Ripensare il concetto di emancipazione può servire a superare due luoghi comuni: che l’emancipazione femminile sia un processo storico del passato, e soprattutto concluso, e che sia un’eredità che riceviamo dalla generazione precedente, per cui oggi siamo tutte donne libere. Di contro, emancipazione può significare un modo attuale di fare politica, ma anche dare concetti di pratiche politiche utili; è istituire un diritto dove regna la forza (1), è critica al dispositivo giuridico del patriarcato (2), è capire quali sono le condizioni materiali necessarie alla partecipazione politica (3), infine è vigilanza per rendere effettivo un diritto (4).
Il concetto di emancipazione generalmente si ritrova quando si descrivono tutte quelle lotte politiche che si possono interpretare come lotte per la parità dei diritti civili: diritto di voto e uguaglianza davanti alla legge, insieme con l’accesso all’istruzione e alle professioni. E queste rivendicazioni, che si ritrovano anche nelle lotte per l’abolizione della schiavitù in America o per la tolleranza delle minoranze religiose in Europa, definiscono anche l’emancipazione femminile.
Emancipazione s. f. [dal lat. emancipatio –onis; v. emancipare]. – L’azione e l’effetto dell’emancipare, dell’emanciparsi, dell’essere emancipato: e. degli schiavi, dei servi della gleba, delle donne; chiedere, concedere, ottenere l’e.; e. da una schiavitù, dalla tirannide, da una soggezione, dalla tradizione. Ma, oltre l’uso moderno del termine nella teoria politica, che appunto descrive il fine di una lotta politica per la parità dei diritti civili, emancipazione rimanda anche a una pratica del diritto romano.
Presso i Romani emancipare indica l’atto solenne con il quale il padre di famiglia davanti al magistrato e cinque testimoni fingeva di vendere per tre volte il figlio a un altro pater familias e questi ogni volta lo poneva in libertà, solo la terza volta lo rivendeva al genitore che lo dichiarava “libero dalla patria potestà”. Nel diritto contemporaneo emancipare significa invece mettere un minore di 21 anni nelle condizioni di liberamente amministrare le sostanze che gli appartengono. E-mancipium, significa trarre fuori, uscire dalla proprietà, dal dominio.
Perciò, in questo intervento vorrei presentare alcune leggi intorno alle quali, in pratica, i movimenti delle donne hanno lavorato incessantemente dalla Rivoluzione Francese agli anni ’80 del ‘900. E vi dico gli anni ’80 perché una cosa che mi ha colpito molto è stata che soltanto nel 1981 è stato abrogato l’art. 544 del Codice Penale sul matrimonio riparatore. Nello stesso anno venne anche abolito il delitto d’onore, nonostante anche oggi nell’informazione giornalistica si possono ritrovare codificazioni narrative che continuano a usare “moventi passionali” per gli omicidi, proprio “moventi” che fino al 1981 depenalizzavano l’omicidio. Queste forme di giustificazione dell’omicidio prevedevano ad esempio che quando un uomo commetteva, nei confronti di una donna nubile e illibata, stupro o violenza carnale punibile con la pena prevista dall’art. 519 e segg. del codice penale, onde evitare il processo o al fine di far cessare la pena detentiva inflitta, poteva offrire alla ragazza il matrimonio riparatore facendo così cessare ogni effetto penale e sociale del suo delitto.
Lo stupratore, affinché potesse fruire del beneficio di legge, doveva offrire il matrimonio alla ragazza addossandosi altresì tutte le spese della cerimonia e senza poter pretendere alcuna dote. Se la ragazza rifiutava la riparazione offerta subiva il disprezzo sociale, e presumibilmente non si sarebbe più sposata. Tale usanza è stata legalmente abolita attraverso la modifica dell’art. 544 del codice penale (art. 1 L. 5/8/1981 n°442). La prima donna italiana a ribellarsi pubblicamente al matrimonio riparatore è stata la siciliana Franca Viola nel 1966, rifiutandosi di sposare il suo rapitore e stupratore.
Un altro motivo per cui l’emancipazione femminile va compresa non semplicemente come il movimento per il diritto di voto, ma come una pratica politica di vigilanza e ribellione alle leggi è che le lotte delle donne per partecipare alla vita dei partiti e agli uffici pubblici, cominciano con la Rivoluzione Francese, ma di fatto riescono a sostituirsi al diritto patriarcale solo negli anni ’80, quando dopo il decennio degli anni ’70 trovano compimento un secolo e mezzo di lotte. E questo compimento in Italia passa per alcune vittorie fondamentali che cambiano i rapporti giuridici tra uomini e donne rispetto a tre nodi principali: prostituzione, lavoro e suffragio.
