Loredana Rotondo, è autrice di docufilm e programmi radio e tv, militante femminista e sperimentatrice appassionata. Entra nel 1968 alla Rai per concorso come sceneggiatrice e programmista. Viene assegnata ai programmi radiofonici (1969-1972) dove è responsabile del primo programma con telefonate in diretta (Chiamate Roma 3131). Con la riforma Rai del 1975, negli anni in cui si passa da una modalità monoculturale a un modello pluralistico e di sperimentazione, Loredana è a Rai 2, diretta in quel momento da Massimo Fichera. Di quegli anni fanno parte alcuni dei programmi che hanno segnato la storia della televisione: Fatua, incongrua e scucita (1976); Riprendiamoci la vita (1977); Processo per stupro (1978): film-documentario d’inchiesta, diffusosi in tutto il mondo, realizzato in modo collettivo, riprende un processo durato diversi giorni, mostrando quanto succedeva nei tantissimi processi per stupro che si svolgevano in Italia. Segue AAA Offresi (1981): docufilm sulla prostituzione, realizzato dalle stesse autrici di Processo per stupro. Il programma non andrà mai in onda, bloccato dalla censura. Loredana, assieme a Massimo Fichera e alle cinque donne che con lei avevano realizzato il programma, è accusata di violazione della privacy e rinviata a giudizio per sfruttamento della prostituzione. Saranno assolte con formula piena nel 1994.
Tra il 1999 e il 2004 realizza tre serie particolarmente innovative de La Storia siamo noi, costruendo un gruppo di registe/i che introducono nella formula già consolidata della serie spunti incisivi di innovazione linguistica. Nel 2002 nasce la serie Vuoti di Memoria, che si concluderà nel 2007. Si tratta di venti docufilm dedicati a figure luminose e misconosciute della nostra cultura, scomparse da poco. La serie rappresenta l’approdo di una ricerca costante, portata avanti dall’inizio dell’esperienza di Loredana.
Sono passati quindici anni dalla prima messa in onda di Vuoti di Memoria alla Rai. Descriveva figure di donne e di uomini da non dimenticare, che hanno attraversato il loro tempo senza mai smettere di lottare, con forza e autenticità. Ricordarle riempie ancor oggi le nostre vite. Sapere del nesso tra passato e presente, riconoscere che la memoria è sempre processo sociale condiviso, è la motivazione che ci ha spinte a incontrare Loredana Rotondo.
Le abbiamo chiesto, in un dialogo ininterrotto durato due ore, di svolgere e riavvolgere insieme a noi i nastri e i fili della sua vita che l’hanno portata a creare enormi spostamenti nei linguaggi e nella realtà.
La nostra conversazione comincia così, all’improvviso, mentre osserviamo il tavolo al centro della stanza. Un tavolo basso, e quasi invisibile: è infatti ricoperto di libri, moltissimi libri. Saranno un centinaio, in ordine sparso l’uno sopra l’altro e disposti in modo concentrico. Autori diversi, generi diversi e stili diversi. Veniamo attirate da un’edizione particolare de L’arte della Gioia. Da Goliardia Sapienza a Vuoti di Memoria il passo è breve.
Alessia: Prima di incontrarti abbiamo visionato molto del tuo lavoro. In particolare, rispetto all’operazione fatta con Vuoti di Memoria, ci sono sorte molte domande.
Loredana: Il nomero 0 della serie Vuoti di Memoria è dedicato a Goliardia Sapienza, grande scrittrice e a mio parere anche grande attrice, non a caso ha insegnato recitazione al Centro Sperimentale di Cinematografia. Dopo la morte di Goliardia, avvenuta nel 1996, suo marito Angelo Pellegrino mi aveva fatto leggere L’ Arte della Gioia, pubblicata senza fortuna alcuna credo nel 1999. Avevo subito capito che si trattava di un’opera importante, che ho letto d’un fiato, senza riuscire a smettere. A Rai Educational, prima di salutarci per l’estate, avevamo fatto una riunione organizzativo-editoriale in cui era spuntata l’idea di lavorare su figure importanti, morte da poco. L’idea non mi piaceva, mi rimandava alla tristezza dei necrologi dei giornali. Nel corso dell’estate, però, dopo la lettura de L’arte della gioia, la figura di Goliardia si era conficcata al centro dei miei pensieri, me la sognavo persino di notte. Così, dopo le vacanze, alla fine di Settembre con Massimo Fichera ho proposto di fare riferimento a figure della nostra cultura non riconosciute sufficientemente in vita piuttosto che ai “soliti noti”. Nasce così l’idea di Vuoti di Memoria, il format di Rai educational in onda dal 2002, dedicato a figure luminose della nostra cultura: si tratta di 11 uomini e 9 donne, assolutamente misconosciuti. Tanto misconosciuti che alcuni dirigenti Rai non sapevano neppure chi fossero. Ad esempio, di Goliardia Sapienza e Carla Lonzi mi chiedevano «Chi sono queste “carneadi”?».
Federica: Una domanda che volevamo farti era proprio come è stato il tuo rapporto con l’istituzione della Rai, come sia stato possibile starci tutta intera. Perché tu ci sei stata tutta intera e i risultati si vedono. Però come è stato, cosa ha comportato? Che ambiente era?
Loredana: Per rispondere a questa prima domanda sull’istituzione Rai e il mio essere donna, posso raccontarvi sistemando la mia esperienza “storicamente”. Devo premettere che ho imparato a tenere un filo dentro le mie esperienze in modo da poterle accumulare, tenendo tesi il senso e gli esiti e la cifra professionale e politica. Ho cercato di non disperdere mai tutto questo bolo che ho continuato a masticare nel tempo, nel lavoro, nell’esperienza e che è anche il frutto di un esercizio di lettura critica di quello che si fa. Adesso ve ne posso parlare proprio rintracciando questo filo, questo senso della continuità e questa economia della non dispersione dell’esperienza. Questa possibilità di accumulare credo sia preziosa, per chi la fa, ma anche per la condivide con te, soprattutto se dentro un’ipotesi politica che è proprio quella della relazione, del lavorare insieme. Vi è dunque la necessità di cercare di non disperdere tutto questo, di tentare strade nuove poggiandosi però sui risultati consolidati, anche buttando via esperienze meno riuscite o rimaste meno capaci di produrre chiarezza o consapevolezza.
