di Liana Borghi
Una versione di queste note, letta come introduzione al convegno del 27-29 settembre 2019 del Giardino dei Ciliegi, è postata sul sito www.ilgiardinodeiciliegi.firenze.it dove si trovano anche le osservazioni di Clotilde Barbarulli e mie sul percorso che ci ha portate a riproporre il tema del Dominio. Poiché alcuni temi condivisi in autunno con le partecipanti al Master sulle Politiche di Genere di Roma Tre diretto da Federica Giardini, e con le organizzatrici del Modulo Arti – Ilenia Caleo e Isabella Pinto -, e del Modulo Scienze (Bologna) – Angela Balzano – sono confluiti in questo testo, lo condivido ringraziando.
Power is what I like best in the world.
The struggle is everyday not to use it [1]
Caryl Churchill, A Mouthful of Birds, 3.
Questo convegno ha preso forma, per così dire, dalla necessità di tradurre la parola inglese “mastery” nel saggio Unthinking Mastery. Dehumanism and Decolonial Entanglements (Duke 2017) — un concetto che l’autrice canadese Julietta Singh situa su una soglia material-semiotica, tra materia e narrazione, analizzando il rapporto tra potere e dominio in espressioni quali violenza, violenza epistemica condivisa, l’assenso/dissenso al potere, il rapporto tra etica morale e dover essere. Singh si chiede come contrastare potere e dominio, come resistere, come sottrarsi – anche attraverso il fallimento, l‘insuccesso, la disfatta, la rinuncia, il dissenso, o whatever: cioè attraverso qualsiasi altra performance possibile o immaginabile che indaghi disaffezioni, sottrazioni, dis-identificazioni, de-oggettivazioni utili a resistere e contrastare il dominio dell’umano – temi spesso affrontati al Giardino, che ogni volta si ripresentano.
Così, per un riconoscimento genealogico nostro, oltre che linguistico – perché mastery deriva dal francese maitrise, traducibile con dominio, controllo, padronanza, maestria, maestranza, competenza, ambiti del fare e del sapere – “dominio” è rimasto nel titolo del convegno includendo ogni forma di dominazione. Nel cerchio vuoto/pieno usato come immagine del nostro convegno, i progetti strategici di classi dominanti emergono insieme ad altre possibili definizioni di situazioni, nodi, emergenze in un tempo-spazio che non è solo la nostra esperienza di vita e di realtà. Dato che in matematica il dominio “è l’insieme su cui è definita la funzione, ossia l’insieme di partenza sui cui elementi ha senso valutare la funzione”,[2] ci sembra che la funzione di questo convegno possa essere quella di condividere la proposizione di creare un campo di forze potenzialmente avventurose e speculative per produrre (e non solo ri-produrre) domande (e non solo risposte).
E perché performatività? Come sappiamo, il concetto di performatività è parte della teoria degli atti di locuzione di J.L. Austin (le parole posso fare cose; la comunicazione è un’azione), teoria rivista da Jacques Derrida (1972/1988; come qualità del linguaggio) ed applicata al genere da Judith Butler dal 1990 (in quanto apparato che produce attraverso l’iterazione la differenza sessuale all’interno del sistema eteronormativo). Possiamo definire la performatività sia una qualità del linguaggio che viene messo in atto dal corpo, sia uno stile non verbale della carne; una pratica discorsiva che si trasforma in un fare con complesse applicazioni e concatenazioni materiali non ristrette all’ambito sociale: una pratica corporea e socioculturale.[3] Rispetto al dominio, la performatività definisce un processo attivo, dialettico e continuo di dominazione che costruisce discorsivamente individui, società, beni e natura. Nell’ottica transdiscipinare della performatività, il dominio può essere considerato la citazione coatta di norme che si replicano nella reiterazione a largo raggio, individualmente, socio-culturalmente, e politicamente, attraverso tecniche di interpellazione, riconoscimento e identificazione.
