C’è un passaggio, sito alla fine della densissima introduzione a Il secondo sesso, in cui De Beauvoir pone una questione che ritengo essere centrale per il pensiero politico femminista e non solo.
L’autrice, criticando l’incapacità delle donne di costituire un noi che le individui come soggetto collettivo, preliminarmente costruito sul genere, evidenzia la tendenza delle stesse donne a condividere la propria condizione innanzitutto e prioritariamente con un uomo della medesima condizione. Gli esempi sono diversi e la condizione materiale è tra questi: una donna proletaria condividerà con più facilità la propria condizione con un uomo proletario, così come una donna borghese costituirà più facilmente quel noi con uomini della medesima estrazione sociale e materiale piuttosto che con donne proletarie. Poche parole per sollevare un tema annoso, affrontato prioritariamente dal femminismo degli anni 70 con radicalità e spregiudicatezza .E’ infatti contro una certa lettura marxista, che dietro l’ambizione dell’ uguaglianza di tutti in realtà nascondeva ancora una volta la trappola dell’universale maschile, che le femministe – nel pieno della potenza del movimento degli anni 60/70 – hanno ribadito (pure attraverso la sperimentazione di pratiche separatiste) la necessità di costruire un soggetto collettivo differente , centrato innanzitutto sull’essere donne in carne ed ossa, anche se inserite in un contesto storico, economico e sociale. La radicalità delle posizioni delle femministe degli anni 70 era necessaria: di anno in anno, per quasi un decennio, si stava andando costruendo un movimento largo, costituente, eterogeneo, radicalissimo; un movimento capace di condizionare i governi nazionali e transnazionali, ed era dunque una priorità per le femministe – protagoniste più o meno attive di quel movimento – non lasciarsi sfuggire un’altra occasione, non lasciare che l’organizzazione e irrigidimento dei luoghi della presa di parola comportasse ancora una volta nella storia l’esclusione delle donne. La sfida all’universale maschile negli anni 70 fu più facile che in qualunque altra occasione precedente, certo. Tra i movimenti circolavano i testi dei pensatori francesi, l’autonomia operaia provava a non appiattire la dimensione rivendicativa solo su salari e diritti, ma metteva al centro il bios e i desideri. Ma neppure questo sarebbe bastato.
Ancora una volta, non era agli uomini che si poteva delegare la deflagrazione della norma. C’era bisogno che le donne si costituissero finalmente in quel noi che un po’ di anni prima De Beauvoir auspicava, per affrontare frontalmente il patriarcato e metterne a nudo ogni retaggio, anche il più nascosto. Poi però gli anni 70 sono finiti, e la ritirata dei movimenti, di tutti i movimenti europei, avrebbe forse dovuto far interrogare le femministe sull’efficacia delle stesse pratiche che pochi anni prima erano state così potenti. Il rischio è chiaro: senza un orizzonte costituente, da cui operare una separazione strategica, la ricerca di un noi femminile preliminare finisce per mettere in campo una pericolosa auto-rappresentazione, dimentica del tutto di quelle condizioni materiali citate da De Beauvoir. Allora il noi si costruisce ma probabilmente sarà (e di fatti è stato quasi sempre così) un noi di donne bianche e occidentali. Questa trappola rischia di far perdere completamente di vista le connessioni tra sviluppo e mantenimento della società patriarcale (o post o neo patriarcale, non è questa la questione) e sviluppo dei rapporti di forza nelle società capitaliste e simultaneamente coloniali.
A questo proposito citavo Gayatri Chakravorty Spivak, una femminista postcoloniale che parte da un’analisi meticolosa della divisione internazionale del lavoro, osservata da un punto di vista che lei stessa definisce di doppia subalternità, femminile sessuato e non- occidentale. Nel testo “Can the subaltern speak?” Spivak si chiede appunto questo: la donna subalterna può parlare o ci sarà sempre qualcuno pronto a farlo al suo posto, ad assumersi una missione civilizzatrice emancipatoria o di difesa delle tradizioni millenarie dei popoli colonizzati? E’ esattamente la domanda che poneva nel 1949 de Beauvoir. Semplicemente è posta da un’altra angolazione. Quella che rifiuta sia la la “benevolenza” dei colonizzatori bianchi, sia la “resistenza” dei maschi subalterni. Spivak è critica con tutti: con il collettivo dei Subaltern Studies, con i pensatori francesi (Deleuze e Foucault) imbevuti di cultura imperialista, con il femminismo internazionale che ha costruito il noi di donne bianche ed occidentali e ha ritagliato per le altre un ruolo passivo e ricettivo, forti di un noi sempre autocentrato. Certo gli spunti di Spivak forse non valgono solo per la dicotomica scissione tra terzo mondo ed occidente. La subalternità non è solo nera.
L’occidente ha colonizzato ampie regioni del suo spazio interno, creando lande di subalternità. Non esiste uno spazio omogeneo della ricchezza. Allora, tornando all’introduzione de Il secondo sesso, suggerisco di affiancare agli attributi del noi femminile, collettivo, anche quello di “subalterno”, in modo da scansare la trappola della scelta: prima donne o prima proletarie? Donne e subalterne. Ove per subalternità, forse a questo punto non c’è neppure più bisogno di spiegarlo, non intendiamo affatto solo il campo della condizione materiale, ma una condizione complessiva, frutto dei rapporti di forza capitalistici e simultaneamente della norma occidentale: universale e maschile.