1958, approvazione legge Merlin per la chiusura dei bordelli di Stato
1970, legge Fortuna-Baslini che consente il divorzio
1974, referendum abrogativo legge sul divorzio, vince il NO
1977, leggi di tutela (parità salariale sul lavoro e congedo parentale esteso agli uomini)
1978, approvazione legge 194, sull’interruzione di gravidanza
1981, abolizione matrimonio riparatore/delitto d’onore
E queste fin dall’inizio erano anche le rivendicazioni delle “suffragette” dell’Ottocento, chiamate “prima ondata” del movimento femminista, a cui ne sono seguite almeno altre due. La seconda ondata è il femminismo della liberazione degli anni ’70. La terza sarebbe il neofemminismo attuale.
Se ci fermiamo a pensare un po’ sul fatto che nei libri di scuola l’emancipazione femminile viene descritta come quel movimento per il voto alle donne, nascono subito contraddizioni:
- Perché allora ci sarebbero state altre ondate del femminismo dopo aver raggiunto l’uguaglianza giuridica?
- E soprattutto che bisogno ci sarebbe stato di fare altre lotte per i diritti civili, quando la Repubblica Italiana li aveva già riconosciuti? (decreto luogotenenziale del 1 febbraio 1945). Che bisogno ci sarebbe stato di ricostituire il movimento femminista, o semplicemente di organizzare lotte insieme alle altre donne, se la parità giuridica dei sessi era stata già garantita dalla Costituzione Italiana?
La mia proposta quindi è che emancipazione non indichi solo il movimento delle suffragette o la lotta per il diritto di voto. Questa delimitazione nasce proprio negli anni ’70 quando un movimento nuovo di donne, per differenziare le proprie lotte da rivendicazioni solo giuridiche, definiscono sé stesse “femminismo della liberazione” e chiamano “emancipazioniste” quelle donne che si limitavano ad agire con gli strumenti dello Stato di diritto e le sue istituzioni.
Infatti, se andiamo a leggere gli scritti ad esempio di Anna Maria Mozzoni, che è stata tra le prime femministe del Regno d’Italia e ha scritto e fatto politica quindi tra 1867 e i primi anni del ‘900, Mozzoni parlava di liberazione proprio per dire che le donne dovevano avere il diritto di voto, insieme a tutte le altre libertà fondamentali del diritto borghese, “per potersi emancipare” dalla loro condizione di inferiorità morale. Mozzoni quindi, nell’ottica della liberazione degli anni ’70, era emancipazionista perché riconosceva tutti quegli argomenti che venivano posti contro il voto alle donne, come il fatto che le donne fossero più ignoranti degli uomini, salvo poi impedire l’accesso all’istruzione superiore perché donne; oppure che fossero più labili nei giudizi, influenzabili da mariti, preti, tutori; o che non potessero votare perché non disponevano di un reddito capace di garantire libertà di scelta e quindi erano facilmente ricattabili. Tutti questi argomenti, l’ignoranza, la variabilità del giudizio e la povertà, per Mozzoni erano fatti reali, che impedivano la partecipazione delle donne alla politica e che bisognava risolvere modificando le leggi, ma soprattutto creando nuove istituzioni, anzi come dice lei: “la liberazione della donna significa istituire un diritto dove regna la forza”. (A. M. Mozzoni, vd. Bibliografia Lineamenti)
Con questa definizione allora, facciamo un passo in avanti. Il nostro primo concetto di emancipazione non si contrappone alla liberazione, come un percorso interiore o extraparlamentare si oppongono alla politica in Parlamento. L’emancipazione, così come la intendeva Mozzoni, è liberazione dalla schiavitù nel senso peculiare di istituire un diritto dove regna la forza.
E questo concetto è attualissimo. Perché sia nelle nostre vite, che nell’informazione ci troviamo molto spesso di fronte a situazioni in cui non basta chiedere un riconoscimento di diritti, o forse non c’interessa proprio chiedere qualcosa a qualcuno, che spesso è proprio chi esercita questa forza contro di noi. Noi non vogliamo chiedere, o chiedere che ci sia concesso un diritto, noi vogliamo istituire un diritto dove regna la forza. E questo significa creare relazioni sociali in cui questo diritto già si esercita. Creare luoghi dove le relazioni tra le persone siano già diverse dal regno della forza. Solo così possiamo poi sperare che lo Stato o il Governo riconoscano la nostra situazione come legale.