Inoltre, nella riflessione di Ilenia Caleo su come non ridurre la categoria di performance e di performativo entro un’agibilità solo linguistica o epistemologica, le diverse figurazioni attive nel pensiero materialista femminista offrono una possibile revisione generativa della performatività, “una potente contro-teoria della rappresentazione” capace di attraversare simultaneamente l’estetico e il politico[4]. Nella rielaborazione materialista e post-umana della filosofa Karen Barad (2007-2018), la performatività riguarda la struttura profonda del mondo; il modo in cui si performa l’intra-attività agenziale di tutta la materia. Barad la usa come “reticolo di diffrazione per leggere in modo incrociato alcuni importanti concetti provenienti dagli studi femministi, queer e scientifici”; la usa come tecnica per destabilizzare i confini tra discorso e materia, tra umano e nonumano; la usa per interrogare il carattere discorsivo e descrittivo di certe entità — come può essere il caso della parola “dominio”, figura di un processo multidirezionale che opera attraverso pratiche material-discorsive, come anche affettività, disciplina e controllo.
In quest’ottica quindi anche il dominio partecipa alla riconfigurazione materiale del mondo attraverso pratiche materiali e discorsive, apparati di produzione corporea e fenomeni. La performatività riguarda il modo in cui il dominio consiste nelle pratiche che lo creano e nelle soggettività incarnate che produce, il modo in cui si manifesta, rivela, performa, applica, dispensa, trasmette, riproduce, archivia e perpetua i meccanismi e i dispositivi di potere; riguarda la sua mobilità e ubiquità: in luoghi, pratiche corporee, confini, limiti, occupazioni, parole, tecnologie digitali e informatiche; riguarda l’ambito degli affetti: la definizione e istituzionalizzazione dei rapporti tra umani e non; sesso e genere; comportamenti sociali; violenza, razzismo, maschilità e femminilità; riguarda le teorizzazioni del dominio di ogni genere e tempo, che condizionano il dis/pensare e il de/costruire la nostra implicazione nei dispositivi egemonici che ci riguardano, situano, controllano, ingenerano e ri/producono. Evidenza della performatività di un cattivo uso del dominio è l’antropocene.
Nel linguaggio politico anarchico, il termine ‘dominio’ indica il paradigma che governa rapporti micro e macro-politici e serve come concetto generico per vari aspetti coercitivi del sistema sociale — che controllano, sfruttano, umiliano, discriminano, ecc., persone e gruppi – le cui dinamiche gli anarchici cercano di scoprire, sfidare ed erodere, associandole sempre al discorso della resistenza.[5] Nell’analitica di Foucault (1982), sebbene il potere non coincida con il dominio, “il biopotere costruisce corpi, desideri e modalità della vita… attraverso un’organizzazione reticolare, un campo relazionale molteplice ed eterogeneo” dove il sapere è un modo per sorvegliare, assoggettare e controllare.[6] Lavorando sulla scia delle società disciplinari di Foucault, Deleuze definisce un nuovo regime di dominazione chiamato società del controllo che “non dovrà solamente affrontare la sparizione delle frontiere ma le esplosioni delle bidonville e dei ghetti”: una società rizomatica e anti-struttura che ormai conosciamo intimamente, un liberismo super-produttivo dove vigono molteplicità e non-organizzazione, e dove la sorveglianza telematica invade ogni realtà, raccogliendo informazioni che trasforma in algoritmi:[7] una prevista “informatica del dominio”.