Per venire ai fatti, io sono entrata in Rai tra il ’69 e il ’70, periodo del ’68, della politica, del femminismo. Ero stata in America durante il movimento pacifista contro la guerra in Vietnam, “Blowing in the wind”, i primi movimenti femministi, Woodstock e molto altro, e questo mi aveva già dato il senso di qualcosa che stava profondamente cambiando nel modo di vedersi e di essere donne, affermando cose che rispetto alle donne in Italia erano veramente esplosive. Quindi io avevo già sentito questo sapore di grande novità. Dopo aver fatto un concorso, in Italia, alla Rai ho fatto la programmista; ho cominciato dalla radio perché non avevo una grande esperienza visiva e perché la radio era un mezzo estremamente stimolante: è infatti molto più capace di promuovere il pensiero astratto, di suscitare e stimolare figure che lo spettatore costruisce in qualche misura in modo autonomo; per me è stata una esperienza formativa estremamente importante e propedeutica per quanto riguarda il senso e la qualità della programmazione radio-televisiva. In America all’epoca si faceva la radio anche nelle università e già usando il telefono. Mi sono trovata quindi a proporre un programma con il telefono insieme a Luciano Rispoli, in quel momento dirigente del settore al quale ero stata assegnata, il varietà. Rispoli aveva sentito parlare di una radio europea che faceva i programmi con il telefono: ci presentammo a una riunione con tutta la dirigenza di quel momento e proponemmo di aprire i microfoni della radio alla voce pubblica, alle persone, alla gente comune. Considerate che all’epoca tutto quello che passava per radio era molto impostato – per la dizione, l’ufficialità – in modo che ci fosse questa sensazione di una voce autorevole, dall’alto, prestigiosa. Era proprio l’Ipse dixit la radio. Ricordatevi che viene dall’esperienza del fascismo. Ed erano per lo più le donne a chiamare: perché erano a casa, la mattina. Il programma fu subito molto connotato da un linguaggio di genere o comunque, come diremmo oggi, sessuato, anche per le problematiche affrontate. Noi invitavamo le donne a raccontare i loro problemi e cercavamo di trovare in qualche modo delle risposte. Tutto questo far venir fuori dalla radio i dialetti, le emozioni, le storie di vita, fuori dall’ufficialità del linguaggio, fece uno scalpore impressionante e mostrò che era necessario aprire occasioni di espressione a un pubblico differenziato sul piano delle classi, dell’età, del genere.
Quando è nata la proposta di Chiamate Roma3131 ero molto giovane e i colleghi più anziani della radio di Torino, in tono un po’ irridente, mi hanno chiesto con un accento piemontese: “Ma chi vuole che le telefoni, dottoressa Rotondo?”.
Invece, da un milione di ascoltatori del mattino, dopo sei mesi arrivammo a sei milioni, avevamo sestuplicato l’ascolto. Non è che la quantità di ascoltatori faccia la qualità, la cosa è più complicata di così, però sicuramente fu una grossa sorpresa e l’occasione per grandi riflessioni e novità. Poi però per me, che ero la curatrice di questa trasmissione, Chiamate Roma 3131 cominciò a diventare un rovello, un’occasione per pormi dei problemi che mi procuravano un malessere piuttosto acuto anche se non ben definito. Perché tutto questo dire, parlare, in forma quasi di almanacco, aveva in sé la potenza e la freschezza della rottura degli schemi linguistici. Però era anche la manifestazione di quante difficoltà e quanti problemi – concentrati e specifici – fossero connessi alla vita delle donne.
Mi resi conto che questo bisogno di parlare, e questa difficoltà nel trovare risposte soddisfacenti o idonee diventava quasi uno spettacolo fine a se stesso. Cercai di trovare delle soluzioni, risposte più competenti. A quel punto ho detto: chiamiamo ancora più esperti! Mi son guardata in giro e mi sono detta: se c’è un problema psicologico chiameremo lo psicologo; se c’è un problema religioso, il sacerdote; se di salute, il medico. Ma mi rendevo conto piano piano che le risposte erano tutte dentro quello che oggi chiameremmo l’ordine simbolico maschile. Ancora oggi è forte, ma immaginate all’epoca! Per me fu motivo di sconcerto. Mi resi conto infatti che, a fronte di tutta quella voglia di dire e di trovare delle risposte, c’era come un riflesso, un intento normalizzante e io in qualche modo ne ero tramite. Questa per me fu forse una delle prime illuminazioni femministe. Forse una donna, mi dissi, risponderebbe diversamente. Allora cominciai a cercare donne competenti ed esperte, ma appunto di nuovo con mio grande sgomento mi accorsi che ce n’erano pochissime in grado di avere credibilità; cercai di trovarne alcune che potessero dare risposte in parte alternative a quelle che venivano mediamente dalle professioni gestite con un’ottica maschile ma, insomma, ne ho trovate pochissime. Quando sono andata a proporle mi hanno detto: “eh, ma sa…ma chi sono queste? Lei ci deve portare nomi di chiara fama!”.