Vi faccio l’esempio del diritto di famiglia, oggi io convivo con altre quattro persone con cui non sono sposata. Bene, se io non sono in casa nessuno (in teoria) può fare una voltura della fornitura elettrica, o chiedere l’intervento dell’amministratore se mi esplode la caldaia, solo mio marito (in teoria) potrebbe farlo. Questo perché in Italia il matrimonio è l’unica forma di convivenza riconosciuta dalla legge. Ma questo non significa che io non convivo con le persone che mi scelgo perché non è legale! Lo faccio lo stesso! E cerco di interessarmi ai PACS, ad esempio, non tanto perché gli omosessuali e le omosessuali possano aspirare alla famiglia mononucleare, questo a me non interessa, a me interessa che il matrimonio non sia più l’unica forma di vita familiare socialmente riconosciuta.
In questo caso, per usare ancora Mozzoni, regna ancora la forza. Certo i miei problemi non sono quelli di Mozzoni, io non devo occupare le biblioteche per consultare un libro, o chiedere una delega di mio padre, come Virginia Woolf. Ma la forza che ancora regna sta nel fatto che il legame di sangue resta ancora l’unica forma di vita possibile. E questo ha conseguenze non solo per la mia caldaia e le mie volture, ma anche nell’immigrazione, in cui lo ius sanguinis è l’unica forma di accesso alla cittadinanza. E questa è la forza di un diritto specifico, il diritto del patriarcato. A questo diritto, se pensiamo nella cornice dell’emancipazione ne va sostituito un altro. E ora vediamo come definire questo diritto del patriarcato.
Fonti. Codice Civile del Regno d’Italia (dal 1 gennaio 1866)
Dopo aver definito emancipazione come l’atto d’istituire un diritto dove regna la forza, il nostro secondo concetto che scaturisce dalla critica del femminismo della liberazione alle emancipazioniste è che l’emancipazione sia lotta al “patriarcato”.
Il patriarcato è un sistema d’istituzioni e codici di comportamento fondato sull’identificazione del valore di una donna con il ruolo che le donne hanno nella riproduzione della specie. Patriarcato quindi è fondare il valore di qualcuno o di qualcuna nella sua capacità, o meno, di riprodurre la specie.
Ci tengo molto a questa seconda definizione perché è da qui che il mio percorso di riflessione è cominciato qualche anno fa. Nella mia esperienza, infatti, mi trovavo a vivere una profonda sessualizzazione dei comportamenti. Ridere con un maschio, guardare qualcuno negli occhi per strada o sull’autobus, accettare di prendere un caffè, sono stati comportamenti che io ritenevo “normali”, cioè che non significavano accettare un rapporto sessuale. Ma l’altra parte non era tanto d’accordo. Primo pensiero: è colpa mia. Ho riso troppo, ho guardato troppo, ho bevuto troppo caffè? Per molto tempo ho pensato di sì e ho cercato di controllare molto “la confidenza” che davo agli estranei. Oppure: Perché esiste questo coito che si svolge come una fecondazione mancata e non mi dà alcun piacere? E perché è così diverso da quello che io vorrei sentire, sentire tutto il corpo come una cosa intera? Così alla fine godevo del fatto che l’altro potesse godere. Ma questo è giusto? Mi fa felice? Ma soprattutto è dignitoso, onorevole, mi dà potenza o mi riduce a una funzione gregaria?
Ho aperto questa parentesi per dimostrarvi che almeno nella mia esperienza, il codice di comportamento che trasforma il mio corpo in sesso, cioè sessualizza i miei comportamenti, trasforma anche la mia energia e i miei desideri, anzi li riduce alla funzione riproduttiva. Ma, aggiungo subito, che funzione riproduttiva non significa solo la gravidanza, ma tutto quello che serve a riprodurre la specie, cioè la cura del cibo, dei vestiti, della tana di ogni animale umano. O anche dei suoi rapporti sociali, come i regali di Natale, i biglietti dei funerali, le visite di cortesia.
