L’associazione Evelina De Magistris ha recentemente organizzato, a Livorno, due incontri su temi apparentemente non omogenei. Il primo, il 16 gennaio, con la costituzionalista Silvia Niccolai, dal titolo “Non abbiamo bisogno di una Costituzione migliore”, e poi la presentazione, il 29 gennaio, del libro Quella difficile identità. Ebraismo e rappresentazioni letterarie della Shoah, di Stefania Lucamante, con Anna Maria Crispino, direttora di Leggendaria.
Nel rielaborare gli appunti e le note prese durante i due incontri, li ho rivissuti come due tappe di un percorso unitario, sul tema della memoria. Una memoria non monumentalizzata, non fissata in schema e rituale; una memoria interrogante, segno di contraddizione piuttosto che di pacificazione. Una memoria che si ponga come ponte tra passato e futuro e che interroghi in profondità il nostro presente, troppo spesso vissuto come un presente continuo, né radicato né proiettato.
Un altro elemento fondante nelle due riflessioni è la domanda di etica, un’etica che si radichi, come insegna Hannah Arendt, nella responsabilità individuale, nella scelta individuale, nella capacità di dire: “è giusto, non è giusto”, impegnate e impegnati “in quel dialogo con se stessi che … siamo soliti chiamare pensiero”.
“Non abbiamo bisogno di una Costituzione migliore”: incontro con Silvia Niccolai – Livorno, 16 gennaio 2014
Il titolo dell’incontro di oggi allude a molte cose. Proverò, in modo episodico e frammentario, a dirne alcune, sulle quali il lavoro di Evelina si è confrontato.
Innanzitutto, non abbiamo bisogno di una Costituzione migliore, perché il linguaggio, le parole che vi sono contenute – libertà, diritti, dignità, lavoro, solidarietà, progresso – sono talmente polisemiche e simboliche, che (cito da un testo di Silvia, “Lavoro, welfare e democrazia deliberativa”) “non si lasciano racchiudere in formule troppo strette, dai confini tecnicamente definibili, perché fanno appello ad esigenze di equità e di giustizia nei rapporti umani che non sono riconducibili a un sistema chiuso di concetti normativi” e “il significato di ciascuna di quelle parole suggestive è debitore dell’apporto di senso che gli stessi esseri umani, nella loro vicenda, svolgono”. Le parole della Costituzione, insomma, possono essere declinate in senso a seconda del punto di vista, delle relazioni umane, della pratica dell’ascolto che si agisce, e consentono la loro problematizzazione continua. Altro che fissità, rigidità o altre sciocchezze che si sono ascoltate.
Sul tema del lavoro, molto caro a noi Eveline, Silvia ha svolto diversi interventi, anche a seguito delle cosiddette riforme Fornero. La cito ancora: “Le nuove norme sui licenziamenti paiono orientate dalla aspirazione a consegnare al lavoro il potere di seguire proprie logiche autoreferenziali, non interrogate dal senso e dal bisogno di giustizia che anima gli individui e la società, non permeabili da esso, e, pertanto, consacrate come più importanti di esso. Con questo, il progetto dell’Esecutivo non sembra guardare con amicizia al contributo di incivilimento, cultura e socializzazione che il diritto e la giurisdizione offrono alla convivenza: da questo credo che, come giuristi e come costituzionalisti, dovremmo sentirci coinvolti e interrogati”.
Un’altra cosa di cui ci piacerebbe parlare è la domanda di giustizia presente nella Costituzione. Qui raccolgo alcuni spunti da un saggio di Silvia che trovo bellissimo, “Repubblica con ‘altro’ al potere. Una pagina di Vittorini riletta attraverso Hannah Arendt, a proposito del referendum costituzionale e di un male chiamato asimbolia”.
È pericoloso, dice Hannah Arendt, ricondurre il presente ed il passato ad uno stato di potenzialità rispetto al futuro. Tra le altre cose, io credo che questo atteggiamento stia alla base di tanta mitologia del rinnovamento, cui assistiamo oggi.
Subordinare il passato ed il presente al futuro significa provare l’ambito politico del punto di partenza dal quale cambiare, cominciare qualcosa di nuovo. È un’operazione sterile, perché il presente “non ci pone una domanda di regole migliori o di più efficiente organizzazione, ma una domanda di etica e di responsabilità, che riporti la politica, se mai sarà possibile, alla sua dimensione di lavoro – parola, dice Silvia, non a caso in disuso – non a quella di autoreferenziale processo produttivo di regole.