Il concetto di habitus nel saggio sul Dominio maschile di Bourdieu riguarda la generale ottemperanza volontaria che regge lo status quo (per noi “eteropatriarcale”) e si costruisce imponendo con violenza epistemica e simbolica disposizioni sociali arbitrarie ma legittimate, che somatizzano i rapporti sociali del dominio maschile sotto forma di schemi di percezione e di disposizioni che strutturano il consenso. “Inscritto nelle cose, l’ordine maschile si inscrive anche nei corpi attraverso le ingiunzioni tacite che la routine delle divisioni del lavoro o dei riti, collettivi o privati, comportano”, scrive.[8]
Lo scrittore attivista uruguaiano Raúl Zibechi condivide l’analisi del dominio maschile sulle donne con l’antropologa e femminista argentina Rita Segato. Si tratta di un “mandato di mascolinità” che consiste nell’obbligo, per gli uomini, di dover provare di essere maschi, di possedere forza e potere fisico, intellettuale, economico, bellico. Il mandato di mascolinità si traduce così in mandato di violenza, parte costitutiva del dominio che si estende alla guerra contro i popoli:
una guerra coloniale per appropriarsi dei beni comuni, il che presuppone l’azzeramento di quelle parti di umanità che si oppongono al furto di quei beni, sia perché ci vivono sopra, sia perché oppongono resistenza alla spoliazione, o semplicemente perché ‘avanzano’, nel senso che non sono necessari all’accumulazione di ricchezza[9].
Ma nel “Manifesto in quattro temi”, Segato pone l’ordine patriarcale basato sul genere come “fondamento e centro di gravità di ogni forma di potere, cemento e pedagogia di violenza …, e misoginia omofobica e transfobica della tarda modernità”. Sintomo della sfrenata espansione del patriarcato nella sua nuova forma di dominio e controllo sulla vita è la ‘pedagogia della crudeltà’ a cui accennava Clotilde Barbarulli nell’intervento al nostro convegno sul DE (2018), usata da Segato per descrivere le modalità di rifeudalizzazione degli spazi comuni in Sud America, tra cui il “femigenocidio” e lo stupro.
Studi femministi hanno molto discusso sul patriarcato come causa prima o come concausa dell’oppressione delle donne [Valerie Solanas, Monique Wittig, Schulamith Firestone, Audre Lorde, tra tante…], spesso criticandone la presunta universalità e ubiquità (per Butler si tratta piuttosto di un insieme di poteri disciplinari e regolatori). Il femminismo radicale ha analizzato soprattutto l’obbligatorietà dell’eterosessualità nei sistemi patriarcali. Per Monique Wittig l’eterosessualità obbligata è un regime politico, e nel queer di Eve Sedgwick l’omofobia è un divieto strutturale del regime eteropatriarcale (3). Anche Federico Zappino, nel suo libro più recente, ci invita a lottare compatt* contro il regime sociale eterosessuale fondato sul dominio, “un modo di produzione” di disuguaglianze, di uomini e donne (26, 29).
Julietta Singh, cerca rimedi sia al fatto che il dominio è ovunque, sia alla tentazione di smantellarlo attraverso facili inversioni binarie che purtroppo producono altre forme di dominio — anticoloniale rispetto al coloniale, per esempio — e ricorda che sebbene per Frantz Fanon la violenza contro il potere sia necessaria, mentre per Gandhi è essenziale la nonviolenza per fare emergere un soggetto veramente libero, la loro critica al dominio coloniale non ha evitato di produrre nuovi soggetti dominatori; ha solo invertito il binarismo dominante-dominato (Singh: 24).