Al di là del modo in cui il dispositivo del patriarcato agisce sul mio corpo e ne articola i desideri, in genere quando poniamo la questione di cosa sia l’emancipazione femminile abbiamo visto che occorre fare i conti con due pregiudizi: il primo era che la politica femminista fosse solo quella per il diritto di voto. In questo c’è anche una parte di verità, perché a partire dalla lotta per il diritto di voto troviamo gli scritti politici delle donne che definiscono il funzionamento del patriarcato oppure che, come nel caso della socialista Anna Kuliscioff, mettono a punto proposte di legge che i loro compagni avrebbero discusso in Parlamento. E queste proposte riguardano il diritto di voto, ma anche altri due nodi essenziali almeno nel dibattito italiano: la prostituzione, con tutto quello che implicavano i bordelli di Stato, e le leggi di tutela, cioè misure sulla parità nel lavoro che, come vi dicevo, sarà raggiunta solo nel ’77 quando anche ai maschi sarà riconosciuto il congedo parentale. Questo per dire che l’emancipazione non riguarda solo i diritti delle donne. Essa diventa effettiva solo quando riconosce diritti anche agli uomini. E uomo non significa qui soggetto universale della storia, come si afferma dall’umanesimo in poi. Uomo significa maschio.
Il primo documento che smaschera questa finzione che uomo significa proprio tutti e tutte noi è la Dichiarazione universale dei diritti della donna e della cittadina di Olympe de Gouge. (vd. Bibliografia Lineamenti). Questo documento fa vedere benissimo tutta la truffa dei diritti universali, che erano chiamati universali, ma riguardavano solo i cittadini maschi. Il secondo documento che vorrei citare, facendo un salto in avanti nella cronologia, è Il monopolio dell’uomo di Anna Kuliscioff (vd. Bibliografia Lineamenti). In questo testo infatti si vede come l’emancipazione sia anche la rivendicazione di parità salariale (quello che oggi viene chiamato “il tetto di cristallo”, il fatto cioè che a parità di titoli e istruzione gli uomini, cioè i maschi, accedano ai piani alti più facilmente delle donne, per considerazioni economiche del datore di lavoro, come: mi tocca pagare la maternità, si assenta dal lavoro per stare dietro alla famiglia..etc.).
In ogni caso, fino allo Statuto dei lavoratori del 1970 erano proprio i contratti di lavoro a prevedere il salario femminile come “integrativo” a quello del capofamiglia. Oltre che alla parità salariale, tra Otto e Novecento, Kuliscioff lavorava alla riforma del diritto di famiglia, con l’abolizione della patria potestà, e dando vita al dibattito sulle cosiddette “leggi di tutela”, infine approvate nel 1902 con estreme limitazioni al disegno di legge iniziale. Erano misure che dovevano tutelare le condizioni di salute di donne e bambini nei luoghi di lavoro. Le restrizioni riguardavano ancora una volta il fatto che quello che era più semplice da far passare nell’opinione pubblica era la difesa del potere procreativo delle donne, piuttosto che il riconoscimento di un salario a chi lavorava in casa, spesso a cottimo o semplicemente a chi lavorava per la specie allevando i figli.
Quindi, emancipazione non è solo parità dei diritti civili, ma nelle rivendicazioni socialiste è anche parità di condizioni materiali. E il lavoro di cura per Kuliscioff diventa un lavoro non pagato. Ricapitolando: emancipazione è istituzione di un diritto dove regna la forza; è lotta al sistema giuridico e ai codici comportamentali del patriarcato; è lotta per ottenere le condizioni materiali necessarie a prendere parte alla politica.
Con questo direi che abbiamo sconfitto il pregiudizio che l’emancipazione sia un movimento politico del passato legato al diritto di voto alle donne. Emancipazione può essere un concetto e una pratica politica. Il secondo pregiudizio era l’idea che la lotta per l’emancipazione delle donne sia stata vinta e che i diritti guadagnati negli anni ’70 abbiano garantito un’uguaglianza che oggi ci rende tutte donne libere.
Questo secondo pregiudizio è più profondo. Perché significa metterci in discussione, capire in che cosa i nostri comportamenti sono autoritari e oppressivi, ma anche smettere di pensarci come eredi della generazione precedente e questa dell’eredità è una rappresentazione culturale molto forte. Ma nei testamenti e nei passaggi di proprietà non ci sono i diritti! Una volta che una generazione ha vinto una lotta politica, i diritti guadagnati sono effettivi proprio perché c’è la lotta a sostenerli, a vigilare, a fare da spina nel fianco del potere. Ma quando questa generazione poi scompare i diritti possono facilmente diventare ineffettivi. come accade ad esempio nella incredibile quantità di obiettori di coscienza che di fatto rendono ineffettivo il diritto all’assistenza medica nell’interruzione volontaria di gravidanza.
