A volte però si rimane decisamente sorprese.
Leggendo Differenza e Relazione, a cura di Olivia Guaraldo e Lorenzo Bernini, non si ha la sensazione di star esclusivamente approfondendo in senso accademico i nodi teorici del pensiero di Judith Butler e di Adriana Cavarero, ma vi è effettivamente un di più, un certo qualcosa che rende il testo debordante rispetto alle prospettive solitamente aperte da una raccolta di saggi.
La prefazione di Olivia Guaraldo – studiosa del pensiero della differenza, lettrice di Butler e Cavarero, esperta di Hannah Arendt, ricercatrice di filosofia politica presso l’Università di Verona – sembra sussurrare a noi lettrici già un qualcosa di questo andare oltre i canoni accademici. Questo libro, suggerisce Guaraldo, non mira esclusivamente a fornire un’introduzione critica e ragionata al pensiero delle due autrici, né intende limitarsi a sottolineare i rimandi e gli intrecci di due pensieri così originali e così fecondi; questo lavoro si propone invece di dare voce a quella salvifica e fertile riflessione del femminile sulla politica che nutre e arricchisce ogni singola pagina dei testi delle due pensatrici, cogliendo in questo modo l’eredità del femminismo, in cui la posta in gioco pratica accompagna sempre ogni ambito della riflessione teorica. Intendendo la differenza sessuale come la prospettiva centrale e fondamentale da cui muoversi per osservare il mondo ed agire in esso, entrambe le autrici, Butler e Cavarero, intraprendono un cammino nel mondo a partire dalla propria posizione sessuata, in un percorso in cui la differenza, lontano da ogni cornice di senso chiusa ed autoreferenziale, irrompe nell’esistente portando in esso il proprio sguardo, elaborando così “ipotesi decostruttive e propositive la cui efficacia si estende ben aldilà della critica al patriarcato o della cosiddetta questione femminile” (O. Guaraldo, p. 94).
Sullo sfondo di questo approccio comune alla politica e alla differenza, Adriana Cavarero e Judith Butler vengono poste in relazione. I loro testi, le loro idee, diventano le parole di un fecondo dialogo sull’essere umano e sul senso del proprio stare al mondo. Prende avvio un movimento relazionale in cui ad esser messa in comune non è solo la ricchezza del pensiero, ma la passione e il desiderio di entrambe di vivere il proprio mondo e con esso i suoi drastici cambiamenti. Nel contesto di uno scenario politico privato degli equilibri tradizionali, crollati in modo irrevocabile, all’indomani del declino del Soggetto tradizionale della modernità occidentale, prende avvio quella nuova ontologia dell’umano che a partire dal rifiuto della neutralità del soggetto, pone al centro la corporeità, mai esclusivamente ridotta a dato biologico, che consegna il sé “ad una esteriorità/alterità che lo costituisce e da cui dipende” (O. Guaraldo, p. 91). Nella riflessione sul carattere relazionale del sé che viene a delinearsi in entrambe le autrici, l’esposizione corporea all’altro rappresenta non solo un momento costitutivo dell’identità dell’essere umano, ma include anche la consapevolezza della precarietà e della vulnerabilità, fisica e sociale, che il sé acquista in questa relazione. In entrambe quest’esigenza di pensare l’esposizione anche come vulnerabilità nasce a partire dagli eventi recenti degli scenari politici globali, dai quali, come accennato, la riflessione delle due autrici non si disgiunge mai. Sia la riflessione di Precarious Life che l’anatomia politica presentata da Cavarero in Orrorismo, prendono avvio dall’odierno teatro dell’orrore su cui si struttura il conflitto moderno, all’interno del quale la spettacolarizzazione della vulnerabilità del corpo inerme diviene dispositivo politico. Il saggio di Monia Andreani, Anatomia politica dell’orrore, illustra al lettore proprio il mutamento qualitativo che la visione dell’orrore subisce in età contemporanea:Il lato spettacolare della scena orrorista contemporanea fa leva sullo sguardo dello spettatore, ha perso però il suo significato politico di compensazione: non più la dimostrazione del potere sovrano, ma la dimostrazione che questo non può nulla di fronte alla violenza che si fa evento di morte e può colpire ovunque […]” (Andreani, cit. p. 47).