Ma l’habitus sovranista va contrastato, magari attraverso una lettura vulnerabile dell’umanità, nell’ottica di quelli che vengono esclusi dall’appartenenza, usando una metodologia erede di formulazioni decostruttive cruciali, come l’epistemologia della liberazione della filosofa giamaicana Sylvia Wynter, con la sua distinzione tra umano e Uomo, e con il concetto di “solidarietà deumanista”. Il deumanismo secondo Singh, si propone di togliere all’umano il suo primato usando “una pratica di recupero per strappare via le fondamenta violente (sempre strutturali e ideologiche) del dominio coloniale e neocoloniale che continua a rendere alcuni più umani degli altri” (Singh: 17). Per poter leggere altrimenti l’umanismo e “portare il postumano in conversazione critica con il decoloniale”, Singh si affida – e non è sola — all’utopico deumanesimo queer di José Esteban Muñoz, al suo desiderio di “toccare l’inumanità” (209) dove un soggetto non Umano, deumanizzato, sottratto al fare-mondo imperiale, può decostruire l’Uomo, immaginare altrimenti, e produrre a sua volta nuove agentività con altre modalità di spossessare l’umano che è in noi. [10]
Anche la ricerca post-qualitativa del neomaterialismo e del post-umanesimo contesta il dominio antropocentrico, il cui progetto di controllare e mercificare ogni forma di vita – persino il codice genetico è un capitale – sta avendo gli effetti nefasti che conosciamo. Il privilegio umano del sapere criticato da Bourdieu – e situato, soggiogato, limitato al punto di vista anche da scienziate femministe – deve essere drasticamente riconsiderato: è necessario tornare a un realismo critico e speculativo, materiale, interdisciplinare, correlazionista in ascolto di oggetti non-umani, macchine, materia. La ricerca non rappresentazionale[11] lavora non sul primato dominante del soggetto umano sull’oggetto, ma sulla corrispondenza con ogni forma di materia, analizzando i dati in base a differenze non gerarchiche, usando metodi performativi che intra-agiscono con il mondo; cercando risposte a domande, problemi, interventi anche individuali.
Per Donna Haraway è necessario riconoscere una giustizia multispecie e la necessità del pensiero tentacolare (Chthulucene) che oltrepassa il letale discorso antropocentrico.
La terra… contiene una miriade di temporalità, spazialità e miriadi di entità-assemblaggi intra-attive — incluso l’oltre-umano, altr-umano, inumano e umano-come-humus. Un modo per vivere e morire bene come esseri mortali nello Chthulucene è unire le forze per ricostruire rifugi, rendere possibile il recupero e la ricomposizione parziale e solida, biologico-culturale-politico-tecnologica, che contenga il lutto per perdite irrecuperabili.[12]
Ma “l’imperialismo umano non riconosce il nostro incapsulamento in un assemblaggio natural-cultural-tecnologico” – non riconosce, come dice Jane Bennett,[13] i nostri raggruppamenti fatti di elementi diversi e di materia vibrante, né riconosce – come hanno spiegato Donna Haraway e Karen Barad – che l’efficacia vitale della nostra agentività dipende dal potere di fare differenze che creano differenza. Eppure è ovvio che siamo parte di un massiccio e complesso assemblaggio di materia viva e interconnessa, sorgente di un vitalismo fatto di energia materiale e del “potere delle cose” (matter-energy, thing-power). L’agentività è sempre un assemblaggio, le parole sono attanti, le cose esercitano il loro potere su di noi, e in un assemblaggio la componente individuale non possiede sovranità. Dato che l’imperialismo umano col suo motto “asso piglia tutto” provoca la distruzione ecologica, è necessario rifiutare il primato antropologico, afferma Bruno Latour; dobbiamo rendere le persone responsabili dei loro effetti letali sulle infrastrutture ambientali.