È un tempo difficile, in cui vogliamo stare in atteggiamento di ascolto e di responsabilità, assumendolo, attraversandolo, come dice ancora Silvia. E, un po’ confusamente, sentiamo che una delle questioni del nostro tempo sia la questione della verità. La verità non come una dogmatica, ma come radicamento, come ascolto delle voci e presa di coscienza dei corpi e delle parole, non travestendole, ma cercandone il senso e gli intrecci, i legami, le relazioni. Questo è il senso del nostro desiderio.
Silvia Niccolai
La Costituzione è un argomento che ho in testa ogni giorno. Ho proposto di parlarne partendo da un romanzo di Elena Ferrante, “L’amica geniale”, per il “clima”che c’è in questa opera, che ci dice molto sull’argomento che trattiamo. Costituzione, diritti, giustizia: ecco i temi, che non voglio ridurre a “questione tecnica”. Ferrante descrive una società impastata, violenta, collusa. Emerge il problema del potere, nei cui confronti le due ragazze protagoniste, Lila e Elena, impostano le proprie esistenze: col potere ci si misura ogni giorno, fin da piccoli, così come con gli usi sociali, le convenzioni eccetera che impostano le nostre esistenze. Siamo a Napoli negli anni ’50 del Novecento: dopo la guerra, al cuore delle contraddizioni che hanno contraddistinto la storia repubblicana. Napoli simboleggia, inoltre, una memoria più lunga: voglio solo accennare al grave costo subito dalla nostra vita civile per la rimozione operata nei confronti del Regno delle due Sicilie.
Napoli significa un regno di risorse della memoria e delle tradizioni, e sottolineo l’importanza della memoria, della storia del passato. Lila, ad un certo punto, parla con Elena e pone il tema: “Ritornò così il tema del ‘prima’ […] Disse che non sapevamo niente, né da piccole né adesso, che perciò non eravamo nella condizione di capire niente, che ogni cosa del rione, ogni pietra o pezzo di legno, qualsiasi cosa, c’era già prima di noi, ma noi eravamo cresciute senza rendercene conto, senza mai nemmeno pensarci […] Non sapevano niente, non volevano parlare di niente. Niente fascismo, niente re. Niente soprusi, niente angherie, niente sfruttamento […]”.
Non voler sapere niente è una sorta di patto di connivenza con il potere. Un patto di rimozione: per questo, la cura della memoria è importante.
Alla fine, Lila e il ragazzo che, a modo suo, vuole libertà di scelta, si sposano. E, al matrimonio, c’è una scena terribile: le scarpe immaginate e create da lei, frutto del suo lavoro e della sua inventiva, vengono indossate dal suo pretendente mafioso. Lila prova atterrimento: ha pensato di sottrarsi al cappio della sottomissione, della subordinazione, ma, invece, è tutto intrecciato.
Io interpreto così: non si può trarre la propria libertà usando strumentalmente le cose per come sono, venendo a patti a metà.
Le due ragazze costruiscono la loro libertà dandosi reciprocamente forza. Si autorizzano a vicenda. Si può trovare la libertà in un contesto molto oppressivo, trovando leve rivoluzionarie, spostando l’ordine delle cose e la loro importanza.
Nel romanzo leggiamo l’intreccio tra potere-libertà-autorità. Voglio ricordare il tema di Didone. “[Lila] Mi parlò dettagliatamente di Didone […]. e un pomeriggio buttò lì un’osservazione che mi colpì molto. Disse : <<Se non c’è amore, non solo inaridisce la vita delle persone, ma anche quella delle città>>. Non mi ricordo come si espresse di preciso, ma il concetto era quello, e io lo associai alle nostre strade sporche, ai giardinetti polverosi, alla campagna scempiata dai palazzi nuovi, alla violenza in ogni casa, in ogni famiglia”. Amore come scambio, come relazione orientata a dirsi il vero: la città senza amore significa un popolo privato della felicità. È la componente politica, in senso vichiano, aristotelico, della società: la filìa.