Ci furono anche altre questioni. Questo modo di fare, di parlare, il dare questi spazi che all’improvviso permettevano alle donne di tirare fuori tutto il loro disagio, cominciò a dare fastidio. Mi si disse: “Questo programma non facciamolo in diretta, registriamolo. Lo differiamo di qualche minuto, almeno così si può controllare meglio, perché magari qualcuno può dire qualche parolaccia”. In dieci mesi non era mai venuta fuori un’espressione che non fosse più che consona. Tutte queste preoccupazioni mi fecero via via sentire estranea a quel lavoro. E mi dimisi perchè sentivo che c’era qualcosa di essenziale che mi sfuggiva, o almeno non mi era chiaro. Mi sono accorta che il meccanismo finiva per essere censorio, sia sul versante – diciamo – della pura comunicazione, sia per come i problemi delle donne venivano visti, trattati e spettacolarizzati. Per cui andai a lavorare a Radio 3 dove, per dire, si potevano incontrare Elsa Morante, Moravia, Alfonso Gatto, Pasolini. Insomma, c’erano trasmissioni importanti, culturali. Lavorai persino con Vittorio Sermonti a un’edizione radiofonica del Decamerone. Ma lavorare ai cosiddetti “programmi culturali”, prestigiosi ma fermi nella chiave maschile, mi faceva comunque sentire in una sorta di limbo.
In estrema sintesi, diciamo che anche nei momenti peggiori ho tentato di fare esperienze non troppo in contraddizione con il mio essere donna. L’istituzione non è sempre in grado di accogliere il bisogno di una donna di rimanere aderente a se stessa. Però può succedere: bisogna provare, soprattutto quando sono in atto movimenti storici importanti, e sicuramente se c’è una rivoluzione culturale in corso. Non si può dire a priori che l’istituzione non lo permetta per definizione. In certe condizioni bisogna forzare l’istituzione a tenerne conto, soprattutto se si tratta di un servizio pubblico come la Rai. Il discorso sui diritti certo non è sufficiente, ma talvolta necessario. Lo stesso discorso, a mio avviso, vale per l’emancipazione: non basta, ma ha prodotto i suoi effetti e non è sempre in tensione oppositiva rispetto alla liberazione.
Approdare alla differenza sessuale è stato molto liberatorio e molto bello, perchè ha costituito un punto di svolta che dava risposta a tutta una serie di problemi rimasti come arenati, sospesi. È servito anche per vivere in chiave non personale ma politica la complessità di quel tempo. Non ho mai accettato l’idea che se lavori in un’istituzione allora non sei utile al femminismo o non puoi essere femminista lì dove stai. Allora da dove puoi esserlo, da dove agisci? Sei esule, sei un’estranea, sei priva di un contesto? Personalmente non ho potuto che essere femminista nell’istituzione.
Federica: Questo è stato evidente nella realizzazione di Processo per stupro…
Loredana: Penso di si. Processo per stupro è stata una grande fatica, perchè si è trattato di far collaborare due istituzioni “granitiche” come la Rai e un Tribunale su un tema così delicato e mai prima affrontato. Lo sforzo è stato premiato da un grande successo di pubblico e di critica1. Il pubblico televisivo ha rintracciato in quel racconto, in quella narrazione, un linguaggio differente. La diversità del messaggio, prodotto da un gruppo di donne, in quel contesto, con uno sguardo autonomo, fu molto ben accolta dagli spettatori non solo a livello quantitativo. Processo per stupro ha circolato per il mondo, con feedback sempre positivi. Si era prodotto evidentemente qualcosa.
Non era stato facile produrlo, né riuscire a metterlo in onda. Fu essenziale il rapporto con il direttore di Rai 2 di quel momento, Massimo Fichera. Un uomo di cultura, entrato alla Olivetti giovanissimo, che aveva una serie di posizioni politiche e professionali che lo portavano a coniugare il rapporto tra servizio pubblico televisivo e società e a capire il ruolo storico dei movimenti. Sono andata da lui a dirgli: “Mi devi firmare questa lettera di richiesta di permesso per andare a filmare un processo per stupro al Tribunale di Latina”. “Ah – sorride – mi vuoi inguaiare così”?, dice, e io gli rispondo: “Tu sei il direttore, se vuoi me lo firmo io.” C’era una dimensione di rispetto nella differenza. Si era reso conto della provocatorietà di questa scelta, di andare in quel luogo per documentare esattamente quello che nelle nostre riunioni femministe si diceva, ossia che durante i processi per stupro è la vittima a diventare imputata e deve essere lei a rendere conto dei suoi comportamenti. Ecco un uomo che si rende conto di star facendo un’operazione che può metterlo in difficoltà rispetto al suo genere, ma che per una questione di onestà intellettuale e acutezza politica ci mette la firma. E che poi, a sua volta imputato, si viene a sedere vicino a te nel Tribunale quando tu sei accusata, insieme ad altre cinque donne di aver violato la privacy dei clienti di una prostituta, di aver fatto la tratta delle bianche e di aver sfruttato tu la prostituzione2.
Non è detto che nell’istituzione non si rivelino luoghi o incontri in cui si possono produrre certe alchimie. Dunque l’istituzione non è totalmente impermeabile al cambiamento. Queste opportunità noi le abbiamo cercate. C’era un forte movimento in piazza, certo.
Alessia: Hai parlato dello stare dentro l’istituzione Rai come dimensione non esclusivamente personale – avendo inoltre responsabilità verso il pubblico – e hai detto anche che c’è qualcosa che permette di non disperdere l’esperienza, uno stare a contatto con i processi di consapevolezza e con i movimenti. Mi chiedo allora quali sono le relazioni che hanno accompagnato e attraversato questo percorso. C’erano forme di forza che si davano nelle relazioni, con altri e con altre, dentro la Rai?
Loredana: Per me frequentare i luoghi delle donne e partecipare in modo costante alle attività del movimento è stato fondamentale. Non mi sono mai fatta mancare libri, incontri collettivi, relazioni, riviste, convegni. Proprio da un convegno internazionale sulla violenza contro le donne (che si è svolto al “Governo Vecchio” nel ’77) è nata l’idea di Processo per stupro.
