Furore come unica matrice del cambiamento, inizio dell’auto-trasformazione, liberazione dai peccati degli altri. Espressione della rabbia degna e dell’odio contro un mondo organizzato sul principio della disperazione e della mancanza. Il furore divino in cui Platone riconosceva la vera conoscenza di dio. L’espressione di una potenza femminile che è quella della creazione, di una nuova conoscenza e di una nuova vita. E’ “la furia dei cervelli” di Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri, un manifesto, una chiamata, un tentativo, forse il primo dopo anni di movimenti frammentati, di ricomporre e costruire, una coalizione, una nuova repubblica.
Il manifesto del Quinto Stato: un esercito di 6 milioni di lavoratori indipendenti che in Italia svolgono attività di supporto all’impresa, erogano servizi, trasmettono saperi, conoscenze, informazioni, oppure si occupano della cura e dell’assistenza alla persona; sono lavoratori a partita iva, a collaborazione, a progetto, precari, abitanti di una zona grigia che è il lavoro contemporaneo, schiavi con un’aspettativa di vita pari all’incerta durata del contratto. Ma non solo, il Quinto Stato eccede lo status professionale, la categorizzazione (para)contrattuale: è espressione di una condizione generale della società, degli indipendenti tutti – giovani e anziani, autonomi e parasubordinati, italiani e stranieri – che rivendicano una cittadinanza altra. “L’indipendenza è una maniera di vivere e, come tale, non può essere racchiusa in una categoria giuridica, professionale, in una fede e tanto meno nel “precariato”, che è ormai una condizione trascendentale della vita e del lavoro, non un soggetto specifico o universale” (p. 91).
Una chiamata ad alzarsi e a prendere coscienza, a partire proprio da chi il Quinto Stato lo compone, ad affrontare la pesante genealogia di un soggetto – l’indipendente – che non mai avuto cittadinanza, e a modificare i confini di quella cittadinanza che li vede ai margini, apolidi, vagabondi, stranieri in patria. Una rivendicazione che sfida alla radice lo stato sociale fondato sul lavoratore maschio, a tempo pieno, unico soggetto riconosciuto come cittadino perché portatore delle capacità di governo che derivano dalla produzione di beni materiali. Una rivendicazione che prende corpo, parole e pratiche anche dai movimenti femministi che hanno fatto delle donne i soggetti di rivendicazione di autonomia e autodeterminazione rispetto allo stato patriarcale. L’identikit dell’indipendente lo dimostra: difesa dell’autonomia ma anche ricerca della felicità, cura dei corpi e dei tempi, della comunità intera, pensiero del governo di sé in funzione di quello degli altri; ricerca dell’autonomia come asse di una sperimentazione che è politica del quotidiano. Indipendenza come una forma di vita necessaria per sottrarsi all’economia del mondo e per creare un’economia altra, fatta a misura di corpi autonomi dal corpo dominante. Un qui ed ora come condizione del vivere, una fuga sul posto, che porta con sé il desiderio di fondare una nuova città, un’attività che impegna la funzione riproduttiva e la vita della mente, che cede il passo al piacere della produzione.
Un processo di ricomposizione, la coalizione sociale in quanto consorzio di cittadinanza, in nome di un governo dei beni comuni come governo degli esseri umani e non come amministrazione delle cose, a partire dai principi costituenti del Quinto Stato: autonomia, indipendenza e cooperazione, su cui si fonderà la nuova repubblica che tutela tutte le attività utili alla società, e non solo il lavoro dipendente e subordinato, prendendo a modello le pratiche di cittadinanza, la creazione di nuove istituzioni per l’autogoverno, la tutela dei beni comuni, la garanzia dei diritti fondamentali e degli interessi collettivi, in due parole il diritto vivente. Un progetto ambizioso, che prende le mosse da un excursus storico-politico sulle condizioni e le scelte che hanno dominato lo status dell’indipendente minando alle basi della coscienza collettiva di ogni tempo la possibilità di rendersi cittadini autonomi sia dall’ideale socialdemocratico del servizio pubblico sia da quello liberale della gestione privata, ma che trae forza dalle relazioni, dalle esperienze e dalle biografie dei movimenti che negli ultimi anni, dalla Pantera all’Onda, dal 14 dicembre studentesco alle campagne referendarie fino all’occupazione del Valle, hanno offerto il modello dal quale è possibile immaginare la fondazione di una nuova repubblica. Il tutto attorno al denominatore comune, od operatore semantico come lo definiscono gli autori, del “bene comune”, che “risponde alla condizione generale del Quinto Stato, ne delinea l’obiettivo di massima sintetizzando una serie di complesse significazioni in una pratica comunicabile e simbolica. Con questa idea di bene comune il Quinto Stato indica il desiderio di vivere in modo ecologicamente equilibrato dove è possibile rispettare una qualità della vita, la continuità di reddito, le tutele giuridiche, le garanzie sociali per il lavoro indipendente e un’equa distribuzione delle risorse pubbliche destinate alla cultura, alla formazione e alla ricerca” (pag. 125). E l’occupazione dei lavoratori dello spettacolo del teatro romano sono espressione del cuore della proposta politica del Quinto Stato: intrecciare la rivendicazione di un diritto sociale (il reddito di base ad esempio) con un’istanza politica generale (restituire ad un uso comune un’istituzione culturale come un teatro).
Dall’urlo infuocato del 14 dicembre al saluto dell’occupazione del Valle “Benvenuti nella lotta che era già vostra”, ci sono frammenti, più o meno significativi, di un movimento in marcia, una marcia, non solo simbolica, che nomina la realtà attraverso le proprie esperienze e che si muove verso la conquista di un progetto preciso: ridisegnare le istituzioni, riprendersi gli spazi, immaginare un modello altro di economia e un nuovo welfare.
Vivere da indipendenti. Essere autonomi della cittadinanza. Il Quinto Stato è un atto di creazione.
a cura di Teresa Di Martino