Tratto da dwf, Questo sesso che non è il sesso 2, 2011, pp.87-92
Adriana Nannicini, Sandra Burchi
Il 2 marzo abbiamo presentato i due numeri di DWF dedicati al lavoro nella sede nazionale della CGIL, è stata l’ultima tappa di una “tournée” di presentazioni, ma ci piacerebbe rappresentasse l’inizio di un percorso di riflessione sul tema donne e lavoro. Quello che di importante è successo in quel pomeriggio, senza solennità ma in una sede tanto solenne come il “parlamentino di Corso Italia” (la sala Santi), è stato un confronto reale fra donne di generazioni diverse e con diverse esperienze di politica e di pensiero. L’urgenza che circolava e che ha mobilitato una così ampia presa di parola, ben oltre gli interventi pensati e programmati, è stata l’urgenza di trovare parole collettive sul tema del lavoro e ancora più di articolare un pensiero capace di ispirare azioni efficaci. Abbiamo una teoria femminista sul lavoro? Mentre questa domanda rimaneva nell’aria, il racconto delle esperienze, la presentazione dei problemi aperti dal presente, la ricognizioni dei pensieri già in uso nel movimento delle donne – nelle sue scansioni genealogiche dalla cultura dell’emancipazione a quella del femminismo degli anni Settanta e nella relazione con le donne del sindacato –, confermavano l’urgenza e il desiderio di un “salto teorico”, di un andare oltre, di rinnovare i paradigmi con cui pensiamo e viviamo il lavoro. Con lo strano vantaggio di chi non ha un lutto da elaborare rispetto a un modello mai abitato fino in fondo – quello che fonda l’identità soggettiva e l’agire nel mondo sulla posizione occupata nel mondo del lavoro -, sono proprio le donne a sentire il desiderio di prendere e di reagire ai rischi già in atto, di perdita, di restringimento delle possibilità, di indebolimento delle condizioni materiali portate dalla crisi e dalla crescente precarietà del lavoro. È importante che proprio le donne giochino in positivo il vantaggio di una posizione descritta come “marginale”, ma che è possibile nominare e riconoscere come “eccentrica”, fuori dall’identificazione piena con un modello economico che oggi mostra apertamente i suoi limiti e le sue violenze, per tutti. Proponiamo alcune questioni che si sono rese visibili, che sono tornate nelle discussioni dell’ultimo anno in vari luoghi in cui le donne hanno preso parola sul tema del lavoro, questioni che possono diventare elementi di incontri futuri.
Individualizzazione
Individualizzazione come esperienza, come concetto. Uno dei prodotti più preziosi delle narrazioni che le precarie e le autonome ci hanno dato in questi anni è la capacità di raccontare con anticipo una questione che si è rivelata essere cruciale nella comprensione delle vite. Si tratta di sguardi che si sono rivelati necessari a sentire e a vedere la fatica, l’isolamento, la solitudine, meglio, le centinaia di solitudini identiche che non sapevano di essere tali, e che oggi sono in grado di stabilire delle connessioni. Pur nelle differenze di condizioni, i racconti hanno dato forma alle differenti sfaccettature che l’individualizzazione assume: da habitus produttivo, richiesto da aziende e organizzazioni, evidente sempre più sovente nei contratti individuali, si ritrova come abitudine e prende varie forme provocando perdita di collaborazione, competizione esasperata. Anche chi sperimenta nuovi lavori e nuove forme produttive si ritrova a vivere ansie e timori portanti dalla difficoltà di cooperare, dalla sensazione di rimanere sempre un “competitor”, impossibilitato a trovare solidarietà e mutualità. Per le donne superare questa individualizzazione è già politica. Nell’incontrarsi per raccontare e raccontarsi si sono inventate in questi ultimi anni forme di condivisione, che sono servite a dare un nome alle esperienze, per contenere passioni, mancanze, assenze. Per molte è stato il modo di dare valore e senso alle contraddizioni sperimentate. Questa condivisione ha prodotto e continua a produrre la rielaborazione di vite disperse e frammentate e ha costruito un lessico, lo ha imposto. Ma restano da ripensare le modalità di lavoro realmente cooperative, tra colleghi per sviluppare diverse condizioni e per incontrare commesse migliori, più decenti, più interessanti, in un mercato come quello delle cosiddette ”nuove professioni”, che crea continuamente condizioni di concorrenza. L’invenzione di forme di mutualità durevole resta un desiderio e la creazione di piattaforme rivendicative comuni sembra limitarsi alle questioni fiscali. Ogni desiderio di mutualità sembra fermarsi sulla soglia di atteggiamenti di tutela, di ricerca di miglioramento delle condizioni di lavoro, sempre più presenti e incisive nella vita quotidiana. Più difficile è oltrepassare questa soglia e inventare mutualità che attivino modalità “solidali” e non concorrenziali nello stare sul mercato del lavoro. Quanto e come la frammentazione e l’individualizzazione hanno agito così da inibire questo nostro desiderio, poco verbalizzato è vero, ma sommessamente circolante? Vanno trovate parole collettive. Su questo punto sarebbe interessante capire cosa stia facendo un sindacato come la CGIL, che ha aperto alle giovani generazioni attraverso la campagna “ non più disposti a tutto”, per organizzare quelli che restano “i non organizzati”.