Non meno importante però è l’aver vissuto il contesto della Rai assieme a colleghe, compagne di lavoro, donne che sentivo affini, e poi con quelle che sapevo essere dichiaratamente femministe, per esempio Laura Valle, Lucia Luconi, Tilde Capomazza… Tra di noi facevamo delle riunioni, c’erano dei gruppi anche dentro la Rai. Lucia Luconi, che ha lavorato tanti anni dopo con me a Vuoti di Memoria, è anche il filo delle relazioni.
Lei per me è la figura di una donna capace di una libertà misteriosamente e meravigliosamente necessaria. Serena, allegra, limpida. Due giorni dopo Processo per stupro Lucia Luconi fu seguita da un gruppo di gentiluomini, otto, fino a casa. Uscita dalla Rai, è stata violentata da questi otto signori sulla porta di casa, nella zona di Monte Mario. Anni dopo, quando è riuscita ad elaborare questa esperienza, ha scritto un libro che la racconta quasi in forma di sceneggiatura e di film (Venticinque minuti una notte. Autopsia di una violenza, Serarcangeli 2008). Lucia reagì bene, ebbe il coraggio di denunciare, venne in Rai, facemmo un’assemblea molto partecipata, da uomini e donne. Mi raccontò che era tornata dai suoi familiari a Carrara, dove aveva avuto un rapporto particolarmente importante con suo padre. Non lo ha vissuto come vittima: ha restituito questa esperienza in maniera estremamente forte. In qualche modo Lucia Luconi è stata violentata al posto mio e delle altre cinque donne: è difficile non pensarlo. C’è sempre questa sorta di imbarazzo, questo peso, questa responsabilità; forse il senso di colpa che noi sempre ci portiamo dentro. Tra noi, tra lacrime e sguardi di grande rispetto e affetto e di sorellanza vera, abbiamo ripercorso tutta quella vicenda, anche alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, in occasione della presentazione del suo libro. La nostra relazione ha contato. A lei non è mai venuto in testa di pensare che sarebbe dovuto toccare a qualche altra, e a me non è mai venuto di sottrarmi al fatto che questa cosa è accaduta e che io vi avevo avuto parte.
Successivamente abbiamo lavorato insieme per anni a Rai Educational. È stata la cura e la regia di alcune puntate di Vuoti di Memoria.
Lucia mi ha scritto dei messaggi prima di morire di SLA, qualche tempo dopo. Lei è una delle donne centrali della mia esperienza: perché neanche un attimo ha avuto un tentennamento, non mi ha mai dato l’impressione di non essere assolutamente salda nella sua soggettività, nel suo buon diritto e sicura del fatto che quello che ci è successo era esperienza storica. Avendo questi riferimenti è più facile gestire la relazione anche nei momenti più drammatici.
Alessia: Ci sono stati casi di censura?
Loredana: Si, ma siamo state molto sostenute, io e il mio gruppo di lavoro, quello con cui abbiamo fatto Processo per stupro e poi AAA offresi che come sapete è stato censurato la sera stessa in cui sarebbe dovuto andare in onda. Una cosa molto pesante: c’è dentro tutta una retorica della prostituzione (pensate, ad esempio a Fellini, a La città delle donne). Non avete idea di che quadro distorto e patetico sia, e comunque mantenuto nell’invisibilità. Noi non solo volevamo portare alla luce il fenomeno ma anche mettere sotto osservazione il cliente, quando di solito ci si concentra sulla prostituta. Ma la prostituta è una e i clienti sono qualcosa come quaranta al giorno. Complessivamente, per il numero di prostitute – 80mila in Italia, se non ricordo male – si calcolavano 8-9 milioni di “utenti”3. Presumo ci sia una certa piega del comportamento maschile che io attribuisco a una sorta di miseria sessuale, che sicuramente incide anche nel loro modo di vivere la sessualità, anche nelle coppie, in cui è in gioco quello che si chiama amore ma in cui all’uomo viene richiesto il protagonismo, la gestione dell’atto sessuale. Guai se una donna è titolare del suo desiderio. Finchè anche gli uomini non saranno contenti del fatto che le donne abbiano un desiderio sessuale autonomo – che niente toglie, anzi semmai si pone in un confronto fruttuoso e piacevole e divertente – non credo che sarà possibile una forma di amore che non risenta di certe storture. Per carità, non ero e non sono una sessuologa; mi limito ad esprimere opinioni maturate nel tempo, dentro questo magma oscuro che si accende – a tratti e a pezzi – sulla prostituzione.
Malgrado, come credo, si siano fatti passi avanti giganteschi da allora, ancor oggi sul tema della prostituzione scatta ancora una sorta di autodifesa generale e noi facciamo ragionamenti che sono in parte iperliberisti – “Ma si, ognuna fa quel che vuole” – e banalizzanti. Non abbiamo raggiunto il cuore della questione. Meno che mai a quell’epoca. Per questo ti trovavi di fronte donne che ti chiedevano “Ma perché sei andata proprio a vedere la scena della prostituzione?”. Perché? Per il fatto che quando parti dal discorso sulla violenza, è quasi automatico che si vada a vedere chi è il violentatore, che tipo di esperienza sessuale ha, perché vede la donna come un oggetto, perché la usa a questo modo, perché riesce a spezzarla fino a reificarla e a vivere il suo corpo come scisso.
La censura di AAA Offresi è stata fortemente emblematica. Nel momento in cui però viene riconosciuta, anche da chi non è d’accordo con te, la tua onestà intellettuale, il fatto che non ci vuoi speculare, che non ne fai una questione di scandalismo spicciolo per l’audience, che non hai neppure violato il codice penale, in qualche modo vai a mettere in difficoltà l’immaginario sessuale maschile corrente. Anche gli uomini in fondo, forse, oggi sanno che così non va bene, quindi qui si tocca anche la loro contraddizione. Non si possono più coprire e rassicurare l’uno con l’altro. Ho come l’impressione che oggi alcune di queste maglie si siano allargate perché il movimento, o meglio i movimenti delle donne qualche contraddizione l’hanno aperta. Nè va sottovalutato che alcuni gruppi di uomini da qualche tempo riflettono molto seriamente su questi argomenti.