Non lontana da questa posizione, la politologa femminista Françoise Vergès, originaria dell’isola di Riunione nell’Oceano Indiano, che ora vive in Francia occupandosi attivamente del Femminismo Nero, osserva però che le teorie dell’Antropocene non tengono conto di come la distribuzione della catastrofe climatica si colleghi a razzismo e imperialismo. “Dobbiamo rinnovare i modi di raccontare l’alienazione e la violenza inscritte nelle relazioni strategiche del potere e della produzione dalla modernità”, dice, e si chiede:
Quale metodologia è necessaria per scrivere una storia dell’ambiente che includa la schiavitù, l’imperialismo e il capitalismo razziale dal punto di vista di quelli che sono stati resi oggetti di commercio “a basso costo”, i loro corpi oggetti rinnovabili attraverso guerre, cattura, schiavitù, fabbricati come gente usa-e-getta, la cui vita non importa?[14]
Il Femminismo Nero, sia quello Nord-Americano sia quello europeo,[15] ritorna sempre a quell’apparato coloniale di violenza totale che è il dominio schiavista dove, secondo la critica afroamericana Hortense Spillers, il corpo nero non aveva genere. Al grado zero di concettualizzazione sociale, prima del “corpo” viene la “carne”, oggetto di scambio e mercato, e quindi la carne di una femmina nera non ha genere (66). Poiché nel mandato egemonico del dominio l’ordine simbolico è impegnato a mantenere la supremazia della razza e la legalità dell’ordine famigliare bianco, nel sanzionato traffico di corpi femminili “nudi e crudi” non c’è posto per la significazione e rappresentazione del genere – così come nelle narrative delle navi negriere non c’è posto per la contro-narrativa della domesticità socialmente collegata alla donna bianca del colonialismo. Ma c’è anche una forma di dominio epistemico a cui bisogna resistere, scrivono Akwugo Emejulu e Francesca Sobande dai punti di vista di immigrate inglesi:
Le donne Nere in Europa devono lottare per la nostra umanità e simultaneamente negoziare i discorsi delle politiche intersezionali di razza e genere del dominante femminismo Nero nord-americano che rendono difficile nominare e agire in base alle nostre particolari esperienze di razza, genere e classe in un contesto europeo (4-5).
In uno degli eventi organizzati tra New York e Parigi dal collettivo americano Sojourner,[16] che ha il progetto di teorizzare su circostanze e pericoli della Nerezza e sulla vulnerabilità dei corpi Neri, alcune studiose — tra cui cito solo Françoise Vergès, Rizvana Bradlley, Gayatri Spivak, Tina Campt, Saidiya Hartman, Christina Sharpe e Denise Da Silva — si confrontano sul nuovo soggetto decoloniale del Futurismo Nero: su come confrontare l’anti-Nerezza/l’anti-Blackness; ripensare il mondo a partire dal Nero per fomentare una controrivoluzione globale che non chieda emancipazione ma che dia libertà. Intrecciano cronologie per mostrare come la razza continui a essere l’apparato etico-giuridico congegnato per garantire all’impero libero accesso a risorse, corpi e terre; la colonialità continua a essere presente in ogni aspetto del capitalismo.
La storica dell’arte Rizvana Bradley confronta il disagio che anche lei sente verso la bianchezza e verso un ordine sociale dominante dove si usano precarietà e violenza per screditare la soggettività dei non bianchi rendendoli illeggibili e invisibili. Alla ricerca di registri affettivi capaci di cogliere la temporalità della Nerezza, Bradley e le altre si ricollegano al saggio del 2016 di un’altra studiosa presente, la canadese Christina Sharpe, In the Wake. On Blackness and Being, [Nella scia: sulla Nerezza e l’essere]. Wake in inglese indica sia la scia della nave sia la veglia funebre. La nave, cronotopo dell’Atlantico Nero nello studio canonico di Paul Gilroy, è il loro oggetto paradigmatico: un simbolo di salvezza e pericolo, mezzo di trasporto per i passaggi transnazionali, gli attraversamenti mediterranei e oceanici, per migrazioni ed esilio, accumulazione di capitale, e commercio di schiavi che costituiscono ciascuno un capitale industriale. Il saggio di Sharpe è dedicato all’ “ortografia”, alla teoria e metodo di lettura della scia funesta lasciata dal trasporto in schiavitù, e al trauma continuamente sofferto dai sopravvissuti. Attraverso la “semiotica della nave negriera” Sharpe evoca le imbarcazioni storiche e contemporanee che hanno partecipato alla soggiogazione, allo sfruttamento e all’assassinio di persone Nere. Il passaggio in mare nelle imbarcazioni è un evento che per la sua ricorrenza dimostra la non linearità del tempo, scandisce una storia stratificata nel cumulo dei secoli, una storia dove la speranza di un nuovo comunismo comunitario si riduce al trasporto del capitale globale e alla morte.[17]
Anche per la filosofa afrobrasiliana Denise Ferreira Da Silva l’elemento paradigmatico fondamentale del nostro tempo sono i corpi persi in mare, il passato di schiavi e i genocidi che in un omogeneo entanglement temporale collegano i nostri migranti mediterranei con gli schiavi trasportati sull’Atlantico nero. Da Silva cita la mostra di un artista inglese molto noto, Hew Locke — figlio di uno scultore guyanese e di una pittrice inglese, nato in Scozia e cresciuto in Guyana – la cui installazione del 2016 a New York, titolata The Wine Dark Sea [Il mare colore del vino] mostra 34 barche e navi sospese per creare una flottiglia a livello degli spettatori. Prendendo il titolo dall’Odissea di Omero, il lavoro di Locke coinvolge imbarcazioni storiche e contemporanee come simbolo sia di speranza e prosperità che di oppressione e povertà. La sua istallazione si rivolge a visitatori per i quali migrazione e dislocamento hanno radici profonde nella storia di famiglia.