Precarietà e generazioni
Il tema della precarietà, finalmente all’ordine del giorno nel dibattito politico, deve ancora essere visto per intero e svelare le declinazioni che sta assumendo per le diverse generazioni di donne. Non è ancora stato detto con sufficiente forza che la precarietà del lavoro è già condizionecomune a una pluralità di generazioni, e che attraversa, nei suoi effetti, le diverse età delle vita. La precarietà delle ultime generazioni – e sono già più di una – nell’accesso al lavoro, che si traduce in precarietà dell’esistenza, convive con la precarietà causata dal furto del “tesoretto” delle donne e dell’innalzamento dell’età pensionabile. È ancora precarietà la perdita del lavoro per le over40 e over50, per quelle che sperimentano l’impossibilità di trovare un’occupazione stabile. Sono donne che oggi, già adulte, non hanno lavoro, e domani, anziane, non avranno pensione. Si tratta di precarietà differenti, ma che è necessario nominare per attivare forme di riconoscimento reciproco fra generazioni, riconoscimento essenziale per costruire alleanze. Il rischio è che fra generazioni compresenti sulla scena pubblica, l’incapacità di riconoscere differenze e continuità ostacoli la costruzione di alleanze politiche e di pensiero, ogni generazione percependo solo se stessa e ilcerchio di problemi – e di eventuali potenzialità – in cui si sente circoscritta.
Tra discriminazione e desiderio di
Li abbiamo individuati come concetti-chiave per pensare il lavoro: la prima indica l’emancipazione, come ideologia e come esperienza, il secondo indica il femminismo, delle origini e nel suo differenziarsi. Oggi, al tempo di una crisi economica che modifica il quadro dei mercati e dei lavori, la discriminazione non è fuori questione, anzi, ma chiediamo: qual è la chiave interpretativa che scegliamo? Quale termine sarà per noi dirimente? Consapevoli che la nostra presenza al lavoro non ha da confrontarsi in modo prioritario e unico con la figura maschile dell’operaio-massa, vogliamo mostrare che il desiderio di lavoro delle donne c’è, si è reso più visibile negli ultimi anni, ha una qualità specifica. A cominciare dal fatto che il reddito di una donna non è più un salario aggiuntivo, anzi diventa income unico o prevalente, lei è unabreadwinner, talvolta unico sostegno delle famiglie di single – quale molte di noi sono, quale sono le donne anziane – o di quelle monogenitoriali, che sono in aumento. È vero non solo per le giovani e lo è da un po’ di anni. Le donne che lavorano non si vivono più come eccezioni, lavorare è esito di una scelta, o una normalità. Se non si tematizza la “differenza” al lavoro – da una parte, le precise richieste relative alle condizioni di lavoro, dall’altra le particolari forme del desiderio messe al lavoro – il discorso su donne e lavoro finisce per tradursi nel tema unico della discriminazione. Il desiderio di lavoro delle donne è provato dalla passione dilagante e dilatante per il racconto, la narrazione, che negli ultimi quindici anni è nata dal lavoro di tanti gruppi diversi: è desiderio di apprendere, di apprendimento continuo, è sfida nel fare lavori difficili o lavori nuovi, essere protagoniste, mettersi alla prova, di passare per questa via per socializzare. È desiderio di fare bene ciò che si sta facendo, di lavorare bene, nelle condizioni migliori per sé e per il prodotto finale, è desiderio di lavorare con piacere, di potersi identificare nel proprio lavoro senza dimenticare la vita: le donne conoscono il valore di identificazione che viene dal lavoro, ma sanno che non è l’unico valore.
