Di Ilaria Boiano
A seguito di un’impegnativa ricerca empirica condotta tra il 2013 e il 2016 presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre, Anna Simone ci consente l’accesso ad un’enorme mole di immagini rappresentanti il diritto e la giustizia nella Modernità, dagli inizi del Cinquecento sino alla seconda metà dell’Ottocento. La possibilità di fruire di tale patrimonio raccolto per la prima volta in un archivio ragionato, già di per sé, costituisce una preziosa opportunità di avanzamento per la ricerca giuridica, sociologica e filosofica italiana verso traiettorie nuove di indagine intorno alla rappresentazione del giuridico.
Ponendosi fuori dall’estetica giuridica che, accettando acriticamente l’avvento della società dell’immagine rischia di tradurre a sua volta la narrazione dei mutamenti sociali e giuridici con un’immagine-testo, Anna Simone ci propone uno strumento di ricerca utile per conoscere la dimensione sociale del diritto e il suo rapporto permanente con la cultura, restituendo al diritto la sua natura di sapere umanistico.
Le immagini raccolte da Simone possono dirci molto, infatti, delle trame connettive tra diritto e società, se lette come fonte documentale suscettibile tanto di analisi qualitativa attraverso l’epistemologia, quanto di analisi quantitativa in relazione al contenuto veicolato da un documento non giuridico. Una raccolta che restituisce alla ricerca contemporanea una genealogia dell’iconografia, degli ordini sociali, giuridici e simbolici più completa, perché non limitata alla sola elaborazione tecnico-giuridica, ma comprensiva del senso comune veicolato anche dalla rappresentazione satirica dello stesso diritto. La misura del potenziale narrativo delle immagini raccolte attraverso questa ricerca ci viene dunque restituita da Anna Simone nel volume Rappresentare il diritto e la giustizia nella modernità. Universi simbolici, iconografia, mutamento sociale, nel quale l’autrice traccia la strada per una lettura originale e profonda della potenza iconografica: le immagini selezionate si susseguono tra le traiettorie argomentative offrendo al lettore lo spessore narrativo «del teatro, della memoria collettiva, della festa catartica» (Cordero, 1986), dando così tangibilità a quel «processo significante che scava nei meandri emotivi degli attori sociali e della stessa idea di società» (p.24).
L’autrice, precisando l’orientamento teorico alla base di questo processo in continuità con le ricerche già condotte e il posizionamento sessuato manifestato come angolazione privilegiata della sua attività scientifica, sceglie di attraversare gli ordini simbolici veicolati dall’iconografia indagando la dimensione storico-sociale del femminile e del maschile nella rappresentazione della giustizia e del diritto, per poi interrogare il loro intreccio nella satira. Quest’ultima, particolarmente valorizzata, secondo l’autrice ha la potenzialità di rendere visibile quello scarto intuito, ma non sempre adeguatamente approfondito, tra la rappresentazione del diritto borghese prodotta dalle istituzioni e la rappresentazione/percezione del diritto e della giustizia da parte della società, come senso comune, togliendo terreno alla cultura tecnico-giuridica quale unica fonte abilitata a ius dicere.
L’immagine è proposta quindi da Anna Simone come «fonte documentale empirica» che consente un piano interpretativo e narrativo aperto ad indagare tanto la forma della rappresentazione del diritto quanto la realtà sensibile e/o materiale conformata dall’esperienza giuridica e tradotta/trasmessa dall’iconografia, stabilendo «ponti permanenti tra cultura giuridica e mutamento, significazione sociale». Questo approccio consente, infatti, di superare concretamente la concezione dell’iconografia giuridica come «testo», per restituirvi la potenzialità di modalità narrativa, ossia di «una forma di scrittura teorico-empirica e socio-giuridica utile ad avvicinare ulteriormente il diritto alla società» (p. 26), ma soprattutto utile a difendere il diritto come scienza umana e sociale, riabilitandolo dal ruolo di «stampella tecnica» al servizio dell’organizzazione del potere.
