Il femminismo a Roma negli anni Settanta. Percorsi, esperienze e memorie dei Collettivi di quartiere, (Bononia University Press, Bologna, 2015) ricostruisce il “magmatico e composito scenario del femminismo romano” degli anni ’70 ed è uno studio che a livello storiografico ha notevoli implicazioni. La tesi secondo cui la rottura con il movimento marxista avrebbe segnato la debolezza politica del movimento femminista a livello della rappresentanza – tesi fatta propria anche in testi di storia della filosofia operaista come Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, (Il Mulino, Bologna, 2012) di Dario Gentili – viene in parte smentita dalla ricerca sulle pratiche dei collettivi di quartiere, in quanto sono state queste pratiche, più che la rottura teorica con il marxismo effettuata dai collettivi del centro, a poter essere in continuità con le pratiche operaiste.
La debolezza nella rappresentanza, cioè una mancanza di effettiva inclusione delle attiviste nella politica dei partiti o alla testa dei movimenti sociali, deve essere perciò ricercata altrove. Un interesse risvegliato per i neofemminismi forse riesce adesso a rendere giustizia a questo radicamento territoriale dei collettivi di quartiere, anche se le difficoltà incontrate da Stelliferi nel reperimento e catalogazione delle fonti sono le stesse che fino a dieci anni fa interessavano anche il “femminismo del centro”. In una prospettiva pluralista sia in senso diacronico che sincronico Stelliferi ricostruisce la varietà di queste storie e come chiarisce nell’Introduzione, non si tratta di un lavoro di censimento, ma della scoperta di relazioni umane e territoriali molto più complesse del previsto:
“più m’immergevo nei faldoni di Archivia, più ne erompevano associazioni, redazioni, gruppi culturali e collettivi, molti dei quali identificati con il nome di un quartiere o di un’area della Capitale. Borgata Romanina, Centocelle, Montesacro, Monteverde, Ostiense, Tor Fiscale, Trastevere… quasi ogni zona della città, più o meno periferica, più o meno popolare, sembrava aver dato vita a un collettivo femminista.” (pp. 1–2).
La dialettica tra centro e periferia è un nodo centrale della ricostruzione di Stelliferi. Il movimento femminista non è un fenomeno che si sia irradiato dal centro verso la periferia. La rappresentazione peculiare del libro, infatti, mostra un fenomeno che è fatto di coesistenze e stratificazioni. A volte isole: realtà singolari divise tra di loro non solo dagli anni, ma soprattutto dal tessuto urbanistico di Roma, come nel case-study del collettivo della Magliana. Per questo non si tratta di una narrazione monolitica o autolegittimante. Più che rapporti d’influenza, il metodo di Stelliferi stabilisce una topografia politica dell’attivismo femminista degli anni ’70. Anche se i collettivi del centro-città temporalmente ne sono l’origine di elaborazione teorica più avanzata, con il nucleo del Pompeo Magno e il collettivo di Rivolta Femminile, l’origine temporale è dislocata e differenziata spazialmente in quasi tutti i quartieri della città, in cui si trova ogni volta un nuovo inizio. E la maestria di Stelliferi si dispiega soprattutto nella capacità di restituire le voci delle donne che, con appartenenze politiche e territoriali diverse, mettendo in discussione ogni aspetto della propria vita, apprestarono il terreno per questi nuovi inizi.
La dialettica tra centro e periferia si rispecchia nella struttura del libro e ribalta l’idea della marginalità della periferia, che sarebbe dettata più che altro dalla mancanza di una produzione di documenti e fonti primarie (oltre che di successive ricostruzioni storiografiche). È una mancanza di fonti scritte, quindi, che, con una “caccia al tesoro”, Stelliferi riesce a trasformare in occasione di lavoro sulla storia orale e sociale dei collettivi periferici:
“le femministe attive nelle periferie non condivisero con il resto del movimento «una forte ansia di lasciare tracce»; furono loro, tuttavia, che contribuirono notevolmente a far assumere al movimento una dimensione sociale e di massa”. (p.4)
Questa dimensione di massa si realizza con strumenti politici specifici, forse diversi dall’autocoscienza condotta nel centro, ma decisamente frutto di un incontro tra i bisogni particolari dei territori più periferici (come il bisogno di diffondere la contraccezione, o iniziative di autogestione dell’aborto, la risposta alla violenza domestica e la gestione condivisa del lavoro domestico), e i bisogni generali di quella generazione di donne che, per la prima volta negli anni ’70, si trovava a prendere pienamente parte alla cittadinanza.
E la scoperta della ricerca condotta da Stelliferi è che questa trasversalità generazionale non è assicurata da un sentimento di complicità, da una sorellanza, costituita sulla base biologica del sesso, ma viene dal lavoro ininterrotto delle militanti e fuoriuscite della Nuova Sinistra:
“La mia ipotesi di partenza, secondo la quale a Roma il movimento femminista riuscì ad essere nella prassi, e non solo nella teoria, trasversale a tutte le classi sociali, è stata in parte smentita. I collettivi che si formarono nelle aree di residenza del proletariato urbano furono promossi da ragazze del ceto medio, spesso studentesse universitarie, perlopiù militanti della sinistra rivoluzionaria. Con questo non voglio escludere che ci siano stati casi differenti: ma come si vedrà nella seconda parte del lavoro, dalla mia ricerca è emerso che i collettivi e i consultori autogestiti dei quartieri popolari furono il terreno in cui ragazze in gran parte borghesi e, soprattutto, omogenee tra loro dal punto di vista culturale, tentarono di incontrarsi con le donne considerate “più oppresse” seguendo, quasi sempre, i percorsi già tracciati nelle periferie dalle organizzazioni della nuova sinistra, tra cui Avanguardia operaia, Lotta continua e Manifesto.” (p.6)