Crisi della misura
Negli ultimi anni, con il crescere dei lavori “non standard”, la prima a saltare è stata la misura rapporto fra tempo e denaro, una misura fondamentale nell’organizzazione del lavoro che ci siamo lasciati alle spalle e indicatore per la costruzione del sistema dei diritti e per il miglioramento delle condizioni lavorative conquistato da movimenti e organizzazioni sindacali. Oggi che il tempo di lavoro si dilata o si faintermittente o si restringe, il denaro sembra essere diventato per molti “una variabile indipendente”. Non è più certo che il tempo di lavoro sia pagato o che sia pagato in tempi utili a costruire un’economia di vita. L’equivalenza fra tempo e denaro non funziona più per i singoli e spesso neanche per le organizzazioni – come le piccole cooperative che hanno contratti di subappalto con le amministrazioni locali o le piccole ditte e agenzie di servizi, tutti contesti fortemente femminilizzati. La difficoltà di misurare il tempo di lavoro, di valutarlo e di dargli un valore adeguato, anziché portare all’invenzione di nuovi criteri, di nuovi sistemi di equivalenze, ci sembra abbia prodotto due scappatoie opposte: quella di far rientrare la gratuità come “possibilità” e spesso anche come “condizione” lavorative e quella di far proliferare sistemi iperburocratici di valutazione, misurazione, classificazione. Da una parte la gratuità come terreno di prova, sperimentazione, investimento, dall’altra quello che potremmo definire una sorta di “feticismo delle procedure” attraverso cui riconoscere e valutare interi contesti professionali e organizzazioni. I criteri attraverso cui si misura e dunque si riconosce il lavoro di università, ospedali, amministrazioni – criteri che servono a distribuire risorse, basandosi spesso su un uso “perverso” di misurazioni quantitative – sottostimano il lavoro reale, più semplicemente non lo vedono. È una rottura indiretta della regola e della misura, lo svuotamento di senso di quei luoghi, ridotti a una valutazione numerica. Così si pretende di misurare le competenze, di indicare modi e luoghi di certificazione – si sperimentano, ad esempio, anche nell’interesse delle donne, banche delle competenze – come se il problema fosse di riparare a una mancanza di visibilità dei talenti e saperi femminili. In realtà sappiamo che sono proprio le competenze più difficilmente certificabili a orientare la capacità femminile di stare in una relazione positiva con il lavoro. Le competenze vere – quelle che in realtà il mercato chiede alle donne, salvo poi riconoscerne solo parzialmente il valore – non sono tanto skills chiaramente elencabili, ma molto di più sono le capacità di immaginare e di anticipare quelle che non è ancora richiesto espressamente dal lavoro, le capacità di stare in territori lavorativi incompleti, parzialmente ignoti. È importante nominare queste competenze, perché appartengono storicamente a chi ha avuto un rapporto eccentrico con i contesti lavorativi e ha usato capacità divergenti di lettura e di interpretazione. È lo spostamento che suggerisce Wislawa Szymborska nella poesia Scrivere un curriculumche abbiamo pubblicato su “Diversamente occupate” (DWF 1, 2010).
Una nuova lettura
Abbiamo la libertà di costruire una nuova lettura del mondo e del mondo del lavoro, chiediamoci se si può interrogare il lavoro diversamente, se si possono dare letture del lavoro diverse, o se dobbiamo tenerci quella dominante. Non abbiamo bisogno/desiderio di un nuovo paradigma, non di nuovi aggiustamenti di equilibri oramai scardinati, ma di pensare una teoria del lavoro fondata diversamente: che ci permetta di pensare il soggetto che lavora e il cambiamento della crisi, il soggetto che lavora e le sue capacità di trasformare e di produrre. Inventare nuove letture serve a tutte e a tutti, non solo per trovare nuove forme di protagonismo alle donne, ma per affrontare la crisi, per affrontare un’economia che quando cresce non crea occupazione, per affrontare un mondo che non può più dare al mercato il compito di regolare le economie. Sappiamo che questo tipo di sviluppo si alimenta di crisi, che si rigenera attraverso le sue disfunzioni. E allora cominciamo, per esempio, a pensare il lavoro di cura – un paradigma pensato dalle donne – non più limitato all’assistenza relazionale, domestica, familiare o di aiuto, ma come un modo di fare e trasformare, come cura del processo di produzione e di lavoro, cura dell’organizzazione, del sistema, dei contesti, cura dell’attività, cura del bene comune, cura dell’ambiente in cui si vive.
È uno dei nomi di questa scrittura collettiva a venire.