Psicoanalista, semiologa, scrittrice, femminista. Nella sua densa e acuminata opera critica Julia Kristeva pensa la totalitaria paura infusa nei corpi e nelle anime da un capitalismo in cui gli esseri umani producono da sé stessi la propria miseria, le condizioni di un singolare assoggettamento.
L’avvenire di una rivolta, raccolta di interventi e conferenze della seconda metà degli scorsi anni Novanta scandisce il percorso di pensiero dell’autrice della trilogia dedicata al “genio femminile” (Hannah Arendt, lo splendido Melanie Klein, e Colette), mostrando come questa tarda modernità al lavoro sui corpi per negarne la potenza genera disagio nell’omologazione, nella distanza da sé, nell’invocare un’ “interiorità” politicamente corretta ed eticamente riprovevole.
Rivoltarsi dunque è giusto, a partire dal piano di consistenza in cui al soggetto è negata la qualità peculiare della finitezza, del limite nella diversità, della malinconìa nell’aver perso un mondo della nascita di cui si può recuperare il tempo, a patto di ribellarsi. Chi si rivolta, cioè risale il legame che lo lega al mondo, che lo manca a sé stesso, che lo rovescia, lo fa nella relazione psicoanalitica, di cui Kristeva enuncia la censura da parte di una terapeutica cognitivista (ego terapy) che ha sciolto la relazione all’altro nel potere illimitato dell’”io”, che ha depotenziato Freud e normato la sovversione del soggetto.
Chi si rivolta è lo straniero, di lingua, di sangue, di stato-nazione, il cui verbo estraneo (per Kristeva il bulgaro-francese-inglese) contesta la “langue”, il patrimonio nazionale, la discorsività ufficiale in cui si insedia il contagio della comunicazione, la volontà di sapere, la soggezione ad un potere. Chi si rivolta è colei e colui che scrive, dal fondo dello strato extralinguistico ove, come in Proust, emerge il cristallo raro di verità che alcuna verbalizzazione può rinchiudere.
Le tre figure naturalmente politiche della ribellione assumono il profilo della negazione, teorizzata da Freud nel saggio omonimo del 1925 e sottesa al tracciato analitico, che comporta il doloroso distacco dagli oggetti “piccoli” del consumo in direzione dell’ “oggetto materno”, per Klein “sufficientemente buono” da scatenare la pulsione “sans phrase” che la lingua convoglierà nel desiderio.
Contrastando il capitale, in cui i viventi mandano in cortocircuito biologia e linguaggio, pulsione e discorso, sensibilità e sapere, l’impresa del rapporto analitico consiste nel risalire il desiderio dell’altro attraverso la corporeità, fino al limite extralinguistico in cui la realtà dei segni slitta su quella dei significati. La rivolta fa del soggetto il luogo di distinzione, di negazione e di estraneità, spazio di un terzo genere di conoscenza che Kristeva chiama semiotica (i segni della pulsione, ancora non desiderio), diverso dalla significazione, dall’attribuzione di senso, dalla discorsività.
Mallarmè, Ruskin, Artaud, Bataille lavorano la realtà “sensuale” del linguaggio da stranieri, da nomadi, da sovversivi, da in-fanti. Il ribelle, lo straniero, lo scrittore, celebrati dalla filosofia nei sacri luoghi della teoria politica, della sociologia radicale e della critica letteraria, sono per Kristeva gli odierni profili dell’attività di soggettivazione, in cui si stendono, più che nell’estensione della tecnica o nell’interiorità celebrata dalle religioni, i campi di tensione tra saperi, poteri e individui. La rivolta fa fare un giro completo al “discorso del capitalista”(Lacan), rovesciando i rapporti tra linguaggio e realtà, convertendo il consumo mercantile in produzione consumatrice (Marx), in animalità libera, l’ “in principio era il Verbo” in principio della carne, situazione di piacere, trasformazione di potere, radicamento di un sapere.
L’uomo in rivolta (oggi la donna, principio rivoluzionario), lungi dal voler riacquistare come in Camus una modernità perduta, rischia l’ identità, scopre l’inganno dell’“intimità”, distrugge il mito brutale dell’umanesimo, delle regole del mercato divenute legge morale, tenuta democratica, rispetto delle norme in cui si perpetuano gerarchie e discriminazione.
Il rivoltoso verifica la tenuta dell’essere soggetto in rapporto ad un potere, nella gestione di un sapere, nell’esercizio di una volontà. Se la psicoanalisi è scontro con l’esteriorità, se l’esodo costituisce la rivolta permanente contro lo stato e il lavoro salariato, se il testo e la scrittura (Barthes) animano la sovversione del soggetto, il campo di sperimentazione della propria corporeità è campo politico, luogo in cui la rivoluzione si fa carne, in cui la ribellione costruisce alternative di vita, in cui cioè la rivolta è negazione permanente, insistente, corroborante.
Bisogna dunque essere giusti con Freud, che scopre nel “fort-da” del traumatico movimento di presenza e di assenza la zona di traduzione della pulsione in desiderio, della sensibilità in linguaggio, della mancanza in negazione linguistica. Il ribelle analizzante, lo straniero traduttore di una lingua, cioè di un ethos in un altro “non materno”, lo scrittore che perviene al non essere del linguaggio a partire dalla propria testuale corporeità, divengono in ogni istante risorsa non catturata dall’impresa capitalistica, dalla logica del senso, dalla morale di un “democratico” assoggettamento.
Julia Kristeva
L’avvenire di una rivolta
Il melangolo (2013), pp. 84
€ 12,00