Tuttavia, nonostante il vi siano evidenti elementi di continuità nelle tematiche, vanno sottolineate quelle differenze e quelle distanze che rendono le riflessioni di Cavarero e Butler non sovrapponibili. La lettura di Cavarero della vulnerabilità, infatti, come sottolinea Andreani nel suo lavoro, si distanzia dalla riflessione butleriana in più di un punto, assumendo caratteri decisamente peculiari. In Cavarero la vulnerabilità viene ad esser pensata a partire dalla condizione ontologica di esposizione propria dell’essere umano e a partire dalla sua corporeità singolare, concretamente presente sulla scena pubblica, avvicinandosi così ad una visione politica arendtiana che allontana da sé ogni tentativo di sussunzione della singolarità, tipico dello schema hegeliano. Da questa centralità attribuita alle unicità incarnate, si distanzia il pensiero di Butler, che accede invece alla prospettiva della sostituibilità e della possibilità di una dimensione collettiva del “noi” di tipo impersonale, in cui la relazione eccede il rapporto concreto tra l’io e il tu. Ne consegue dunque un diverso scenario pubblico: mentre per Butler sarà necessario un lavoro etico che restauri il ‘noi’ attraverso le norme per trovare una risposta alla violenza e alla distruzione, per Cavarero la strada da percorrere è un’altra, quella del chi incarnato in un corpo sempre sessuato, unico mezzo della relazione politica.
Ciò che prende dunque vita tra le pagine del testo è una relazione viva, fertile, che anziché cadere in un nocivo sussumere i propri termini in un discorso omogeneo, unico ed univoco, in cui ogni differenza tende a sfumare, mantiene distinte le identità e le posizioni delle autrici, conservandone i punti di distacco, le idiosincrasie, le distanze incolmabili; una relazione che è contaminazione e distanza.
Una messa in dialogo curata da interpreti attenti, consapevoli del valore relazionale di questo mettersi in gioco senza perdersi in una voce tanto omogenea quanto indistinta, e che trova il proprio prolungamento naturale nel dialogo reale tra le due autrici, posto in chiusura del libro, quasi a suggellare il senso di quello scambio creato in ogni testo del volume.
I modi di questa relazione, dunque, si estendono ad ogni pagina scritta, ad ogni pensiero tracciato. Gli stessi autori e le stesse autrici dei singoli saggi non sfuggono a questo modo di interazione vitale. Le loro parole, le loro letture, non ammutoliscono sullo sfondo di un percorso concettuale altrui. Le identità di ciascuno di loro non dileguano dinnanzi al proprio compito (anche) accademico, ma si fanno vive, restano presenti sulla scena. La singolarità dietro ad ogni studio, dietro ad ogni interpretazione, si staglia fissa davanti agli occhi di chi legge; è in ogni pagina, ineludibile. Non ci si limita a riportare fedelmente pezzi di pensiero come fossero voci in un glossario.
Convinti che le questioni del nostro presente ci chiamino alla responsabilità nei suoi confronti, ci siamo addentrati nel contemporaneo farsi del pensiero di due donne significative, non per celebrarlo o imbalsamarlo in una “scuola”, ma per interrogarlo, sollecitarlo, criticarlo, nella speranza di riuscire, nonostante l’insensatezza dell’oggi, a produrre senso e comprensione” (O. Guaraldo, p. 14).
