Recensione di Matteo Martellacci
“In questi lunghissimi trent’anni abbiamo vissuto sotto l’egemonia di una potente illusione, il pensiero unico che utilizzava un criterio quantitativo della misura dello scambio: il modello della democrazia liberale occidentale, gli standard degli indicatori statistici e delle classifiche internazionali, lo scambio a mezzo del solo denaro, la negoziazione tra individui sulla base esclusiva del calcolo costi-benefici. Ora, più donne che uomini sanno che la vita ha misure che il mercato non conosce”. (dalla prefazione di Federica Giardini)Tra le realtà che non possono essere ricondotte alla logica quantitativa e astratta della società occidentale contemporanea, un posto prioritario spetta all’università. Questa è la considerazione di fondo che possiamo trovare in Università Fertile, un volume curato da Anna Maria Piussi e Remei Arnaus, in cui sono raccolti interventi di numerose docenti e ricercatrici del Centro di Ricerca di Donne dell’Università di Barcellona (Duoda) e della Comunità filosofica femminile dell’Università di Verona (Diotima).
Nel libro le esperienze personali e le teorie che ne derivano trovano una piacevole armonia, che si sviluppa negli interventi delle autrici. Per questo motivo, nonostante la delicatezza degli argomenti affrontati,Università Fertile si presenta come un volume vivace e di facile lettura, anche per chi non è ha una grande familiarità con questi temi. Un libro, dunque, rivolto alle/ai docenti, ma anche a tutte le studentesse e gli studenti, le ricercatrici e i ricercatori che vogliono dedicare un momento di riflessione alla realtà che vivono quotidianamente e rappresenta uno snodo cruciale per la propria formazione.
Le autrici dei vari testi rivolgono una forte critica al modello economicistico e aziendalistico di istruzione superiore, piegato alla logica del mercato neoliberista e allo spirito di competizione, che ha il suo apice nel cosiddetto Processo di Bologna (che in Italia ha portato all’introduzione del cosiddetto sistema 3+2 e quindi alla logica del debito/credito) e nell’istituzione della European Higher Education Area. Questo modello mostra evidenti segnali di difficoltà, che si inseriscono nella crisi più generale di una società che si è affidata ciecamente ai dettami del neoliberismo e della finanza. I punti oscuri del mondo accademico hanno però radici più lontane, che il libro vuole indagare e mettere in evidenza, e ciò emerge dal disagio di tutti coloro, sia donne che uomini, che hanno vissuto per anni un’istituzione diversa da quella che immaginavano e desideravano. Per superare la crisi del mondo accademico plasmato dal neoliberismo, ora più che mai sembra necessario ricondurre l’università alla sua natura, a un sapere utile ma disinteressato, legato alla società, alle comunità e alla vita degli individui, senza essere schiavo dell’economia e della finanza.
A tal proposito, le autrici affermano con convinzione quanto sia oggi opportuno riprendere una prospettiva teorico-politica femminile, ossia il pensiero e la pedagogia della differenza sessuale. Fin dall’introduzione, Arnaus e Piussi ci ricordano come la presenza femminile sia ormai un fatto chiaramente visibile nella sfera pubblica in generale, e ancora di più nel mondo accademico. Si è quindi parlato di una femminilizzazione dell’università, che tuttavia non ha portato un effettivo cambiamento della sua cultura e del simbolico in essa dominante. Da qui un paradosso: “nell’università ci sono sempre più donne, ma non per questo l’università come istituzione si è lasciata trasformare. Essa rimane in larga misura caratterizzata da modelli maschili di sapere, di ricerca, di pensiero, di gestione e di organizzazione del lavoro”. Perché l’università possa svolgere un ruolo innovativo e propulsivo nella società, essa deve riconoscere e valorizzare il contributo originale che le donne possano apportare, in quanto “figure centrali e imprescindibili per una società più giusta e libera, per una economia al servizio della vita, per una convivenza più civile, mediatrice delle differenze”.