Poste le coordinate con cui rivolgere lo sguardo alle immagini raccolte, l’autrice, ricordando quanto scriveva Kantorowicz riferendosi all’ordine medievale nel volume I due corpi del re (1989), mette a confronto le rappresentazioni iconografiche della giustizia e quelle del diritto segnalando la dimensione sessuata dei due concetti: nelle raffigurazioni della giustizia si scorge costantemente una mater iuris, intesa come premessa extragiuridica con funzione mediatrice senza la quale sarebbe impossibile concepire la legge. Quest’ultima è invece rappresentata come espressione del pater, del suo potere e dell’esercizio della coercizione, svuotati di autorevolezza ogni qualvolta siano privati del «respiro più interno», cioè di quell’idea di giustizia definita dal rapporto tra il diritto positivo e le norme non scritte che regolano l’esperienza umana nella nostra società.
Il simbolico della legge nella modernità va esclusivamente nella direzione del “sorvegliare e punire” (p.65) codificata con forme di raffigurazione che richiamano il logos (carte, tavole) o la metafora dell’occhio che vigila e controlla, universi simbolici che riconducono entrambi al pater (Dio, l’imperatore, il principe, ma anche la volontà generale del popolo rivoluzionario, che però rimane espressione del potere maschile). L’atto del guardare/guardarsi che mette in gioco il simbolismo dell’occhio viene deprivato della sua funzione di atto fondativo della relazione sociale quale veicolo permanente di emozioni e sentimenti attivati da un’azione estremamente viva che mette i soggetti in relazione, senza oggettivare. L’occhio, infatti, nell’iconografia della legge sovrasta il resto dell’umanità: impone senza accogliere, disciplina le soggettività riducendole ad oggetti della normazione.
Tale raffigurazione prevalente ci parla di un universalismo fondato su una cultura giuridica maschile che non contempla la misura derivante dalla giustizia e dal diritto (p.82). L’universo simbolico e sociale trasmesso dalle icone che nella modernità hanno raffigurato la giustizia conferma, secondo l’autrice, l’impossibilità di ridurre la giustizia al diritto inteso come legge e la necessità di riscoprire il valore e la potenzialità trasformativa di uno ius dicere inteso come espressione di sapere umanistico, prima che tecnico-giuridico, ma anche di un ordine simbolico femminile: l’iconografia prevalente fino al XV secolo mette in connessione la ratio con l’aequitas e ci viene trasmessa la raffigurazione della iustitia intesa come “essere giusti”, cioè come virtù costitutiva dell’humanitas insieme alle altre virtù. Era ancora lontana la logica del “fare giustizia” propria «dell’ordigno penale» (Cordero, 1986), e il simbolismo ricorrente è quello della bilancia alla greca (tantumdem) non retta ma governata dalla domina: nell’insieme tale rappresentazione ci parla di una giustizia concepita come dimensione commutativa, negoziata, equa. Anna Simone ci accompagna tra le icone riprodotte in questo prezioso volume segnalandoci i mutamenti simbolici corrispondenti alla nascita e all’evoluzione delle istituzioni giudiziarie: la Giustizia come virtù cede il passo gradualmente alla Giustizia come potestas e compare la spada, che però non è mai quella degli uomini cavallerizzi esperti delle arti equestri e della guerra, bensì si impone come simbolo, mai brandita ma portata come insegna statica e in verticale, funzionale a punire, ma anche a dare riparo al perseguitato. L’aggiunta della spada si accompagna alla consapevolezza del potere giudiziario di non poter mai essere giusto dinanzi alle differenze di ceto: i piatti della bilancia si sbilanciano a significare l’asimmetria interiorizzata dal potere del Principe. La giustizia sarà però a lungo rappresentata con occhi aperti e splendenti, a cui nulla può sfuggire: giusta infatti è la decisione, ricorda Simone citando Stolleis, che si fonda infatti su una conoscenza che penetra la superficie delle cose. Le mani di un folle a metà del XV secolo benderanno gli occhi della stessa per denunciare la parzialità di una giustizia che ha perso la connessione con l’universo simbolico della mater iuris, e che vede solo chi vuole, di sicuro non il popolo e le sue miserie.
