di Cinzia Arruzza
L’ultimo libro della filosofa statunitense è un corpo a corpo con il femminismo della seconda ondata. E una proposta teorica per sviluppare una critica alle «politiche dell’identità» e alle misure redistributive condotte in nome della parità di genere. Il titolo dell’ultimo libro di Nancy Fraser, pubblicato dalla casa editrice inglese Verso, riassume bene l’intento dell’autrice di ricostruire e discutere criticamente la traiettoria controversa del femminismo della seconda ondata, quello diffusosi a partire dagli anni Sessanta negli Stati Uniti: Fortunes of Feminism. From State-Managed Capitalism to Neoliberal Crisis. «Fortune» è un termine polisemico che indica sia il destino che la buona fortuna o il successo. E in effetti l’obiettivo che si propone l’autrice è per l’appunto quello di analizzare sia la buona sorte del femminismo della seconda ondata, dalla sua affermazione accademica alla sua capacità di trasformare pratiche, discorsi e linguaggi, sia il suo paradossale destino, quello di aver accompagnato e per certi versi involontariamente legittimato il passaggio da un capitalismo regolato dallo stato nazione al capitalismo neoliberista.
Fortunes of Feminism è una raccolta di saggi scritti tra il 1985 e il 2012, che dà il senso non solo della traiettoria storica del femminismo della seconda ondata, ma anche del percorso intellettuale dell’autrice. Nancy Fraser è una delle voci più note e autorevoli della teoria femminista americana. Il suo lavoro teorico è caratterizzato dal tentativo di combinare insieme, in maniera non eclettica, parte della tradizione della teoria critica francofortese, aspetti del post-strutturalismo francese e delle sue intepretazioni in ambito statunitense, e infine elementi derivanti dalla critica marxiana dell’economia politica e dal femminismo marxista. A partire da questa prospettiva, Fraser si è confrontata a più riprese con alcune delle maggiori teoriche femministe americane. Si possono vedere, ad esempio, il volume pubblicato nel 1994 dalla casa editrice Routledge,Feminist Contentions, contenente uno scambio filosofico tra Judith Butler, Nancy Fraser, Seyla Benhabib e Drucilla Cornell sul tema del rapporto tra femminismo e postmodernismo, o il dibattito con Judith Butler sulla relazione tra genere, sessualità e capitalismo, pubblicato sulle pagine della «New Left Review» a metà degli anni Novanta.
Una giustizia bifocale
La riflessione di Fraser sulle tematiche di genere è stata profondamente influenzata dalle sue elaborazioni sul concetto di giustizia e sulle sue differenti accezioni. In effetti, Fraser è stata una delle maggiori protagoniste del dibattito su ridistribuzione e riconoscimento all’interno della teoria critica. In Justice Interruptus(1997) e in Redistribution or Recognition? (2003), scritto insieme ad Axel Honneth, Fraser ha sviluppato una concezione «bifocale» o «bidimensionale» della giustizia, in risposta al divorzio tra politiche dell’identità di genere e politiche di classe. Giustizia è un concetto complesso e non univoco, che deve contenere almeno due dimensioni principali. Una relativa a quella che Fraser chiama «ridistribuzione», vale a dire la struttura economica di una società, la sua dimensione di classe, le istituzioni che regolano il lavoro e la sua divisione sociale, l’accesso alle risorse, ai servizi e al welfare. Un’altra relativa al «riconoscimento», categoria hegeliana tornata in auge nella teoria critica e femminista degli ultimi decenni, dove viene generalmente adoperata per indicare l’atto del «riconoscere» e dunque rispettare lo status, i diritti, l’identità e la differenza di un’altra persona. La nozione di riconoscimento ha giocato un ruolo fondamentale, ad esempio, all’interno dei movimenti di liberazione Lgbtq, delle teorie della differenza sessuale e dei discorsi sul multiculturalismo.
Nella declinazione data da Fraser del riconoscimento non si tratterebbe tanto di riconoscere una differenza, che rischierebbe in tal modo di essere reificata, quanto di riconoscere uno status sociale. Nel caso della politica di genere, ad esempio, non si tratterebbe di rivendicare il riconoscimento di una differenza sessuale e di una conseguente identità femminile ossificata e destoricizzata, ma piuttosto il riconoscimento dello status sociale delle donne come membri in senso pieno della società, capaci di partecipare alle interazioni sociali su un terreno di parità.
L’arido economicismo
La scommessa di Fraser è che un approccio «bifocale» alla concezione della giustizia permetterebbe di identificare la relativa autonomia di queste due distinte dimensioni, senza pertanto operare delle riduzioni dell’una all’altra o senza considerare l’una un mero epifenomeno dell’altra. Il riconoscimento dell’esistenza e relativa indipendenza di queste due dimensioni della giustizia, infatti, darebbe una risposta al problema irrisolto del superamento del modello caro a parte della tradizione marxista della «struttura» e della «sovrastruttura». Allo stesso tempo, una considerazione della giustizia come pluridimensionale consentirebbe di individuare anche gli intrecci e le interconnessioni tra queste diverse dimensioni. Per quanto le due dimensioni del riconoscimento e della ridistribuzione siano relativamente indipendenti, infatti, esse contribuiscono entrambe alla riproduzione della società capitalistica. Inoltre, fenomeni quali diseguaglianza economica, sessismo e razzismo sono sempre caratterizzati da entrambe le forme di ingiustizia. Per questo motivo, una politica di ridistribuzione separata da quella di riconoscimento e viceversa rappresentano due approcci inadeguati ai fini di una significativa trasformazione sociale. Due approcci che finiscono col riprodurre un economicismo monco e un culturalismo altrettanto monco. Le relazioni causali tra le due dimensioni e la loro relazione con la riproduzione della società capitalista nel suo complesso richiederebbero un supplemento di elaborazione teorica, per evitare di cadere nuovamente precisamente nella teoria dualista che Fraser vuole evitare.
