Primo incontro – Intervento di Silvia Nugara

Mi sembra particolarmente importante e stimolante organizzare oggi un seminario su Il Secondo Sesso di Simone de Beauvoir perché abbiamo l’opportunità di far funzionare il testo in modo polifonico, mettendolo in dialogo non solo con la nostra esperienza – in cui a volte, sentendo le ragazze ancora più giovani di me, ho l’impressione che nel femminismo l’ontogenesi segua in parte la filogenesi  e quindi ben venga confrontandoci tutte insieme sulle radici di un pensiero e di una pratica per arricchirle  – ma anche con quanto è stato scritto dal 1949 in poi. Rileggendo le riflessioni di de Beauvoir attorno alla categoria “donna”, mi viene in mente Monique Wittig, di cui quest’anno ricorre il decennale dalla morte.
Militante, pensatrice, creatrice, Wittig ha un percorso molto interessante e, volendo, complicato all’interno del femminismo anche data la sua vita divisa tra Francia e Stati Uniti: con Antoinette Fouque è tra coloro che danno vita al primo nucleo di quello che sarà battezzato Mouvement de Libération des femmes (e anche formalmente registrato come marchio….). Partecipa alle manifestazioni delle donne nei primi anni ’70 al grido di “Un homme sur deux est une femme” ma il suo pensiero si evolve presto verso posizioni  antidifferenzialiste e verso una radicale rimessa in discussione della categoria “donna”. Il pensiero di Wittig è fortemente in relazione con Il secondo sesso come dimostra soprattutto l’articolo On ne nait pas femmme (1980) raccolto insieme ad altri nel volume La pensée straight. Ripreso oggi dalle teorie queer, il lavoro teorico di  Wittig è molto articolato e si basa sull’idea che se esiste una categoria “donna” è solo in relazione alla categoria “uomo” e in virtù di una costruzione culturale che ha assegnato all’apparato riproduttivo un’eccessiva centralità da cui derivano la continua costruzione (e naturalizzazione) della differenza sessuale e l’eterosessualità obbligatoria. Come de Beauvoir, Wittig critica la categoria “donna” assegnandole lo status di “mito” da cui il femminismo deve avere il compito di affrancarsi:
L’ambiguïté du terme « féministe » résume toute la situation. Que veut dire « féministe » ? Féministe est formé avec le mot « femme » et veut dire « quelqu’un qui lutte pour les femmes ». Pour beaucoup d’entre nous cela veut dire « quelqu’un qui lutte pour les femmes en tant que classe et pour la disparition de cette classe ». Pour de nombreuses autres cela veut dire « quelqu’un qui lutte pour la femme et pour sa défense » – pour le mythe donc et son réenforcement. Pourquoi a-t-on choisi le mot « féministe » s’il recèle la moindre ambiguïté ? Nous avons choisi de nous appeler « féministes », il y a dix ans, non pas pour défendre le mythe de la femme ou le réenforcer ni pour nous identifier avec la définition que l’oppresseur fait de nous, mais pour affirmer que notre mouvement a une histoire et pour souligner le lien politique avec le premier mouvement féministe. (On ne nait pas femme, 1980, p. 79)
Per Wittig il femminismo come parola e come pratica si giustifica storicamente ma il suo obiettivo non deve essere quello di emancipare la donna, di integrarla come pari dell’uomo o di valorizzarla in quanto differente, bensì quello di abbattere la “donna” in quanto classe attaccata inscindibilmente alla sessualità (etero), di abbattere la differenza sessuale basata sulla dicotomia uomo/donna, e di rompere con la centralità della riproduzione nella definizione e nella differenziazione interna all’umano.
Redazione

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