La benda e la cecità della giustizia verranno risignificate con la promulgazione nel 1532 della Costituzione Criminale Carolina voluta da Carlo V: se dinanzi all’idea di pena fondata sulla vendetta e l’afflizione la giustizia rinunciava alla bilancia e alla spada e respingeva con le mani e con lo sguardo le teste mozze che le porge il boia, (così sulla copertina della prima edizione di “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria), con la costruzione della nuova giustizia penale la benda viene valorizzata quale simbolo di imparzialità: la giustizia diventa cieca perché non deve favorire nessuno e la benda protegge dal rischio di essere accecata, dal bagliore intenso del potere sovrano (p.57). La benda però da sola non basta per superare l’ambivalenza dello ius dicere affidato ad una domina bifronte, che rivolge uno sguardo attento al ricco, mentre il povero si rivolge ad un volto bendato.
L’iconografia della giustizia, segnala Simone in conclusione del capitolo secondo, sintetizza nella sua evoluzione l’impossibilità vissuta dagli attori sociali nella storia di far coincidere legge, diritto e giustizia. Quest’ultima, infatti, è stata svuotata del suo significato di mater conciliante e al contempo irriverente dinanzi all’ingiustizia ogni qualvolta essa sia stata confusa con il diritto e la legge del pater, cioè ogni volta che l’ordine simbolico maschile abbia schiacciato quello femminile. L’universo simbolico di mater mediatrice, ma irriverente, è stato però riscoperto dal dibattito femminista che a partire dagli anni Novanta ha scavato negli archetipi, a partire dalla figura di Antigone, e ha decomposto i teoremi: l’autrice ci indica così la traiettoria lungo la quale rileggere autrici fondanti del pensiero femminista sul diritto e la giustizia, quali Judith Butler, Iris Marion Young e Nancy Fraser, ancorando solidamente il percorso di rifondazione di metodo e di ridefinizione del sistema che questo Atelier si propone ad una tradizione di ricerca giuridica sapiente e profondamente umanistica perché connessa all’esperienza.
La lettura dell’iconografia che l’autrice ci restituisce ci consente infatti di percorrere quei ponti tra epistemologia e senso comune, tra sapere giuridico ed esperienza che l’autrice ci ha tracciato, dandoci l’agio, avvalendoci della sua solida analisi, di incedere con sicurezza e, al contempo, irriverenza. L’incoraggiamento ad un gesto irriverente, necessariamente proveniente dal simbolico femminile, ci viene lanciato da Anna Simone nell’ultimo capitolo del suo saggio dedicato alla rappresentazione satirica del “diritto ingiusto” durante la rivoluzione francese e nel periodo della restaurazione.
Le donne ricorrono nelle raffigurazioni del periodo rivoluzionario sia come simbolo del cambiamento istituzionale (si pensi alla Marianne con il suo basco rosso che personifica la République), sia come allegoria, non di rado scandalosa, che incarna in corpi femminili le nuove virtù della rivoluzione, e cioè la libertà, l’uguaglianza e la giustizia, che con la sua nudità spaventa il potere e lo rende ridicolo denudandolo. La giustizia, nella rappresentazione caricaturale di Daumier risalente alla restaurazione, si rivela invece in tutta la sua inumanità allorché tradotta nella messa in scena maschile e cinica, dove il femminile compare solo come oggetto dileggiato. Questa rappresentazione irriverente e caricaturale ha consentito al diritto e alla giustizia di rimanere storicamente connessi alla società, e quindi di mantenersi scienza umana, scongiurando la riduzione a mera tecnica al servizio del potere politico ed economico. In questa direzione, avvalendoci degli strumenti che Anna Simone ci fornisce con il suo studio, il femminismo giuridico, così come inteso dal nostro Atelier, si propone come dimensione privilegiata nella quale riaffermare la cultura giuridica «come cultura umanistica a dispetto del tecnicismo imperante».
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