Il messaggio è rivolto sia alle professoresse e ai professori, sia a chi si affaccia oggi al mondo dell’università, a tutte le studentesse e gli studenti che conoscono solo sommariamente (o non conoscono affatto) l’apporto che molte donne, a partire dalla fine degli anni ‘60, hanno fornito al processo che ha segnato la fine dell’università ottocentesca. Un’università che da allora si è aperta a nuove energie e passioni, a un nuovo legame tra vita e sapere, e che non deve e non può più essere considerata come una cittadella chiusa, arroccata. Sfortunatamente, però, nel corso degli anni l’istituzione ha perso il proprio legame con la vita comune ed è stata progressivamente colonizzata dal mercato. Scrive in proposito Antonia De vita: “Di fatto l’università (perlomeno in Italia) si è aperta solo alle aziende e ai privati, ma non al territorio, né a quelle istituzioni pubbliche significative per la propria vocazione”.
Questo stato di cose condiziona la carriera (e la vita) di chi lavora o svolge attività di ricerca in università, come testimonia nel suo brano Asunción López Carretero, che ricorda l’espressione di un collega: “Ci fanno muovere tra l’ansia e l’avidità”. L’ansia deriva dai continui richiami a una produttività priva di un senso chiaro, in cui emerge la crescente competitività all‘interno delle università. L’avidità è fortemente legata alla competitività, e spinge molti soggetti a una carriera universitaria basata sull’individualismo e sui rapporti umani strumentali e mediati dal potere. Ora, diverse autrici sottolineano che tale impostazione è molto più frequente tra gli uomini, e quindi ascoltare i contributi femminili, dare un peso alle loro voci, sarebbe vitale per recuperare un diverso senso di cosa si fa nell’università, e dare importanza a tutte le relazioni non strumentali che possono instaurarsi al suo interno. Ad esempio, riprendendo un tema molto discusso negli anni ‘70, Chiara Zamboni sottolinea come le donne che amano la politica e cercano di sottrarsi al potere possano instaurare uno proficuo scambio con ragazze e ragazzi giovani che non sono interessati al potere e amano quelle forme della politica che consistono nel partecipare, prendere decisioni.
Infine, c’è un ultimo aspetto del libro che merita d essere evidenziato, poiché può suscitare un vivo interesse nei più giovani. Tra le pagine di questo volume, infatti, studentesse e studenti potranno trovare le risposte ad alcune domande più o meno latenti, riflettere sui motivi di un disagio che avvertono durante il proprio percorso di studio. Ad esempio, il proprio impegno in università ha senso solo in vista di un ingresso nel mondo del lavoro? Il sapere, la conoscenza, devono necessariamente essere intesi come pacchetti informativi da spendere sul mercato? Sembra che ragazze e ragazzi stiano perdendo il senso del proprio tempo, spinti da un’insana competizione e da una frenetica corsa verso il futuro. Anna Maria Piussi riflette su questo aspetto nel suo intervento, ponendosi alcuni interrogativi:
“Ma chi ho oggi davanti a me quando entro nell’aula, quando parlo con una o uno di loro, durante i ricevimenti? Studenti? O giovani persone molto affaccendate (ciò che conta è altrove?), spesso schiacciate dall’ansia del futuro e della ricerca di un buon lavoro, disorientate rispetto a sé e ai propri desideri, e perciò poco disponibili allo scambio, all’ascolto, al mettersi in ricerca insieme, alla fatica di pensare, in altre parole a imparare? Se ho davanti una piccola folla di giovani che si rappresentano e autorappresentano come clienti seriali dell’azienda università, pronti a consumare pezzetti di saperi irrelati e presto dimenticati, a rivendicare i propri diritti tarati sulla contabilizzazione di tempo, esami, voti, ad attraversare frettolosamente lo spazio-tempo universitario venendo da un altrove e andando verso un altrove molto più interessante, io non sono un’insegnante”.