Ricordo un romanzo di Elio Vittorini, “Il garofano rosso”: romanzo di formazione, che narra la presa di coscienza di un adolescente negli anni dello squadrismo fascista, del delitto Matteotti. Ad un certo punto, uno dei personaggi dice: ci vorrebbe un codice dei sentimenti. È un romanzo in cui si dice il tramortimento: cosa accade quando si instaura una dittatura? Come la si vive, giorno dopo giorno? Come ce ne accorgiamo? Con il decadimento di benessere sociale. È qui che accade qualcosa, nella perdita di trasparenza, di semplicità.
Nel 1975, Pier Paolo Pasolini scrive sul Corriere della sera un articolo, diventato famoso: Il processo. Pasolini accusa i politici, primo di mentire, quindi di educare alla menzogna; secondo, di farci pensare che la politica si possa buttare via.
Venendo al tema della Costituzione, penso davvero che la nostra sia la migliore. Ma dire questo non basta. Sono contraria a modificare la Costituzione non tanto perché, come dicono alcuni, questa abbia un progetto chiaro di società, ancora da attuare. Sono contraria al tema delle riforme perché è usato in modo abusivo per attribuire alla Costituzione difetti ed errori che sono propri delle donne e degli uomini che hanno gestito il processo costituente e la sua messa in opera negli anni successivi.
Fin dagli anni ’80 si parla della necessità di riforme, di avere governi forti eccetera, e si dice che questi argomenti, a noi cittadini, dovrebbero interessarci. Invece interessano chi ha il potere. Ci sono certamente disfunzioni nella nostra democrazia. La maggiore si chiama mancanza di responsabilità. È un grande problema proprio della disciplina dei partiti italiani, che mancano di onore. Non c’è un rapporto a dir poco corretto tra la maggioranza ed il governo che esprime. Un esempio chiaro è stato, lo scorso dicembre, il ritiro, da parte del Governo, di un disegno di legge di conversione di un decreto, già approvato dal Senato! È un vulnus, non si può fare. Il presidente del Senato ha accettato, il presidente della repubblica Napolitano, invece del ruolo imparziale, maieutico, ad alterum che dovrebbe rivestire partecipa e avalla queste operazioni.
Se pensiamo a questo e leggiamo l’art. 72 della Costituzione, quello secondo cui la funzione legislativa spetta alle Camere, non possiamo che dire che il Parlamento italiano sia indifendibile. Troppo spesso ha rinunciato al suo ruolo di legislatore e di controllore delle attività del Governo.
Sicuramente, la situazione sta peggiorando, e il ventennio berlusconiano ha fatto molto male a questo Paese. Peraltro, Alberto Asor Rosa, su il manifesto di oggi, parla di Renzi come di un “nuovo” inquietante.
Però non è utile, secondo me, coltivare la convinzione che in passato esistesse una centralità parlamentare. Fino agli anni ’70, la Democrazia Cristiana, che era un partito correntizio, interclassista, un “polipo correntizio”, presentava una grande articolazione, che rendeva obbligato il confronto con il Partito Comunista. La centralità del Parlamento non ha mai risposto ad una convinzione profonda dei partiti italiani, che si sono mossi secondo un uso strumentale delle istituzioni.
Penso che in Italia i partiti abbiano spesso “utilizzato” la società civile: da una parte, sollecitando la partecipazione, dall’altra, usando strumentalmente le istanze sociali. Anche il PCI non ha coltivato la questione dei diritti civili, muovendosi poi di conseguenza quando nella società c’erano sollecitazioni troppo forti. Le femministe hanno dichiarato l’estraneità rispetto ai meccanismi istituzionali, io credo, anche come reazione alle strumentalizzazioni partitiche. I partiti hanno recepito le istanze dei movimenti recepibili, compatibili.
Oggi, ci sono proposte di riforma in cui, per esempio, si sostiene che il Parlamento debba esaminare ancora più in fretta in disegni di legge. Ma allora, chi li studierebbe, chi li approfondirebbe?
Io penso che siamo un Paese sostanzialmente autoritario e non abituato ad avere amore per la città. Siamo senz’altro e ci sentiamo debitori e debitrici nei confronti del passato, ma dobbiamo fare uno sforzo oltre la mitologia. Ecco, se dovessi modificare la Costituzione, forse rivedrei solo il ruolo dei partiti come unici strumenti lì indicati per esprimere la volontà politica dei cittadini.
L’idea di “esecutivo forte” comporta un potere pericoloso. Io penso che, in continuità con il nostro passato, pur nella consapevolezza che non ci siano passati mitici da incensare, dobbiamo fare con quello che abbiamo a disposizione.