Le autrici e gli autori muovono critiche, pongono problemi, sperimentano nuove letture e nuovi approcci; Lorenzo Bernini, per fare un esempio, nel suo Riconoscersi umani nel vuoto di Dio, non esita a presentare alla lettrice il pensiero di Butler senza sollevarlo dai limiti che egli vi riconosce, proponendo una lettura rinnovata sulla base delle obiezioni proposte. A partire dalla messa in evidenza del debito che, fin dalle prime sue opere, lega Judith Butler alla teoria hegeliana del riconoscimento – in seguito rielaborata alla luce del contributo del pensiero di Cavarero – Bernini avanza la propria lettura della “metaetica” butleriana (cfr. p 33) evidenziandone alcune aporie e i punti – a suo avviso – deboli, situandoli come il punto d’avvio di un nuovo percorso interpretativo. Lorenzo Bernini riconosce nelle argomentazioni dell’autrice un vuoto che non riesce a rendere conto del perché, a partire dalla relazione ek-statica con l’altro e dalla consapevolezza della vulnerabilità propria e altrui implicita in questo rapporto, Butler possa far discendere una scelta morale di non violenza, ingiustificabile a livello teorico, passando – a suo avviso – indebitamente da un piano descrittivo a quello normativo. Sulla base di questa obiezione, e a partire dal riconoscimento di un rifiuto da parte dell’autrice di addentrarsi in un’indagine sui criteri di definizione dell’umano che possa rendere intellegibile il vuoto messo in evidenza, Bernini avanza la sua proposta: accostare il pensiero butleriano a quei pensatori che potrebbero fornirle dei criteri normalizzanti, quali ad esempio Leo Strauss, Hannah Arendt, Kant, i quali, come sottolinea lo stesso Bernini, “in modo differente hanno sostenuto che ciò che conferisce significato all’esistenza umana sia proprio una paradossale relazione con la giustizia” (cit. p. 38).
Così come, dal canto suo, Il romanziere e la cantastorie, di Alasia Nuti e Irene Borgna, non mostra esitazioni nel proporre uno stimolante percorso di lettura che avvicini la prospettiva di Cavarero ad un più analitico Daniel Dennett, sottolineando gli inaspettati punti di contatto che mettono in relazione due riflessioni apparentemente così lontane circa le proprie impostazioni teoriche. Ad avvicinare la teoria analitica di Dennett – per il quale la nostra mente, coincidente con il cervello, risulta essere un insieme di programmi autonomi e quasi totalmente indipendenti – ad Adriana Cavarero – alla sua Filosofia della narrazione, alla costruzione del sé a partire dalla relazione con l’Altro (e con l’Altra), e alla sua critica ai processi di astrazione dalla particolarità che individuano come superflua la realtà materiale e corporea dell’essere umano – troviamo non solo l’idea di una totale mancanza di trasparenza del Soggetto verso se stesso ma soprattutto il ruolo centrale che l’esposizione relazionale riveste nel processo di costruzione dell’identità. Davanti alla teoria biologicamente necessitata di Dennett – per cui la coscienza non potrebbe mai essersi prodotta in assenza di una preliminare comunicazione della creatura con i propri simili, per cui “occorrono almeno due esseri umani in comunicazione per fare una persona cosciente” (I. Borgna, A. Nuti, p. 77) – non possono infatti non esser colte assonanze con il pensiero di Cavarero, con la sua ontologia relazionale – fondata, anziché su una necessità biologica, sul desiderio – in cui l’unicità del sé narrabile acquista senso solo nel legame ineludibile con l’alterità. Con voci diverse ma complementari, Dennett e Cavarero individuano entrambi nella narrazione la forma specifica dell’identità personale. In quest’ottica, Borgna e Nuti aprono la via ad una prospettiva originale, proponendo una lettura in cui “Cavarero innesta la sfera del senso e del desiderio sulla storia naturale del sé narrativo tracciata da Dennett” (cit. p. 88).
Per riprendere il filo del discorso, dunque, va sottolineato come in un percorso unitario ma non corale, gli autori e le autrici, alternando le proprie voci, pongono la lettrice in una posizione tutt’altro che passiva. Si è continuamente chiamate a partecipare in modo attivo alla discussione, all’interrogazione, alla valutazione dei nuovi approcci cui si viene sottoposte.
Un dialogo messo in pratica, tra le due autrici, tra gli autori e le autrici dei singoli saggi, tra la lettrice e il volume.
È dunque la relazione stessa quel di più che trasuda tra le pagine. Una relazione sulla base della differenza sessuale, che ne tiene conto e che la declina in ogni ambito del reale.
pubblicata in ‘Diversamente occupate’ (DWF, n. 1 del 2010)