Per Denise Da Silva,[18] la razza è “il più importante concetto etico-giuridico del presente globale” (2016) attraverso il quale la logica del dominio costruisce le interfacce multiple di corpi, istituzioni, ambiente, natura. Muovendosi nell’ambito del neo-materialismo, e attingendo alla meccanica quantistica, Da Silva esamina quelli che considera i tre presupposti lineari del dominio coloniale: presupposti fondamentali della grammatica razziale moderna — separazione, determinazione e sequenzialità che si traducono in identità, nazione, etnia, genere. A questo “mondo ordinato” della colonizzazione neoliberista globale, Da Silva contrappone la visione di un “mondo correlato” animato dal pensiero posizionale, frattalico e poetico del futurismo Nero – dove il termine “poethico” riassume l’entanglement di poetica, etica e politica; mentre il termine “frattalico” sta per immanente, scalare, abbondante, indeterminato: una composizione contingente e complessa di singolarità intrecciate. Sta per una poethica femminista Nera che si occupa della materia grezza, cruda, quella materia che è stata appropriata (estratta, violata) ma non del tutto obliterata, … simile alla “carne” di Hortense Spillers. Questa Cosa, cruda e grezza in quanto referente dell’indeterminazione quantica (∞ − ∞), oppure in quanto materia prima, afferma la capacità della Nerezza di liberare l’immaginazione dal pugno del soggetto bianco e delle sue forme. Ma si tratta solo di un inizio per un pensiero capace di contemplare insieme virtualità e attualità.
Un altro testo di Da Silva mi ha fatto ripensare al discorso, ricorrente e condiviso nel Futurismo Nero, sulla costruzione di corpi, ambiente e natura da parte dei poteri dominanti.
In un saggio intitolato “Corpus infinitum”, Da Silva commenta una mostra e un film di Carlos Motta, artista di New York con origini colombiane, che si occupa di comunità e identità marginali. In Portogallo, facendo ricerca in resoconti ufficiali, Motta scopre negli archivi dell’Inquisizione, il processo del 1731 a uno schiavo nero sodomita. Questo soggetto imprevisto scompagina il filo dei discorsi dell’architettura giuridica ecclesiastica che produce soggetti razziali, coloniali, religiosi, ma non un’analisi intrecciata di sessualità e razza che definisca il corpo di un subalterno sessuale. José Francisco Pereira disturba la continuità storica e discorsiva della costruzione coerente di chi la Santa Inquisizione prevede possa essere condannato a morte, quindi Pereira non morirà come schiavo nero sodomita, ma infine morirà come eretico, perché possiede un sacchetto di amuleti (bolsas de mandinga), considerati non reperti antropologici, ma strumenti diabolici.