Scrisse il grande giurista Costantino Mortati, nel 1975: in Italia, c‘è ancora il fascismo. Parole che ci fanno pensare ancora oggi. Ascoltiamo discorsi che non hanno umanità, spesso tutto il contrario di ciò che il buon senso dice. Oggi dominano la razionalità tecnicizzata, totalmente strumentale, preoccupante, che fa male al vivere. Il pensiero politico è visto come pensiero manageriale. Occorre far nascere dall’esperienza linee comuni di azione, che affermino i valori del pluralismo, della persona, della relazione.
Presentazione del libro “Quella difficile identità. Ebraismo e rappresemntaziiobni letterarie della Shoah”, di Stefania Lucamante, con Anna Maria Crispino – Livorno, 29 gennaio 2014
Il giorno della memoria è stato istituito con legge del 2000, allo scopo di “ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte” e quanti “si sono opposti al progetto di sterminio” (come i cittadini di Nonantola, la cui storia conosceremo nel video di Eleonora Giordano).
La memoria non si comanda per legge, ed è vero che c’è il rischio di confinare manifestazioni e iniziative in questi giorni, affastellando un po’ gli eventi. La nostra associazione, da anni, cerca di aprire un varco nuovo, una riflessione non consueta, un punto di vista non particolarmente utilizzato, a partire proprio da quella parola “memoria”.
Sotto questa luce abbiamo invitato oggi Anna Maria Crispino a parlarci di un libro molto bello, molto denso, “Quella difficile identità. Ebraismo e rappresentazioni letterarie della Shoah”, di Stefania Lucamante, che vive e insegna negli Stati Uniti.
Perché è importante questo libro? Ne cito il brano iniziale: “Nel complesso panorama di studi critici e teorici sulla letteratura della Shoah molte sono le categorie che vengono periodicamente analizzate a partire dall’immediato dopoguerra. La difficoltà tuttora esistente di trarre conclusioni rispetto all’entità di tale evento da un punto di vista etico si rispecchia nell’immutata e non meno intensa problematicità di una sua rappresentazione estetica e letteraria […] Oltre alla difficoltà del come dire Auschwitz, ormai divenuto un topos vero e proprio, altro problema fondamentale degli studi concentrazionari in campo letterario rimane la responsabilità dell’arte, vale a dire la sua zona etica nei confronti di tale evento” (pag. 12).
Mi pare fondamentale la sottolineatura dell’aspetto etico, dell’aspetto della responsabilità individuale e collettiva, quando si parla di Shoah. Il recente, bellissimo film di Von Trotta su Hannah Arendt si chiude sulla domanda rispetto al male e alla responsabilità del pensare.
Un altro tema è come non sia indifferente, per la scrittura e la modalità di fare memoria, il fatto che si parli di “autrici”, che pongono ”ulteriori quesiti sulla discriminazione e sull’intolleranza da prospettive diverse”.
Lucamante ha indagato come, nei testi di alcune donne (alcune deportate, altre no, una non ebrea, Rosetta Loy) si sia affrontato il problema del trasmettere memoria e conoscenza. Le tavolette degli scribi che contengono i numeri della contabilità del palazzo non parlano di amore e di dolore, ci dice Christa Wolf; non contengono i volti. Allora, “l’intervento di queste donne recupera il volto, levisianamente perso nella tempesta del razzismo, di tante altre vittime che non sopravvissero al razzismo. La loro scrittura concede e ridona fisionomia al volto dell’Altra, al volto della donna offesa dalla Shoah entro il recinto terribile dei campi come anche nella sua casa violata in patria […]” (pag. 13).
Tra le autrici citate nel libro, che sono molte (Lidia Beccaria Rolfi, Liana Millu, Giuliana Tedeschi, Edith Bruck, Lia Levi, Rosetta Loy, Giacoma Limentani, Helena Janeczek, e Elsa Morante) compare anche il nome di Frida Misul, livornese, con la sua opera “Fra gli artigli del mostro nazista”, pubblicato nel 1946. Scriveva Frida: “Se una persona nella cui sincerità avessi nutrito la più assoluta fiducia mi avesse descritto gli orrori che sono passati davanti ai miei occhi nei tristi campi nazisti della morte, io avrei stentato a credere il suo racconto tanto questo avrebbe potuto considerarsi irreale […]”.