La cosa buffa è che a un certo punto ho scoperto che questa visione della storia in cui i diritti si trasmettono da una generazione all’altra per un fenomeno naturale, o mitico, direi per Grazia Divina è proprio una visione cristiana della storia. Non solo è una visione cristiana, ma è anche secolarizzata, cioè assunta nella filosofia laica attraverso il sistema hegeliano e poi l’ottimismo del partito comunista ed è addirittura migrata nella visione scientista della storia sotto forma d’ideale del progresso scientifico.
(Nel caso del progresso scientifico, però, questa idea della storia orientata verso il meglio può avere anche le sue ragioni, ma solo da un punto di vista quantitativo, come processi di riduzione dell’errore nella misurazione dei fenomeni. Qui l’ultima conoscenza acquisita, è quantitativamente più accurata e quindi qualitativamente migliore). Ma nelle scienze sociali e soprattutto nelle nostre vite, non c’è alcuna necessità di credere che il futuro sia migliore del passato, e che tutta la società e i suoi processi cognitivi vadano verso il meglio. Questa idea della storia orientata verso il bene è appunto quel principio cristiano di manifestazione del divino nella storia umana che solo alla fine, con il Giudizio Universale darà compimento alla storia.
Il fatto che nel cristianesimo la divinità si manifesti nella storia ha un effetto particolare sul modo in cui noi concepiamo la tradizione. Questo modo in cui la tradizione ci arriva si potrebbe riassumere con un aforisma di Bernardo di Chartres (morto tra il 1124 e il 1130): “Siamo come dei nani seduti sulle spalle dei giganti. Vediamo quindi un numero di cose maggiore degli antichi, e più lontane, non per la penetrazione della nostra vista o per l’elevatezza della nostra statura, ma perché essi ci sollevano e c’innalzano di tutta la loro gigantesca altezza” (Giovanni di Salisbury, Metalogicon, cit. in E. Gilson, 2008, p. 295).
Capite che questa gigantesca tradizione fatta dagli uomini colti di quasi un millennio di tradizione cristiana escludeva l’accesso delle donne alla teologia e al governo. Per non parlare della medicina, avrete presente il reato di stregoneria che accese circa 45.000 roghi tra il 1450 e il 1750 con processi documentati e gestiti da corti secolari (cfr. B. P. Levack, 2012)? Bene, questo è un esempio della repressione che permetteva ai nani di sedere sulle spalle dei giganti.
Quando al terzo anno di filosofia, per la prima volta ho pensato che tutta questa secolare teoria politica fosse stata messa a punto proprio per escludermi in quanto donna dalla metafisica, dalla medicina e dal governo, mi sono venuti i brividi. Quando poi ho pensato che mia nonna era ancora cresciuta in quella cultura, che mia madre se n’era emancipata attraverso il lavoro e l’indipendenza economica e che io fossi la prima della famiglia a poter vivere nella libertà, mi sentivo schiacciata da questa enorme responsabilità e mi trovavo a odiare una cultura (maschile) che fino a quel momento avevo amato e che mi sembrava invece la vera ragione della mia libertà. Quello che studiavo all’università d’improvviso erano diventati gli strumenti intellettuali e teorici del nemico, con cui le donne della mia famiglia e del mio paese erano state assoggettate al ruolo di lavorare per riprodurre la specie. E’ chiaro che questo pensiero è un modo di farsi del male ed estremizzare troppo la questione. Però è anche l’esito di considerare l’emancipazione e le lotte del femminismo come un processo storico concluso o un’eredità. Perché questa eredità io non l’ho ricevuta personalmente, ma è piuttosto il progetto di un orizzonte di pensiero in comune con altre donne. Quindi, non siamo “nani” sulle spalle dei giganti che ci assicurano una maggiore penetrazione dello sguardo in terre lontane, né siamo una generazione più fortunata. La fortuna è forse poter scegliere di interessarci ai modi in cui la nostra libertà giuridica e materiale diviene possibile, chiederci a quale prezzo, chi ne è escluso o esclusa.