Federica: Abbiamo visto il documentario del 2004 su di te, Quasi ineffabile. Una femminista alla Rai. Mi ha colpito la tua affermazione circa l’uso delle tecnologie, che apre dei varchi laddove il potere crea staticità.
Alessia: Infatti su questo, una domanda molto concreta. Nel documentario hai sottolineato il passaggio all’uso del videotape: certi passaggi nell’uso delle tecnologie a cosa hanno portato materialmente? Sto pensando a quanto oggi la digitalizzazione sia un altro momento con cui fare i conti. Ma mi interrogo sul modo in cui venivano creati e ideati i format, e su questo nuovo uso dello strumento. La domanda è: cosa significa maneggiare uno strumento piuttosto che un altro? Che consapevolezza prevede, come cambia lo sguardo?
Loredana: Tante domande, tutte interessanti. Potrei rispondere in sintesi che significa poter affrontare nuovi contenuti, nuove relazioni, nuove forme di organizzazione del lavoro e quindi più ampia possibilità di produrre nuovo linguaggio. Qualche esempio: Chiamate Roma 3131 ha arricchito la specificità del mezzo radiofonico ma, come già detto, ha presentato diversi inconvenienti; con Processo per stupro il videotape, nel lontanto ’78 e per la prima volta in Italia, ha consentito di entrare in modo non intrusivo in un’aula di Tribunale, mostrando come una vittima di violenza sessuale veniva trasformata in imputata. Un altro esempio potrebbe riferirsi a Riprendiamoci la vita, una rubrica televisiva (TV2) del ’76, prodotta internamente alla Rai con i tradizionali mezzi cinematografici. Durante la lavorazione, mi resi conto che l’organizzazione del lavoro condizionava la qualità dei contenuti. Per superare questi limiti abbiamo cercato di trovare e di mettere via via a punto un modo di lavorare diverso e particolare.
Alessia: Il passaggio al videotape è dunque avvenuto dalla radio, questo è interessante!
Loredana: In effetti è stato un continuo passare ad altri linguaggi. Durante l’esperienza della produzione di Riprendiamoci la Vita (un titolo che parla da solo, e che devo molto al pensiero femminista), Loredana Dordi ed io abbiamo aperto un discorso sulla salute delle donne. Loredana, la regista, era passata per Rivolta Femminile, aveva conosciuto Lonzi. In quel periodo avevamo tutte un po’ “il morbillo”, ci si contagiava! Questo progetto, girato – come detto – in pellicola, fu da noi presentato nelle riunioni di programmazione come molto interessante per il pubblico, soprattutto femminile (facendo riferimento a Chiamate Roma 3131, in cui le donne spesso parlavano delle proprie patologie). Ma qui partivamo dall’idea che per salute si deve intendere il benessere psico-fisico delle donne collocato nel complesso della sua realtà sociale, anche ambientale. Questo ci permise di raccontare la condizione delle donne in una pluralità di situazioni. Volevamo cominciare dalle campagne, per poi muoverci verso le industrie e la città. Insomma, la prima edizione (ce ne furono due) fu girata in Emilia Romagna, in Puglia e in Campania, dove, ad esempio, erano molto visibili le differenze nel modo di portare a lavoro le donne. Chi sceglieva e selezionava queste donne? Per esempio, in Puglia era il caporale. Il caporalato c’è ancora, e noi fin da allora ne avevamo chiaramente messo in rilievo gli aspetti deteriori e violenti. Avevamo sottolineato in modo iperrealistico quali erano le brutture di questo modo di rapportarsi al lavoro di migliaia e migliaia di braccianti.
Devo molto alla regista Loredana Dordi, che aveva fatto il Centro Sperimentale di Cinematografia. Io non mi rendevo neanche del tutto conto di quanto fosse importante la sua competenza per me, perchè venendo dalla radio ne sapevo poco; è allora – durante la realizzazione di Riprendiamoci la vita – che ho cominciato a capire come si poteva usare l’immagine, un linguaggio forte e pieno di simboli, e a capire quanto i simboli siano scottanti, perchè non hanno un’efficacia limitata – il simbolo ti esplode in testa, può andare in tutte le direzioni – e ho scoperto la bellezza del linguaggio visivo. Non è stata una mia scelta intenzionale, ma per mia forma mentis ho sempre lavorato sull’esperienza acquisita e sulla continuità. Intanto perchè trovavo soddisfacenti gli esiti e poi perchè evidentemente ho proprio io un’attitudine, una tensione, una passione alla sperimentazione del linguaggio. Perchè sono un’esteta a cui piace frequentare – come peraltro facevo – il FilmStudio, piuttosto che altri luoghi? No, onestamente no. Ma perchè ho scoperto, facendo, che se tu, assieme ad altre, sei portatrice di una soggettività che buca la storia, e se tu ti sei salvata da una prima esperienza come quella di Chiamate Roma 3131 proprio perchè hai trovato gli agganci con tutta una serie di altre donne che hanno i tuoi stessi problemi in altri contesti, e te le trovi nel piccolo gruppo, te le trovi nel collettivo, nel pensiero diffuso, esteso, nelle cose che leggi, negli incontri con le donne, etc., ti dici “allora non sono io che c’ho il difetto! Vuoi vedere che tutto questo è il prodotto di un certo ordine simbolico?”. Questo ti consente di rilanciare le sfide con più forza, con più convinzione, e con il sostegno di questa sensazione di essere come dentro a una ragnatela, a una rete che ti sostiene, in uno di questi soffioni che se ne vanno in giro, ma la singola spora non va da sola. A quel punto ti senti sostenuta dal fatto di essere una nuova soggettività che emerge, che cambia il senso di tante cose perchè le vede a modo suo e non può fare a meno di farlo. Perchè è una necessità che mi ha spinto, io non posso negarlo. Non avrei potuto vivere diversamente questa esperienza, anche nei momenti peggiori. La mia fortuna è stata che in quel momento c’erano tante donne coinvolte, tante donne appassionate e pensanti. Pensiero che circola, elaborazione incessante, ricchezza da spendere qui ed ora.