Emergono già qui due elementi, che poi troveranno grande spazio in chi ha scritto sulla propria esperienza di deportata o di deportato: il bisogno di narrare, la consapevolezza del rischio di non essere creduti.
Termino con un accenno al tema delle leggi razziali, delitto tutto italiano, rispetto al quale, con parole direi definitive, scrivono Anna Bravo e Daniele Jalla, in un volume bellissimo, fondamentale di diversi anni fa, “La vita offesa”: “Se è vero che in Italia l’antisemitismo del regime non trova radicamento e consensi di massa, e anzi la normativa del 1938 ha l’effetto di risvegliare alcune coscienze, non si può dimenticare che uno scandalo morale e una rottura legislativa di questa portata non incontrano alcuna vera opposizione: che prevale il silenzio. Sarà così anche negli anni successivi: la deportazione degli ebrei è contrastata da molti gesti coraggiosi di aiuto e solidarietà, ma è consentita anche da complicità che non incontrano condanne ferme ed esplicite”.
Anna Maria Crispino.
Occuparmi del libro di Lucamante è stata una bellissima avventura: il volume è importante sotto molti punti di vista.
La persecuzione e la deportazione degli ebrei italiani hanno ancora un posto limitato nella storia della Shoah, e questo a causa di una insufficiente valorizzazione della memoria storica, compresa quella delle donne. È successo anche per la storiografia della Resistenza: il contributo femminile, che era stato molto rilevante, non solo in prima linea, ma nei rifornimenti, nei collegamenti, nell’aiuto quotidiano, nel nascondere e salvare, fu sottovalutato. Nel libro di Anna Bravo, “La conta dei salvati”, c’è un meraviglioso capitolo dedicato al salvataggio degli ebrei danesi (i resistenti civili riuscirono a farli fuggire quasi tutti) e si parla diffusamente del “maternage di massa” operato dalle donne italiane dopo l’8 settembre del ’43, per nascondere e far fuggire i militari sbandati. È prevalsa, nella storiografia della Resistenza, la retorica del guerriero, maschio, giovane, libero. Il prevalere di questo discorso oscurò e mise in secondo piano il lavoro di resilienza delle donne. È certo che nella categoria delle vittime mal si sono sopportate le differenze, in primis quella tra donne e uomini.
Il libro di Lucamante è un contributo che colma una lacuna, e non è un’”aggiunta”. Non dobbiamo, infatti, parlare della Shoah al femminile, ma del femminile della Shoah.
Dal film di von Trotta su Hannah Arendt, emerge una sintonia tra il pensiero di Lucamante e quello di Arendt: la dimensione etica, il giudizio politico in quanto assunzione di responsabilità singolare, che è uno dei pilastri più fecondi del lavoro di Arendt.
Nel capitolo del libro su Elsa Morante si mette in luce il fondamento etico forte che la spinge a scrivere La Storia, andando anche contro le tendenze letterarie del suo tempo. Leggiamo a pag. 331: “Il totalitarismo descritto da Arendt è la forma più vicina al male assoluto di Morante”.
Morante, in più punti de La Storia, parla della “parentesi del fascismo”, rintracciando in alcune direttive della cultura italiana profonda l’humus, il clima culturale in cui il fascismo si affermò: l’intolleranza, il nazionalismo, il rifiuto delle differenze.
Di grande valore è anche aver sottolineato che cosa accadde ai sopravvissuti: il carico di dolore, il non essere ascoltati. La ricostruzione si appoggiò sulla retorica della Resistenza. Il peso del silenzio è stato un elemento molto presente, e il dato emerge anche negli scrittori e nelle scrittrici contemporanee israeliane, come Savyon Liebrecht, in cui viene vissuto anche come segnalazione della rottura genealogica. Si è molto lavorato, su questo piano, in Israele e nella diaspora: fare i conti con il senso di colpa (ricordiamo cosa dice Primo Levi ne I sommersi e i salvati), con un’esperienza indicibile, con l’indisponibilità all’ascolto, il rischio/timore di non essere creduti.
Scrive infatti Elsa Morante: “[…] i racconti dei giudii non somigliavano a quelli dei capitani di nave, o di Ulisse l’eroe di ritorno alla sua reggia. Erano figure spettrali come i numeri negativi, al di sotto di ogni veduta naturale, e impossibili perfino alla comune simpatia. La gente voleva rimuoverli dalle proprie giornate come dalle famiglie normali si rimuove la presenza dei pazzi […]”.