Le riflessioni di Motta e Da Silva sulla costruzione dei corpi nella storia mi ricollegano alla mostra 3x3x6, allestita per la biennale di Venezia di quest’anno al Palazzo delle Prigioni (dove Casanova fu rinchiuso nel 1755—il processo a Pereira è del 1731). L’istallazione su quattro stanze è stata creata dall’artista multimediale Shu Lea Cheang — originaria di Taiwan che vive a Parigi — in collaborazione con il filosofo spagnolo Paul B. Preciado. Si tratta di una installazione a interfacce multiple; di una narrativa trans-cronologica sulla costruzione e normalizzazione della soggettività sessuale da parte di regimi che hanno usato e usano tecnologie di confinamento e controllo, in transizione da una società organica e industriale a una società informatica e polimorfa con nuovi sistemi di dominio e con architetture disciplinari che qui vanno dal Panopticon, carcere progettato dai fratelli Bentham nel 1786, fino agli onnipresenti sistemi di sorveglianza high tech della società contemporanea — nei casi di prigionia per non conformità di genere, sesso e razza tra cui Casanova (ai Piombi nel 1755), de Sade (32 anni in carcere ma alla Bastiglia nel 1785), e Foucault (incarcerato in Polonia nel 1959).[19]
Questa scansione temporale dell’identità di genere mi riporta a chiudere con la domanda di Gayatri Spivak al discorso inaugurale dell’Academy of Unlearning (Vienna 2017): “Che ore sono all’orologio del mondo?”
La visione del tempo sovrapposto delle migrazioni ricorrente nel Futurismo Nero, richiama le osservazioni di Karen Barad sull’etica dell’ entanglement e i nostri obblighi verso il passato-futuro considerando la natura unilineare del tempo (251/265)[20], un dominio spettrale dove vita e morte convivono e si manifestano entangled, inseparabili – dove il “golden spike”, il chiodo d’oro che congiunge il mondo nel 1492 convive con tutte le storie intrecciate del colonialismo, dentro l’apocalisse nucleare e le condizioni climatiche del capitalocene collegate al progresso tecnologico e alla globalizzazione neoliberista. Nella scala della materia e nella scala del tempo, passato e presente non si possono separare. Per Barad il mondo funziona sotto il dominio dell’orologio atomico, “il suo tempo è sincronizzato a un futuro Senza Futuro” – quello della dissoluzione. L’imperialismo è un progetto primo-mondista totalizzante e universalista, eppure una pratica materiale collegata al complesso industriale-materiale — la fisica quantistica — potrebbe offrire speranze di cambiamento dentro i sistemi egemonici di dominio, inquietando la totalità e la chiusura attraverso l’indeterminazione. Potrebbe—
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[1] Trad: Il potere è cosa mi piace di più al mondo/la lotta per non usarlo ogni giorno. [2] https://www.youmath.it/…funzioni… [3] Douglas Robinson, Performative Linguistics: Speaking and Translating as Doing Things with Words. Routledge, London 2003. [4] Ilenia Caleo, “Dentro le turbolenze espressive della materia”, Bodymetrics. La misura dei corpi. Quaderno1, Natura/cultura/ artificio, a cura di EcoPol/Ilenia Caleo, IAPh Italia, Roma 2018, on line. [5] Uri Gordon, Anarchy Alive! Pluto Press, London 2008: 32. [6] Cito la lettura di Foucault di Filippo Domenicali, “Come si esercita il potere?” alla conferenza tenuta a Genova il 19/12/12. Vedi http// www.ladeleuziana.org › 2014/05/29. [7] Gilles Deleuze, “La società del controllo”, L’autre journal 1, maggio 1990; Diletta Huyskes, “Oggi viviamo nella società del controllo. Deleuze l’aveva previsto vent’anni