Durante il processo per AAA offresi, in cui noi autrici eravamo imputate d’aver sfruttato la prostituzione, la Casa delle donne di Via del Governo Vecchio ci ha sostenute molto e costantemente. Ho avuto il sostegno di Franca Ongaro Basaglia, di Dacia Maraini, che sono venute a testimoniare. Ma anche di uomini: su tutti, Cesare Musatti, un uomo di 95 anni4, e anche Alberto Moravia, che hanno ritenuto di venire al processo e prendere posizione. Certo, è anche fortuna trovarsi ad emergere in un certo momento e riuscire a galleggiare perchè intorno ci sono delle condizioni favorevoli. Nel movimento, la tua soggettività è così desiderosa di affermarsi perchè è tutto nuovo, tutto da scoprire, tutto da inventare! È il tuo rapporto con la conoscenza che cambia. Sputiamo su Hegel. Sapete, quando c’è questo, quando leggi Irigaray che ti dice delle cose che cinque anni prima non avresti immaginato, ti rendi conto che c’è un pensiero che cresce, un’onda montante che arriva direttamente fin dentro alle meningi, e anche nel cuore.
Questo da una parte. Dall’altra, c’è anche il fatto che poi ti arrangi con quello che hai, nel senso che dentro la Rai, stabilito che per fare una produzione interna devi passare attraverso 100 pezzi di carta, e 80 persone ti devono dare l’autorizzazione, e poi c’è la troupe che a una certa ora ti dice “No basta” – “Ma sta partorendo una donna, non le posso dire di aspettare!” “Eh ma noi dobbiamo andare a mangiare!”… capisci che bisogna trovare un’altra organizzazione del lavoro. Esistono dei mezzi che te lo possono consentire?
Ancora una volta la fortuna vuole che io incontri qualcuno che già se ne serve: un mio collega, tuttora caro amico, il regista Sergio Rossi. Sergio fa una cosa che si chiama Fatua, incongrua, scucita, su una donna in un ospedale psichiatrico, e usa il videotape. Mi fa vedere il lavoro fatto, che nasce ad uso interno per gli psichiatri democratici dell’epoca con cui collabora: povero di mezzi, ricco di emozioni, in cui forma e contenuto si fondono con sorprendente novità. Effetti speciali? No, l’esatto contrario. Insomma, ecco quando qualcosa ti dà da pensare. E penso “Ma io sto dentro la Rai, ma perché non provo a mandarlo in onda?”. Va in onda, ma non solo: viene pure invitato a Parigi in un convegno internazionale di professionisti della comunicazione visiva sul linguaggio sperimentale (Input).
Che cosa significa questo? Questo: io sono un nuovo soggetto? C’è una nuova tecnologia? Come funziona? Come si produce in questo modo? Si fa un appalto esterno, quindi io non devo più passare per la mediazione tecnico-strutturale della Rai; il videotape lo teniamo noi in mano, non un operatore con un ruolo puramente tecnico. Era un altro modo di lavorare, un altro modo di stare addosso alle cose che si espresse compiutamente l’anno dopo nel programma Storie di vita sull’emigrazione, realizzato nel 1977 con Sergio Rossi ed altri. In conclusione, il passaggio dalla pellicola al nastro magnetico ha consentito di ridurre fortemente i costi. Mentre quello che si girava in pellicola doveva essere molto pensato prima, e realizzato in un tempo limitato e a costi molto alti, il videotape dà la possibilità di girare in modo quasi infinito, consente di andare in una realtà senza grandi luci; permette di stare in un luogo a lungo e di creare una relazione nel contesto in cui si va. Quindi tanto tempo, un fattore che permette di creare anche relazioni di fiducia. Ti vedono lì, vedono che hai un interesse che è voglia di sapere, senza un’idea già precostituita. Se vai a girare e hai pochi minuti a disposizione e devi dire molte cose in uno spazio limitato, per forza quasi sempre non puoi non avere già un’idea preconcetta: vai lì, sei un paracadutista che arriva, si prende quello che gli serve per dimostrare la sua tesi e torna a casa. Invece se ci vai disposta a farti cambiare da quello che succede, è tutto un altro modo di stare nella realtà. Una realtà che non parla da sola, quindi comunque ti assumi la responsabilità del tuo punto di vista, delle cose che dici, di quelle che non dici. Perchè tu hai un vantaggio, ma non devi abusarne. Alle volte non sai ancora che ne stai abusando. Vi sono stati alcuni casi, uno in particolare: io sono stata male ma… una donna mi aveva raccontato di aver abortito in campagna. Mi ricordo, lo raccontava in un modo incredibile: “Sai, stu criatur’, io l’agg’ tirat’ fuor’, l’agg’ pulizzat’”. Io l’ho mandato in onda, perchè era bello, era poetico, ma il marito si è infuriato quando l’ha vista, e l’ha tenuta in casa 40 giorni! La quarantena, come se io l’avessi contagiata con una malattia! Le avevo promesso che sarei tornata, anche se normalmente noi siamo come i marinai o i soldati di ventura, non torna mai nessuno. Io sono tornata a ringraziarla in un paesino vicino Napoli. Lei non ce l’aveva con me. Abbiamo avuto uno scambio in cui io ho sentito che l’avevo in qualche modo danneggiata, ma non me ne ero resa conto. Forse potevamo presentare quel fatto in un modo meno diretto. Forse non ci avevo pensato abbastanza. Sono cose che facendo questo mestiere bisogna sapere. Nel momento in cui presenti una donna violentata, o una serie di altre cose che non sono facilmente vivibili e compatibili con la loro diffusione, una cosa è fare discorsi teorici, un’altra è viverli nella realtà. Sono tutte cose di cui si dovrebbe tanto discutere, anche tra colleghe, fare proprio dei seminari su questo. Ci sono delle virtù che bisogna avere per fare questi mestieri che non sono solo tecniche o estetiche ma anche etiche e politiche. Forse è vero che servirebbe una patente per fare questi mestieri, come mi pare dica Popper.