Recentemente, Fraser ha rivisto e integrato la sua precedente concezione «bifocale», al fine di aggiungere un’ulteriore dimensione della giustizia, e dell’ingiustizia: quella della rappresentanza. Per rappresentanza va inteso l’insieme di istituzioni, norme e procedure che stabiliscono a livello politico quali siano i confini dell’agire politico, chi è incluso e chi è escluso da una determinata comunità sociale e politica, e infine quali processi di contestazione pubblica siano accettati e quali no. Si tratta di una dimensione ormai divenuta centrale a seguito della globalizzazione neoliberista e della crisi di quella che Fraser definisce come la cornice «keynesiana-westfaliana», vale a dire della cornice dello stato nazione come ambito privilegiato delle politiche economiche e di riconoscimento e della loro contestazione.
È alla luce di queste elaborazioni che vanno letti i saggi contenuti inFortunes of Feminism. Per quanto redatti in un arco temporale di più di venti anni, all’interno del volume i saggi sono organizzati in uno schema coerente, definito da Fraser come un «dramma in tre atti». Il dramma è per l’appunto quello del femminismo della seconda ondata. Nel primo atto, scrive Fraser, «le femministe si sono unite ad altre correnti radicali, facendo esplodere un immaginario socialdemocratico che aveva occultato l’ingiustizia di genere e tecnicizzato la politica». Con il declino delle energie utopiche e radicali degli esordi, il femminismo della seconda ondata è stato attratto nell’orbita di una politica centrata sull’identità ed è entrato in una fase caratterizzata dalla svolta dalla «ridistribuzione al riconoscimento», in direzione di un politica culturale basata sulla valorizzazione della «differenza». Il terzo atto del dramma è quello che si sta svolgendo oggi, aperto dalla crisi del neoliberismo, che, facendo esplodere le contraddizioni economiche in tutta la loro asprezza, ha riaperto la possibilità di un ritorno e di un ripensamento di una politica e di una teoria femminista radicali, capaci di combinare le diverse dimensioni della giustizia.
Fallimenti paralleli
Il contenuto dei saggi raccolti nel volume è apparentemente disparato: si spazia dalla critica di genere della teoria sociale critica di Habermas a una genealogia del concetto di dipendenza nel dibattito sul welfare-state statunitense; da un’analisi critica degli usi e abusi di Lacan nella teoria femminista a una discussione su una possibile riformulazione femminista del pensiero di Polanyi. Questa varietà di contenuti, tuttavia, si combina con una coerenza teorica di fondo e con due fili conduttori principali. Il primo, già menzionato, concerne l’elaborazione di un concetto di giustizia di genere, alla luce di una concezione multidimensionale di giustizia più in generale. Differenti teorie femministe e proposte programmatiche (dal salario per le casalinghe al pieno impiego femminile) vengono, dunque, tutte analizzate e sottoposte al test della giustizia: che tipo di giustizia di genere queste teorie e proposte permettono di realizzare? Quali aspetti rimangono insoddisfacenti o del tutto trascurati? Il secondo filo conduttore ha invece a che vedere con la dimensione più propriamente politica dell’agire collettivo. Quali proposte e teorie consentono e facilitano alleanze tra le lotte? Quali contengono in sé elementi trasformativi, contestatori e emancipatori e potenzialità di sovvertire l’ordine sociale mediante l’agire collettivo?
L’astuzia della storia
Da questo punto di vista sia le teorie della differenza che la identity politics falliscono entrambi i test. Entrambe non riescono a dar conto della complessità delle identità sociali, della loro instabilità e soprattutto del modo in cui si trasformano mediante le pratiche, le esperienze e l’agire collettivo. Entrambe, inoltre, hanno contribuito alla svolta in direzione del femminismo culturale. Questo ha agevolato la cooptazione di discorsi provenienti dal femminismo all’interno del nuovo ordine sociale capitalista. Per una sorta di «astuzia della storia», la diffusione di atteggiamenti culturali generatisi all’interno del femminismo della seconda ondata è divenuta parte costitutiva di un’altra trasformazione, che quel femminismo non aveva né anticipato né voluto: la trasformazione dell’organizzazione sociale capitalista postbellica. In altre parole, alcuni degli assi centrali del femminismo della seconda ondata, l’antieconomicismo, l’antiandrocentrismo,l’antistatalismo, per citarne alcuni, sono stati soggetti a un processo di risignificazione che li ha trasformati in elementi di legittimazione ideologica del nuovo ordine neoliberista. Questo, tuttavia, è stato solo il secondo atto del dramma e, come già accennato, il terzo atto è già cominciato e oggi, come scrive Fraser, «è il momento in cui le femministe dovrebbero pensare in grande». Questo è il terzo atto a cui Fortunes of Feminism vuole dare un contributo.
(il manifesto, 9 agosto 2013)