di Rossella Caleca
Sono tornata nella casa al mare, la casa della mia infanzia. Sola, e non in estate ma quando non è ancora primavera, per fuggire il contagio di un male imprevisto. Per un soggetto a rischio come me venire qui è sembrata la soluzione migliore, qui sarò al sicuro. Avrò molto tempo per leggere, per pensare. Quando invece la mia vita quotidiana solitamente scorre come un film muto dai movimenti accelerati, in giornate debordanti di impegni e contatti. Resisterò al fermo immagine? Eppure non mi dispiace del tutto, stare in un tempo sospeso. E se fosse il tempo il vero rifugio?
Ho esplorato la casa e il giardino. Fatico a riconoscere gli oggetti legati alle vacanze, recano l’impronta di giorni affollati, sembra che mi tendano agguati. Ci sono tanti vecchi libri che non aprivo da tanto, li sfoglio, in quelli sì, mi riconosco. Il giardino è diventato una selva. Introvabile un giardiniere, ho cominciato a curarlo io, ma non strapperò nulla, guardo il trifoglio invadente tra palme nane e strelitzie e mi piace così; ritrovo l’odore di terra e di foglie, dove è più umido immergo le mani. La sera parlo coi miei via computer, le relazioni diventano un verbo senza carne; dei corpi si avverte un’acuta necessità, ma sembra che tra i volti disincarnati passi un’essenzialità necessaria, una nuova più autentica comunicazione. E se è divenuta pericolosa la vicinanza di altri corpi umani, la distanza sta cambiando il modo in cui percepisco il mio corpo, lo spazio in cui si muove, i suoi confini. Come se andasse oltre l’epidermide.
Il bel tempo mi minaccia: cielo sereno, mare vicino. E’ proibitissimo uscire per ragioni non legate alla sopravvivenza, ma ho deciso di trasgredire; così aspetto l’ora, dopo pranzo, in cui anche i rari passanti scompaiono, per ritrovare la scorciatoia che dalle case vuote porta all’estremità della spiaggia, tagliata dall’ultimo tratto di un fiume smagrito che forma là un piccolo estuario. I miei piedi ritrovano una sabbia soffice, montata in piccole dune ai limiti del canneto che segue le sponde. Mi piaceva questo posto, dove le acque dolci si mischiano con le salate, quando gli scarichi selvaggi non l’avevano ancora inquinato, assieme al passaggio di campeggiatori e vari frequentatori crepuscolari. Ora però l’acqua tra le dune è tornata limpida. Possibile siano bastate poche settimane di assenza umana per cancellare il danno? Adesso sembra un luogo in trasformazione, pronto ad accogliere un mondo diverso.
Arriva aprile, e non voglio perdere questa primavera. Scendo in spiaggia ogni pomeriggio, resto fino a sera, indisturbata. La sabbia pullula di vita vegetale e animale che sembra volersi riprendere tutto lo spazio negato, intrecciandosi in nuove trame, e di questo tessuto anch’io sono parte. Con le gambe immerse nell’acqua verde pallido, la schiena appoggiata a una duna, sento il calore planare su di me e osservo: una mantide prega sotto un ciuffo d’erba, una gazza si alza in volo dalle canne, coleotteri metallici seguono dritti la loro via. La mantide mi guarda, mi affiora alle labbra il suo nome in dialetto: “signa”; che significa anche scimmia. Perché? L’altro nome della gazza invece ha un’origine chiara: “carcarazza”; basta sentirla ridere. Un esserino lucido metà lucertola e metà serpente mi fa saltare in aria sgusciando tra i sassi per scomparire rapido: un “tiraciatu”! Mi torna alla mente il nome antico del piccolo rettile, temuto dalle madri che credevano si avvicinasse alle culle dei neonati per bere il latte dalle loro labbra. E le “scuzzarìe”, tartarughe d’acqua: viste da ragazzina, poi mai più. Sono tornate, due, orgogliose coi piccoli puntini gialli sul guscio scuro, più vivi sulle zampe. Chissà se hanno deposto le uova. Intorno, spuntano dalla sabbia ciuffi di foglie eleganti con lunghi steli al centro, conclusi in boccioli grandi, quasi baccelli. Ma di questa pianta non ricordo il nome. Perchè ricordo ora questi nomi, queste storie? Una possibile risposta: è come se quest’espansione biologica trascinasse con sé dal fondo del tempo rapporti dimenticati tra le specie, e li rimettesse al mondo, in nuove articolazioni che mi coinvolgono.