Ma torniamo al nostro discorso. Una formula: NS, nuova soggettività, + NT, nuove tecnologie, con tutte le opportunità che esse offrono. Per esempio: devi tagliare e cucire, il montaggio diviene molto più complesso, più ricco di spunti. E cosa produce questa formula?
NS + NT = NL. Nuovo linguaggio.
Se tu, partendo dal tuo essere già differente, portatrice di differenza, usi queste tecniche che a loro volta comportano delle differenze (nel modo di procedere, di produrre, di girare), la somma di tutto questo è probabilmente la possibilità di produrre nuovo linguaggio.
Alessia: l’impressione, dopo aver visto diversi format, è quella di veder emergere da alcune donne una tensione politica dello strumento espressivo utilizzato. Per esempio, nel lavoro su Amelia Rosselli, c’è il mezzo espressivo della poesia come visionarietà, che è poi nient’altro che visione del mondo. E Amelia dice: “Ha senso rinnovare la visione del mondo”. Anche Marisa Fabbri parla del suo essere attrice con una consapevolezza fortemente politica del suo tempo: parla del teatro come il luogo in cui attraverso l’espressione dell’umanità si danno modelli di comportamento e come il luogo in cui si rinnovano, attraverso la messa in scena e la sperimentazione di altri gesti o abitudini sedimentate, in un processo di consapevolizzazione politica forte, in un percorso che non è solo crescita tecnica. Guardando alle storie di Fabbri e Rosselli abbiamo pensato che Vuoti di memoria condivide con le figure di cui parla il loro scopo politico, e questo è anche per il lavoro fatto sulla forza dell’immagine in Vuoti di memoria, che aveva una tensione alla visionarietà.
Ci hai dato questa formula, che è frutto di una ricostruzione di quella sperimentazione, del suo senso. Però, quel che mi sembra di percepire, è che anche nella sperimentazione c’era comunque una enorme consapevolezza di ciò che si stava facendo, uno stare appieno in un processo storico. Nel vedere Vuoti di memoria, quest’idea di consapevolezza si ha molto chiara. Mi ha impressionato molto quando nel lavoro su Amelia Rosselli durante la lettura di una sua poesia, con voce molto profonda, si staglia una serie di immagini che raccontano quello che la voce sta cercando di dire.
Loredana: …anche quella è sperimentazione. Ed è proprio l’esito ultimo di un processo. Tu dici “consapevolezza”: è giusto. Forse succede quando vita, lavoro e politica giocano insieme; e poi c’era la convinzione che operando secondo un desiderio di narrare fuori dai meccanismi rassicuranti di alcune forme stilistiche standard, si potevano trovare nuovi modi. Il fatto che accadesse, ti confortava, ti portava a dire “voglio riprovare”. E poi non lo fai da sola, ma ragionando in redazione. Io non avrei mai potuto fare la giornalista, rincorrendo sempre l’ultima novità, saltando di palo in frasca. Non ho quella prontezza. Per ogni argomento, ogni tema che mettevo in piazza durante le riunioni di definizione della linea editoriale, ero stata a studiare, ero stata in campagna a riflettere, a pensare a come poter fare per realizzare quel che volevo. Certo è un continuo lavorìo, però se tu porti avanti una ricerca, non ti lascia mai quel pensiero. Una continuità c’è e io rintraccio in Vuoti di memoria il momento compiuto di un percorso. Perché lì c’è la telecamera che racconta la storia con una certa linearità, segue l’evento; poi c’è il videotape che sfrutta i momenti emotivi, li coglie e li integra poi nella fase del montaggio. Già l’immagine nasce in parte sdoppiata, perché un uso del videotape consente degli interventi parziali, frammentari, emozionali, emozionanti.
Federica: mentre vedevo Vuoti di memoria su Paola Levi Montalcini5, qualcuno tra coloro che raccontavano di lei aveva gli occhi lucidi. Questa cosa mi ha colpita. Ho rintracciato una differenza abissale rispetto al tipo di documentario a cui ero abituata in cui non ci si emoziona, semmai si è indotte (quasi con forza) all’emozione dal registro narrativo. Invece stavolta mi stavo emozionando assieme a qualcuno che si stava emozionando. Riusciva a essere un’esperienza sì, che descriveva una vita, ed era anche un momento in cui stavo imparando qualcosa, ma oltre a quello mi sentivo emotivamente coinvolta, davvero. Davvero lì ho sentito il “quasi ineffabile” di cui si parla nel documentario su di te6.
Loredana: …e forse anche un pochino ti rappresenta. Come donna senti quel discorso e quelle immagini come congeniali. Quella è la cartina di tornasole, la controprova che non c’è malessere, disagio, sghembità rispetto a quello che ti viene proposto, ma senti che c’è un’aderenza al tuo essere. Vuoti di Memoria è vero che cerca di ricostruire vite, più che opere.
Federica: una cosa totalmente imprevista, travolgente.
