Passione per la vita, passione per la libertà, passione filosofica che scombina l’ordine binario fino ad allora dominante, smentisce la finzione del soggetto neutro, prendendo parola a partire dalle esperienze dei corpi sessuati e si apre al “lavoro filosofico e politico sul simbolico non tanto e non solo per la modificazione delle parti in causa o per la legittimazione della presenza sessuata, ma soprattutto come impresa dell’esperienza femminile a trasformarsi e a evidenziarsi in quanto principio di forza primario nei confronti del mondo” (p. 83).
Questo è per Patrizia Caporossi ciò che primariamente caratterizza il percorso della rivoluzione femminista, l’impegno “a fare del proprio genere un fatto antropologico ed esistenziale rilevante e del proprio mondo un atto dicibile” (p. 14).
Di questa impresa Caporossi narra momenti e figure, ripercorrendo la storia di un soggetto che esce dall’invisibilità, non dall’assenza, per guadagnare, al contrario di quanto un facile stereotipo affermi, non agognata visibilità o riconoscimento, ma un diverso modo di stare alla realtà.
E questo d’altra parte è ciò che il più delle volte sfugge, nel linguaggio mediatico e politico, laddove si tende a ridurre l’irruzione della soggettività femminile e le questioni che questa solleva ad un dibattito sulla mera presenza e sul riconoscimento di diritti, piuttosto che rendere conto dello scompiglio dell’ordine precedente, dell’imprevisto che può generare.
L’imprevisto della differenza sessuale si rivela, per Patrizia Caporossi, in primo luogo come capacità di sfidare l’ordine binario che tradizionalmente è stato posto come schema interpretativo della realtà, quanto la presunzione che nella dialettica fra i due opposti, il medesimo e l’altro, il primo, quindi il maschile nella sua veste di neutro/universale, possa annientare la differenza ponendosi come unica vera realtà.
La differenza sessuale allora innanzitutto demistifica gli intenti di una tradizione che si è modellata e sostenuta sull’esclusione dell’altro, con conseguenze che non si limitano al piano filosofico, perché mettono in dubbio, tolgono credito alle narrazioni dominanti e di conseguenza alle regole e ai dispositivi che normano la posizione di ciascuna donna nel mondo, le possibilità del suo fare e del suo dire.
La libertà femminile si realizza però anche come presa in carico della responsabilità di una parola che dica il vero della propria esperienza, passando necessariamente anche per l’esperienza dell’assenza di parole, perché le parole sono tutte “da rivedere e da ripensare” (p.17), nel momento in cui si parte da sé.
Questa capacità femminile di stare all’esperienza deriva per Caporossi da una particolare collocazione della donna, che è precedente ad ogni collocazione successivamente eletta a propria dimora, la condizione dello stare sullo frontiera, il dentro-fuori femminile, che apre un varco al “pensiero dell’esperienza”. “Una figura simbolica, quella dello stare sul crinale della linea di confine” (p. 23), che sembra configurare la possibilità di una conoscenza più fedele alla complessità dell’esperienza umana, di un’adesione al reale possibile anche per la distanza rispetto alla tendenza al controllo, al dominio, alla parola definitoria e risolutiva.
La sacerdotessa Diotima è l’emblema di questa figura simbolica, che riconosce “il valore vitale di stare sul passaggio, del porsi all’altro inteso come mondo” (p. 69) e la cui passione si libera sempre attraverso il rapporto e il riferimento ad altro oltre che a sé.
Qui che si gioca la possibilità di una differenza che sia rilevante non per la singola soggettività, ma per il vivere comune, per “un agire politico con-viviale”, la possibilità di concepirsi non come entità autosufficienti, ma come soggettività in divenire che significano solo in relazione ad altro, in primo luogo ad altre donne.
“Il bisogno, nel partire da sé, di individuare storicamente madri vicine e lontane e anche madri-maestre, per il soggetto filosofico femminile, non è solo un atto di rivendicazione di una certa discendenza materna, ma anche di riconoscimento e individuazione di proprie radici interne…” (p. 144), “nella fenomenologia di questo vissuto di genere è rintracciabile una via femminile all’essere che fonda nella modalità della relazione la sua condizione e il suo presupposto, teorizzato e praticato nella ricerca continua del sé nascosto o solo mimetizzato a sé e all’altro” (p. 146).
Così Caporossi mette in evidenza un nodo fondamentale, la cui dirompenza sembra però in qualche modo sopita o oscurata, cioè il fatto che le pratiche di relazione che le donne hanno sperimentato e sperimentano, “non sono state inventate, ma solo scoperte”, sono qualcosa che si ripete a prescindere dal conoscere la storia dei movimenti femministi nel mondo, leggerne nei testi, saperle nominare con parole appropriate.
Queste pratiche si ripetono tra donne, anche di generazioni diverse, sconosciute, amiche, sorelle, docenti, segnalando quel che nessuna invisibilità costretta può cancellare: che io mi faccio liberamente carico dell’impresa della mia vita e di quel che (mi) accade solo nel momento in cui tengo presente l’altra cui posso riferirmi, le sue parole, e che lei mi ha presente a sé.
Posso orientarmi senza la certezza di ruoli prescritti, di opzioni date, di parole misurate, appropriate, senza la mediazione di alcun potere maschile e senza cadere in un altro dominio, né identificazione, né schiacciamento, solo quando passo per la mediazione femminile, “non solo nella possibile alleanza sociale, ma proprio nella relazione, vissuta e diretta, da donna a donna” (p. 87).
La liberazione della differenza femminile passa quindi sempre attraverso la mediazione di un’altra donna ed è solo quando questa origine dell’autorità viene dichiarata che la manifestazione della differenza può tornare a vantaggio delle donne, anziché essere riassorbita.
E questo soprattutto oggi, oggi che da una parte tante donne continuano a sottomettere il proprio desiderio alla volontà di un uomo che se ne fa arbitro, un uomo che determina le condizioni per il successo, il suo prezzo e la sua forma. Oggi che dall’altra le donne sono e si incontrano ovunque, oggi che la donna che mi guarda e cui guardo non mi passa necessariamente rabbia per la miseria e l’oppressione, non mi toglie senso di me e delle mie possibilità, ma piuttosto mi esalta, mi autorizza ad osare, ad assumere il rischio di scegliere a partire da me stessa e da lì andare, rompendo quello che Muraro definisce il regime dell’automoderazione.
Oggi che è possibile costruire una tradizione “attraverso la visibilità delle pratiche relazionali stesse” (p. 185) e attraverso le parole che altre hanno pronunciato e pronunciato, parole che “possono diventare strade, camminamenti, più o meno percorribili anche da altri/e e nel tempo offrono, combinando così incontri continui variegati, anche imprevisti, soprattutto ponti nel e per il futuro tra generazioni diverse, prossime o in situazioni inaspettate e dentro contesti impensabili” (p. 64). Parole che possono diventare quindi il filo attraverso cui ciascuna può orientarsi e darsi all’impresa di cercare la propria collocazione, le proprie parole.
Il testo non ha allora l’obiettivo di descrivere le diverse posizioni presenti nel femminismo o di ricostruirne la storia fino ad oggi, ma piuttosto, tenendo presente la ricchezza dei contributi di pensiero e di pratica prodotti in questi anni e lo spostamento materiale e simbolico intervenuti nella vita delle donne e in parte degli uomini, di indicare il valore e le possibilità che la rivoluzione simbolica femminile apre per l’agire politico futuro.