L’affermazione di Luisa Muraro – “tocca alle donne riformulare la questione della violenza” – il 31 maggio alla Casa Internazionale delle donne di Roma, presentando il suo ultimo libro Dio è violent, giunge opportuna perché incontra un sentimento diffuso tra le donne. Le sue parole mi hanno colpita, prima ancora che leggessi il saggio, perché spingono ad andare oltre una certa soggezione femminile rispetto al tema della violo, singoli maschi contro singole donne. Parlo della violenza contro le donne che non è equiparabile ad un uso più generale della violenza. La guerra tra i sessi non è menzionata con la necessaria evidenza, benché sia il baluardo su cui stati e religioni edificano il potere, preservando con azioni e leggi specifiche, il rapporto di forza tra i generi a scapito di donne e bambini.
E’ la violenza sessuata a favorire l’insorgere del monopolio dell’uso della forza, sia in privato che in pubblico, da parte degli uomini. La convivenza quotidiana delle vinte coi vincitori, al limite della complicità, rafforza l’idea che in una società ci siano i forti e le deboli; origina rappresentazioni e comportamenti in cui alcuni corpi sono violabili e l’ordine è imposto dai più forti. L’ordine sociale a cui il patriarcato sottopone gli stessi uomini, le donne e i corpi inermi dei bambini è speculare all’ordine che un popolo più forte può imporre ad un altro con la forza, con una guerra giusta. Come fanno gli uomini con le donne.
E’ a questo punto del mio ragionamento che colloco il passaggio successivo di Muraro rispetto all’uso della forza, quando scrive: 
“A chi detiene un potere quale che sia, io non mi presento dichiarando che ho rinunciato all’uso della forza fino alla violenza se necessario”. (p. 28)
Lo faccio mio. Mi metto sul confine tra forza e violenza  per essere – come dice Federica Giardini nel suo saggio La forza e la grazia. Per una genealogia nel libro collettaneo Sensibili guerriere di cui è anche curatrice – non solo, soggetto di discorso ma anche soggetto consapevole della propria forza, fino alla violenza se necessario. Se sto su questo confine non sono più sulla difensiva; l’essere nata donna diventa un privilegio; la responsabilità verso di me e verso il mio corpo diventano misura nel rapporto con l’altro da me. Compresa l’altra, compresi i figli.
Certo, un conto è osare un pensiero e un conto tradurlo in pratica politica. Le due cose non sempre procedono parallelamente, ma sono tutte e due necessarie per un nuovo racconto. Lo sfondo per il mio pensare e per il mio agire futuro rimane la democrazia, pur con tutti i limiti che conosciamo; non conosco altre forme di convivenza civile che mi facciano immaginare un nuovo patto sociale, il quale  comprenda la differenza tra i generi come un diverso punto di partenza per affermare differenti diritti, differenti doveri.
Lo dice la storia delle donne che ci hanno preceduto. Loro hanno trovato la misura per un patto sociale che ha anche dato i suoi vantaggi. Noi dobbiamo trovare il q.b., il “quanto basta”, adesso.
Possiamo fare come il coniglio della favola di Clarice Lispector. Un coniglio chiuso in gabbia ebbe una grande idea anche se
“nessuno crede che i conigli siano capaci di pensare. Loro quindi ci hanno rinunciato, e oggi sono tutti stupidi e felici.”
 La sua idea era di uscire dalla gabbia ogni volta che restava senza mangiare. Ma era difficile: le sbarre erano vicine, il coniglio era grasso e per aprire la porta bisognava tirare il chiavistello. Solo gli uomini avevano la forza di farlo. Ma il coniglio scoprì come uscire dalla gabbia, non solo quando aveva fame. 
“Aveva preso gusto alla libertà e cominciò a scappare solo perché gli andava.”
La favola non rivela come fa il coniglio, dice solo che lo fa.
Il come lo sa solo il coniglio.