Loredana: Produrre imprevisto, essere imprevisto è quel che Carla Lonzi ci dice che dobbiamo fare. È bello quando succede. Perché non puoi programmare di fare una cosa imprevista. Puoi creare le condizioni e un po’ fare come i rabdomanti. Quando accade è il massimo. Non solo: il montaggio, la struttura linguistica di Vuoti di memoria, ha una sua complessità e una sua originalità. Innanzitutto per la qualità delle sue registe. Prima fra tutte Gianna Mazzini (che aveva lavorato con me anche alla costruzione alla Rai del Progetto Donna). Gianna ha portato un sacco di novità, costruito uno stile. Lei per prima usa un doppio registro di racconto realizzato con due telecamere di formati diversi. Lei sostiene che, quando si racconta la vita di qualcuno c’è sempre un sacco di roba che rimane fuori, inespressa, invisibile. Per superare questo senso di insufficienza, Gianna ha introdotto nel linguaggio di questi documentari l’uso di due telecamere con caratteristiche ed effetti d’immagine diversi. Una telecamera ad alta definizione e una piccola macchina digitale, una “telecamerina”. Alla prima ha dato la responsabilità del racconto ufficiale, alla seconda ha affidato la parte emotiva del racconto, quella che spesso rimane fuori.
Volevamo che ci fossero non solo le parole dei testimoni e la loro emozione, ma anche la nostra emozione. Oggi sono parecchi a girare così. Ma Gianna è stata la prima. Mi ricordo con quanta difficoltà la Rai ha recepito questa novità. Non era prevista. La ragione del noleggio di una camera in più, e per di più con quelle caratteristiche, non veniva proprio capita. Era il contraltare tecnico della difficoltà di capire perché parlare di persone molte delle quali sconosciute. Nel gruppo di regia c’era anche un uomo. Lavorando con noi in redazione ha dovuto prendere atto e fare i conti con la percezione che esista e agisca una differenza. Mauro Morbidelli (regista di alcuni Vuoti di Memoria, ad esempio quello dedicato ad Anna Maria Ortese) ha svolto un lavoro in cui si è confrontato con i risultati, non solo formali, che avevamo raggiunto e che, dice lui stesso, ha provato talvolta a imitare.
Alla fine, tornando allo schema linguistico di Vuoti di memoria, fateci caso: è come se ci fosse una fettuccia su cui alcune cose sono messe in maniera lineare; però poi ci sono degli insert, che possono evidenziare, in certi momenti, o rendere prevalenti un suono, un’immagine, una modalità della ripresa; una zoomata dentro una fotografia: non è una fotografia morta, ma un rimettere in vita una fotografia, attraverso questo “entrare”.
Il nostro montaggio riesce a costruire un intreccio di suoni: perchè la musica c’è, e conta, e in certi momenti prevale, e dà degli stimoli; e poi c’è la fotografia; e poi c’è la pittura; la telecamerina che aggiunge quella cosa che ti sposta, e quindi ti spiazza. Dal terreno della narrazione lineare all’uscita emotiva. Le alterazioni: noi ne abbiamo fatto un uso relativo, ma nel montaggio puoi alterare l’immagine. Puoi scurire una sequenza, farla diventare color seppia; puoi modificare i tempi della ripresa. È un modo per suggerire qualche cosa, che diventa contenuto attraverso il fatto che tu hai elaborato quell’immagine già nel corso della ripresa: hai cioè già pensato che ti serve alterata, è un filtro tecnico-emotivo contestuale alla ripresa, che talvolta può persino riuscire a trasfigurare la realtà.
Non è dunque un procedere lineare. Non c’è la voce fuori campo che fa la cucitura, che riempie i vuoti che tu non sei stata capace di riempire. Tutto questo complesso di stimoli e di elementi del discorso realizzano un testo complesso che credo che sia poi la cifra che caratterizza Vuoti di memoria. Abbiamo lavorato tanto in redazione, discussioni e riflessioni sul cosa e il come e il perchè del format scelto. Non posso non ricordare a questo proposito l’ottimo contributo di Daniela Ughetta. In realtà tutti noi della redazione per più di tre anni ci siamo scambiati il frutto di questo lavorio. È diventato un modo di raccontare specifico, nostro, che è nato da quel momento, da quel preciso stare insieme, da quell’impostazione. Da cosa nasce cosa, da relazione nasce relazione. E i contenuti e le relazioni si contaminano e questo modo riesce a rendere non uniforme, ma condiviso, il modo di fare. Ciascuna ci mette il suo: la sua sensibilità, la sua capacità. Però si sente che Vuoti di memoria è percorso da una unitarietà, che nasce da tutto quel che vi ho detto, che viene e avviene prima, durante e dopo.
1 Ricerca Mesomark n.6795, luglio 1980; Prix Italia 1979; Processo per stupro venne inoltre mostrato al Moma, che lo ha acquisito nei suoi archivi.
2 Loredana fa riferimento alla denuncia che ha fatto seguito al programma, mai mandato in onda, AAA Offresi. Il documentario, censurato dalla Rai in seguito all’intervento della ommissione parlamentare di vigilanza, raccontava l’attività di una prostituta francese, Veronique, osservando la prostituzione da un posizionamento inedito, centrandosi sulla figura del cliente. Era il 1981. Vi furono aspri dibattiti, un processo durato tredici anni e il sequestro della pellicola, per anni nelle mani del Tribunale di Roma perchè “corpo del reato”, restituito infine alla Rai dopo la definitiva assoluzione. Tuttora non è mai andato in onda.
3 Cfr. G. Blumir, A. Sauvage, Donne di vita – Vita di donne, Mondadori 1980, libro da cui erano partiti Loredana e le sue colleghe.
4 Studioso, psicologo e psicanalista, è il fondatore della psicanalisi italiana.
5 Pittrice, sorella gemella di Rita.
6 Quasi ineffabile. Una femminista alla Rai, documentario del 2004 realizzato da PorticoTV. Visibile on line sul sito www.women.it.