Se questo è un uomo fu rifiutato per ben due volte da Einaudi e venne pubblicato nel 1947 da una piccola casa editrice, la De Silva diretta da Franco Antonicelli, in 2.500 copie, di cui ne furono vendute 1.500.
La vicenda del silenzio peserà molto sulla seconda e sulla terza generazione. Nell’ultimo capitolo del libro di Lucamante si parla del ’68: un conflitto generazionale tra figli e genitori. Il conflitto fu del tutto particolare nelle famiglie ebree, proprio a causa di quel silenzio, di quel “buco nero”.
Nelle proprie radici, oggi, essere ebreo significa essere erede di una tradizione che ha prodotto cose meravigliose prima della Shoah, ma anche cose meravigliose, straordinariamente vitali anche dopo. L’esperienza della “candele della memoria”, donne e uomini di generazioni successive alla Shoah, che hanno vissuto i silenzi e le reticenze dei genitori, potendo solo immaginarne l’indicibile sofferenza, permette di vivere questa vicenda non come una eredità di morte, ma come una proiezione nel futuro. A questo proposito sono molto importanti le pagine che Lucamante dedica a Helena Janeczek, alla possibilità di unire “i lembi della ferita, del prima e del dopo Shoah” (pagg. 388-389).
La questione della rappresentazione, in particolare della rappresentazione letteraria della Shoah, affonda le proprie radici nella cultura ebraica, in cui ogni singola vita ha un proprio specifico valore e quindi deve essere narrata.
Come raccontare, cosa raccontare? Per Lucamante, si tratta di accogliere la lezione di Primo Levi e passare dalla verità “oggettiva” (i registri, i documenti, le immagini) alla verità del ricordo, che consente di trovare la forma.
Per questo, Lucamante inserisce nel suo libro anche i memoriali scritti “a caldo”, come quello di Frida Misul: una mossa critica che ha un valore etico e politico. Lo fa perché è una donna, e l’esperienza ha un grande valore nella vita delle donne. Abbiamo memorie spesso riscritte, e si può misurare la differenza tra le diverse scritture.
Abbiamo le “scrittrici per necessità”, come Edith Bruck: la dimensione letteraria ogni volta rideclina quella esperienza e testimonia la trasformazione in lei accaduta.
Abbiamo “le bambine di Roma”: Giacoma Limentani, Lia Levi e una non ebrea, Rosetta Loy, che si interroga sulla cultura ebraica non come un fatto che riguarda gli ebrei, ma come cittadina di un Paese in cui ci sono ebrei e non ebrei.
I libri di Giacoma Limentani hanno una scrittura complessa, circolare. Lei bambina, figlia di un ebreo che era antifascista e faceva parte della Resistenza. È una di quelle scrittrici assai riconoscibili nella sua ebraicità, ma che apre anche un varco, come le candele della memoria: andare oltre la persecuzione, parlare di quello che c’era prima (le fecondissime relazioni tra gli ebrei d’Europa: voglio ricordare un libro splendido, le memorie di Bella Chagall, “Come fiamma che brucia”), parlare di quel che c’è ora: l’ebraismo da riscattare dal senso di morte della memoria della Shoah.
Tornando a La Storia di Elsa Morante, ci fu un vero e proprio accanimento della critica nei confronti del romanzo. Nella sinistra italiana degli anni ’70, la questione della persecuzione degli ebrei e della Shoah non era stata assorbita, rispetto alla narrazione stereotipata della Resistenza e della ricostruzione.
La Storia è un romanzo sulla Shoah. Pensiamo a Iduzza, figlia di Nora, quest’ultima vissuta con l’ossessione della propria differenza ebraica e della persecuzione, che impazzisce e muore cercando di raggiungere a nuoto la Palestina. Iduzza è una vittima inerme. La Storia è la storia dell’essere inerme. Sono indimenticabili i capitoli sulla deportazione e sulla partenza: La Storia è il romanzo delle vittime. Chiudo con una citazione da Lucamante (pag. 292):
“Fantocci del Potere, poveri soldatucci diciassettenni, maestrine inermi, sono questi i personaggi di Elsa. Facili prede della mediocritas, che consente negli anni Trenta il dispiegamento dell’antisemitismo italiano così come dell’apoteosi della basilare incapacità di discorso fra le genti e di rivendicazione dei diritti umani, la narratrice ce li presenta come inermi di fronte all’orrore quotidiano”.