fa” https://thevision.com/cultura/deleuze-societa-del-controllo/ [8] Pierre Bourdieu, Il dominio maschile (1998), trad. it. Alessandro Serra, Milano, Feltrinelli, 2009: 45-46; Antonio Di Stefano, Una micro-teoria del potere: Pierre Bourdieu tra etnografia, cultura e relazionalità, Rubbettino, 2013. [9] Raúl Zibechi, “Demolire il mandato di mascolinità” 19 Giugno 2019. Vedi lo scambio con Rita Segato, antropologa e femminista argentina, la quale sostiene che il “mandato di mascolinità” consiste nell’obbligo, per gli uomini, di dover provare di essere maschi, dimostrando forza e potere: fisico, intellettuale, economico, bellico. Il mandato di mascolinità si traduce così in mandato di violenza (ndt). Di Rita Laura Segato vedi “A Manifesto in Four Thenes”, trad. Ramsey McGlazer, Critical Times 1/1, 2018 <eronomade.info>. [10] Denise Ferreira da Silva, “Before Man: Sylvia Wynter’s Rewriting of the Modern Episteme” in Sylvia Wynter: On Being Human as Praxis, a cura di Katherine McKittrick, Duke UP, 2015. [11] Le geografie non-rappresentazionali descrivono quello che avviene, gli aspetti pre-cognitivi della vita corporea, gli affetti e l’efficacia performativa dei nostri rapporti concreti con il mondo. Vedi Federica Timeto, “Diffracting the rays of technoscience: a situated critique of representation”, Poiesis & Praxis, 8(2-3) dicembre 2011: 151–167. [12] Donna Haraway “Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin”, Environmental Humanities, vol. 6, 2015, pp. 159-165; trad. it. di Antonia Anna Ferrante, “Antropocene, Capitalocene, Piantagionocene, Chthulucene: Fare Parenti”, su <www.globalproject.info> il 10/5/18. [13] Jane Bennett, “There force of Things” (2004): 361; v. Blogs. Cornell.edu; vedi Eurozine: Bennett e Klaus Loenhart; vedi Vibrant Matter: a political ecology of things, Duke UP, Durham and London 2010. Vedi anche Guoyu Sun, “theagency-of-assemblagesvibrant-matter-by-janebennett <blogs.cornell.edu>. [14] Françoise Vergès “Is the Anthropocene racial?” in Racial Capitalocene, 30 August 2017 da Futures of Black Radicalism, a cura di Gaye Theresa Johnson and Alex Lubin, Verso, Londra 2017. [15] Vedi To Exist is To Resist. Black Feminism in Europe, a cura di Akwugo Emejulu e Francesca Sobande, Pluto Press, London 2019. [16] Il collettivo “Praticare il rifiuto” (The Practicing Refusal Collective) viene creato nell’ottobre 2015 da Tina Campt e Saidiya Hartman per iniziare un dialogo sull’anti-nerezza nel ventunesimo secolo. Ora è un Gruppo di lavoro sponsorizzato dal Barnard Center for Research on Women. Esploriamo i nostri presupposti critico-teorici dei tre anni scorsi riflettendo sul rifiuto come pratica critica utile a trattare la precarietà, la fungibilità (intercambiabilità), e il futuro della nerezza. Il nostro tema è l’anti-blackness globale. [17] Visualizing Refusal: A Conversation with Tina Campt and Rizvana Bradley. The Sojourner Project: Dialogues on Black Precarity, Fungibility, and Futurity a Parigi, 30-31/10, 2018 (Ultimo aggiornamento in data 22/12/2018). [18] Denise Ferreira Da Silva insegna alla University of British Columbia, Vancouver dove dirige l’Institute for Gender, Race, Sexuality and Social Justice,. Per le sue pubblicazioni vedi la bibliografia. [19] Shu Lea Cheang e Paul B. Preciado, Costruzione della soggettività sessuale e tecnologie di controllo, 28 luglio 2019 di REDAZIONE <alfabeta2.it> [20] Karen Barad, “Troubling time/s and ecologies of nothingness: re-turning, re-membering, and facing the incalculable” new formations: a journal of culture/theory/ politics, 92.05.2017: 56-86.