seconda del genere.
Storicamente viene costruita una rete di relazioni che veicola poteri (discriminanti e oppressivi) che identificano una vera e propria educazione alla maschilità il cui scopo possiamo riassumere così: fare di ogni differenza una gerarchia, congelando le differenze dei corpi e delle storie di ciascuno/a soggetto/a situato/a in una gerarchia di poteri e valori nei quali il maschile eterosessuale è in cima.
La frase “la presenza nel mondo implica il porsi di un corpo che sia una cosa del mondo e un punto di vista sul mondo” potrebbe essere stata scritta da tre autori ai quali facciamo continuamente implicito riferimento: Simone De Beauvoir, Maurice Merleau-Ponty e Ludwig Wittgenstein. Quel paradosso del soggetto situato basterebbe da solo a scardinare la gerarchia di potere maschile (e ogni altra, probabilmente, in senso politico) e storicamente questo paradosso ci ricorda due momenti importanti:
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le interpretazioni storico-sociali della maschilità egemone portano alla creazione di maschilità funzionali ai nuovi ruoli di potere: il romanzo borghese nasce per soppiantare l’epopea omerica, ormai inservibile, con l’epopea del self made man (riconosciuta in anticipo dai romantici tedeschi come Fr. Schlegel che già vede nell’ironia romantica lo smascheramento di quel potere), che legge quei libri che passeranno da Erziehungsroman (romanzo pedagogico) a Bildungsroman (romanzo di formazione).
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Il corpo dei re dell’ancient regime era sacro e diverso (per molti secoli si è creduto davvero che avessero il sangue di un altro colore, il sangue blu). La ghigliottina rivoluzionaria distrugge quei corpi (e quelli della regina e quello di Olimpe de Gouges che le aveva descritto la sua oppressione) ma non quel potere che passa dal corpo di pochi a una massa, a una classe, alla borghesia del denaro.
Arriviamo alla definizione di virilità: essa è un tempo, il tempo dell’azione maschile, il tempo della maschilità nel mondo, una dinamica di esercizio del potere maschile. Avendo un inizio e una fine, essa prescrive un simbolismo iniziatico e finale per le sue manifestazioni, l’ordine simbolico fallico di cui hanno parlato tanti femminismi. Spesso ne hanno parlato come di una vera e propria teleologia nascosta ed efficace, un “grande disegno” di dominio che non è un complotto ma è il patriarcato, la forza politica e sociale che persegue il fine di perpetuare il potere con caratteristiche maschili.
Il simbolismo è quello del “successo” borghese cui sono devoti linguaggi e immaginari della comunicazione moderna, che nascono appunto negli anni di affermazione di quella classe sociale. Da filosofo però non posso non constatare che questa distorta e dispari gerarchia dei generi a vantaggio del maschile e che produce le idee di maschilità e virilità è un vero e proprio canone presente da sempre: da Aristotele a Kant non c’è filosofo occidentale minimamente importante che non abbia scritto almeno un passaggio di esplicita misoginia, di chiara oppressione del genere femminile o di esaltazione di quello maschile come “il” genere vero e proprio, l’unico e il solo in grado di pensare il mondo nel modo corretto.
Questo non vuol dire che tutta la filosofia occidentale sia da buttare via: come nella migliore tradizione dell’ecologia, dobbiamo imparare a usare gli scarti, le macerie, e non a gettare via. Judith Butler è una grande conoscitrice di Hegel e lo sa usare, pur nella cosapevolezza lonziana che c’è da sputarci sopra.
Non va mai dimenticato che lo strumento della logica duale è da sempre in azione ed è una ulteriore strumentazione del pensiero in palese contraddizione con il corpo e il soggetto situato. Questo non percepisce né significa mai due soli “stati”, due valori, ma molte più differenze. Come ricorda Merleau-Ponty con una frase finita poi in una canzone dei Tiromancino “sono le sfumature a dare vita ai colori”. E, ci ricorda il Foucault che di Merleau-Ponty aveva studiato ossessivamente ogni appunto reperibile, è il potere a produrre il sapere, e non viceversa.
Per troppi secoli il discorso filosofico è stato a una voce sola. Sono un filosofo femminista da quando ascolto e provo a mettere in pratica ciò che arriva da quest’altra voce, che mi fa riconoscere tante cose prodotte da quell’unico monologo precedente:
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l’onnipresenza dei dispositivi sessisti nella lingua, nel linguaggio e nei comportamenti;
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l’ipocrita “crisi del maschile” con il quale si appella la reazione sociale alla perdita di potere di un genere, educato a non vedere in quella perdita nuove libertà possibili;
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l’altrettanto ipocrita “ritorno alla natura” (idea storica anch’essa) e a una “selvatichezza” maschile che sarebbe la salvezza di tutti e tutte;
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il “divide et impera” politico con il quale si cerca di tenere divisi femminismi e femministe/i attraverso l’uso strumentale di divisioni di potere.
In una parola, quella voce sola è maschilismo.
Per questo nessuna delle relazioni di potere agite o veicolate dal maschilismo è simmetrica, ma sempre gerarchica; il primo inganno ancora tanto creduto è che il maschilismo sia il contrario del femminismo, ossia la stessa “ideologia” ma agita dagli uomini. Basterebbe l’esperienza biografica di Angela Davis, poco tempo fa ospite qui a Roma Tre, per raccontare come sia possibile che uomini neri, attivisti comunisti negli USA degli anni ‘70 – immaginate quindi a quante e quali forze oppressive dovessero fronteggiare – riuscissero a essere schietti e sinceri maschilisti nei confronti delle compagne di lotta come lei. Neanche la comunanza dei tanti razzismi subiti, delle persecuzioni sociali vissute insieme, era capace di scalfire la gerarchia tra generi instaurata, al di là del colore della pelle e delle sofferenze politiche, dal patriarcato vigente.
Della paradossale situazione del soggetto situato soffrono anche le discipline di cui stiamo parlando. Abbiamo cioè discipline con un oggetto, e abbiamo questo oggetto che diviene soggetto e pone interrogativi alle altre discipline. In questo senso i femminismi sono antidoti al potere che crea maschilità oppressive, virilità, maschilismo. Gli esempi della letteratura comparata e della filosofia interculturale hanno già dimostrato come funzionano discipline “a più voci” che rendono fecondi quei paradossi dei soggetti incarnati, invece di zittirli o di “astrarli” in concetti universali vuoti e disponibili per i poteri vigenti.
Se n’è accorta anche la filosofia da quando concede sempre più spazio alla letteratura e alla sua consustanziale ironia: per tutto il ‘900 fior di filosofi lasciano la parola a romanzieri/e, a poeti/esse.2
Il campo semantico e pragmatico di quelle tre parole va quindi pacificamente permeato di discorsi che ne sgretolino il potere monocratico e monocorde a partire dalle esperienze critiche dei soggetti situati. E’ quello che già fa, da almeno due secoli, tanto femminismo. Tra cui, per una piccolissima frazione, il vostro filosofo femminista che vi ringrazia.
1 Provenendo da studi di estetica, mi è familiare il paradosso di un soggetto situato che è anche un oggetto situato come accade nello studio della bellezza come fenomeno né oggettivo né soggettivo ma di relazione; un tipico studio fenomenologico che non può porsi senza posizionamento.
2 Intreccio ben documentato, ad esempio, nell’estetica di Emilio Garroni.