Oggi una sorpresa: un ramarro si è fermato a guardarmi, a lungo, di tra i cespugli. Ha la gola di uno smagliante azzurro, in contrasto col verde smeraldo del corpo; incarna il suo nome dimenticato: “guardalòmo”. Poi, fulmineo, sguscia via: penso che sia il suo tempo dell’amore. Sono amore i corpi che si trasformano anziché separarsi e dissolversi, che divengono insieme in un farsi comune, in un abbraccio libero, un abbraccio che si sceglie. E questo luogo di contatto, di nuove connessioni è un arazzo che anch’io sto tessendo, di tanti colori quante le specie che si annodano.
Ho scoperto, cercando al computer e nei vecchi libri in casa, che le piante dai grandi boccioli si chiamano gigli di mare: ho un ricordo vago delle fioriture bianche, li credevo anch’essi sterminati. Invece ora sbucano dappertutto con la forza del loro nome antico, “pancrazio”. Un mito greco li vuole nati da alcune gocce del latte della dea Hera, cadute sulla sabbia; sembra che siano loro le bibliche rose di Sharon, citate nel Cantico dei Cantici. Per tutti i popoli del Mediterraneo erano piante magiche, dalle molte proprietà curative; sono capaci di diffondersi affidando i semi alle onde del mare. Chi sa quando sbocceranno.
Maggio. Dicono che tra poco si tornerà a circolare liberamente. Invece di esserne contenta, ho paura. Il mio mondo-rifugio tra le dune, comparso dal nulla, sarà facilmente distrutto, potrebbe sparire in un giorno. Insetti e animali saranno messi in fuga o calpestati, i gigli macinati dalla macchina per pulire la spiaggia, nel vuoto di due linee parallele. Proprio ora che, in anticipo, alcuni fiori bianchi e delicati avevano cominciato ad aprirsi, distendendo sei lunghe dita intorno al calice interno. E ho anche scoperto una pianta più folta delle altre, sul margine del fiume, in un punto in cui sembra essersi concentrato il brulichìo animale, con baccelli grandi e traslucidi come uova. Almeno questa, la vorrei salvare.
Ho trovato un altro rifugio per il giglio più grande, in fondo al mio giardino-selva, tra un hibiscus in piena esplosione rossa e alti ciuffi di papiri: un angolo umido, nascosto. Lì preparo il terreno mischiandolo con sabbia. Se potessi ristabilire qui un riparo per tutto il groviglio di vite cresciute in questo tempo! All’imbrunire, munita di tutto l’occorrente, come una ladra mi avvio verso le dune. Con grande cautela, scalzo il terreno sabbioso, scopro i bulbi, li sollevo con delicatezza badando a non fargli male. Lo porto via con me.
Due giorni al “liberi tutti”. Il giglio si è acclimatato. I baccelli traslucidi splendono sotto la luna. Ho preso l’abitudine di venire qui la sera e restare fino a notte fonda. Mi raggomitolo e immergo le dita nell’humus, ferma a godermi i profumi e cercare di discernere i suoni che attraversano la terra, gli schiocchi, i fruscii, i passaggi leggeri dei viventi, il richiamo tenue delle lucciole femmine che ho scoperte in attesa. Stanotte anche dal giglio viene, appena percettibile, un ticchiettìo a intervalli.
I baccelli sembrano pulsare in lievi movimenti regolari.
All’alba il primo si schiude: tra le dita bianche compare una membrana mobile, opalina; a poco a poco si apre su una pupilla stretta in un’iride verde.