Ho cambiato tre volte il testo del mio intervento. Sono molto riconoscente di essere stata invitata a questo evento, che è assolutamente unico. Sono inoltre molto stupita della quantità di cose che abbiamo in comune, molte più di quante mi aspettassi. In questo momento nel nostro mondo, l’America Latina, il grande problema è rappresentato dai femminicidi, forme di attacco mortale al corpo delle donne. Nel triangolo Nord, il gruppo di paesi più violento del mondo, si registrano numeri da morti di guerra. Non c’è una guerra riconosciuta, sono nuove forme di guerra, però il numero di morti è uguale a quello di un paese in guerra. Honduras, Salvador, Guatemala, contano oggi anche con un altissimo numero di sparizioni. Come anche il Messico e la Colombia. In questo discorso non possiamo dimenticarci del Brasile e del momento storico che lì stiamo vivendo. Anche se sono argentina ho vissuto in Brasile e lì ho insegnato. Mi trovo ora con il cuore in mano perché il candidato in testa ai sondaggi delle prossime elezioni si è dichiarato pubblicamente a favore della tortura e dello sterminio degli oppositori politici, dello stupro delle donne (dopo aver detto in diretta, a una deputata nazionale, che non l’avrebbe stuprata perché lei non se lo meritava) e ha affermato in pubblico che preferisce avere un figlio morto a un figlio gay. Tutto ciò sommato alle molte dichiarazioni di disprezzo nei confronti di neri e indigeni. Quando veniamo a conoscenza che in un paese grande come il Brasile il candidato in testa ai sondaggi è una persona del genere, ci spaventiamo. E’ un momento di forte disperazione. Però allo stesso tempo abbiamo avuto la grandissima manifestazione contro i femminicidi in Argentina Ni Una Menos, la grande manifestazione per l’aborto, un problema, quest’ultimo, che ha unito le donne come nessun’altro. Molte donne si sono unite per la decriminalizzazione dell’aborto. E anche in Brasile, la straordinaria marcia Ele Nao ha portato in piazza più persone (soprattutto donne) di tutte le altre manifestazioni della storia di questo paese. Dunque, ho dichiarato a un giornale argentino riguardo Ele Nao, che seppur è molto importante che tante donne siano scese in piazza contro questo candidato presidente, le elezioni saranno sempre un fatto circostanziale. Mentre il fatto che questo milione di donne si sia incontrato in piazza è un evento tanto grande e magnifico. Significa poter fare una politica delle donne a partire da lì, perché credo, come è stato già detto poco fa, che curiosamente, per il gran fallimento della politica degli uomini la politica è arrivata nelle nostre mani. Ultimamente uno degli slogan utilizzato è Ningún patriarcon hará la revolución. Non la farà perché non ha potuto farla! Perché a tutti i grandi patriarchi barbuti che ci hanno provato, mancava riconoscere una dimensione perversa e fondamentale, che è il patriarcato. Il patriarcato inteso non come cultura, come menzionato da qualcuno, ma come ordine politico, come invece si è detto qui. Come dimensione fondazionale, ossia il più antico ordine politico, che perdura fino ad oggi e che è chiamato la preistoria patriarcale dell’umanità. E continua ad essere preistoria. Abbiamo bisogno di superarla e arrivare a una storia, perché sennò, non solamente continueremo ad avere a che fare con i fascismi, ma rischieremo l’estinzione dell’umanità stessa.
Dunque, ho deciso di riassumere nella mia presentazione qualcosa in cui credo, che è un “pensare in conversazione”. Ho annotato due o tre cose che sono state dette dalle persone che mi hanno preceduta e con le quali ho incontrato molti punti in comune. Per esempio, il tema del velo: nel breve video che abbiamo visto, vi sono delle donne che gettano il velo. In questo gesto vedo qualcosa di molto simile alla lotta contro la criminalizzazione dell’aborto nei nostri paesi. Ossia, la legge che criminalizza l’aborto è una legge che non è mai stata vigente in forma materiale, perché, nonostante la proibizione, le donne hanno sempre continuato ad abortire. Oggi, in America Latina, le statistiche ci dicono che si pratica quasi un aborto per ogni nascita. Dunque, che cosa rappresenta la lotta per la legge sull’aborto? È una lotta per sapere chi tiene la penna per scrivere le leggi, no? È anche la lotta di uno stato molto debole che vuole controllare il ventre delle donne come oggetto della sua giurisdizione. E’ anche l’enunciato dell’arbitrio, del capriccio discrezionale dei padroni, dei lords. Ed è una violazione, la peggiore di tutte le violazioni fatta dallo stato. In questo senso possiamo dire che la proibizione dell’aborto, cosi come l’obbligazione del velo, è una dittatura patriarcale dello stato. Nel nostro paese per molto tempo abbiamo parlato dello stato autoritario, inteso come la dittatura militare, però in realtà anche questa è una dittatura, che non vediamo, però è una dittatura: è una dittatura contro le donne. Da ciò l’idea che la proibizione dell’aborto per noi latinoamericane ha la stessa struttura statale dell’obbligo di usare un velo.
Cosi anche l’idea, molto interessante, della donna di Raqqa, che ci dice che ciò che l’ISIS ha fatto con le donne è stato confinarle al loro corpo. Nelle mie analisi sugli stupri, affermo esattamente la stessa cosa: lo stupratore ciò che fa è confinare la donna ai suoi orifizi corporali. La donna non è più persona, ma solo orifizio. Questa è la cosificazione del corpo delle donne, ossia l’obbedienza a un mandato di mascolinità corporativa che esige quella che è chiamata la pedagogia della crudeltà. La pedagogia della crudeltà ci insegna appunto a vedere la vita come una cosa e la principale scuola di questa pedagogia è il nostro corpo, il corpo delle donne. Dunque, anche su questo punto ho trovato una grande affinità fra i temi finora condivisi e quelli dibattuti in America Latina. Ho anche dialogato profondamente con quello che è stato detto durante la sessione anteriore, con l’idea che la teoria è necessaria. La necessità di nominazione, di dare nome alle esperienze che come donne attraversiamo, alle pratiche che stiamo costruendo, ossia la militanza, l’attivismo. Queste due cose, senza lo sforzo di nominazione, finiscono per girare su sé stesse. È necessario dare nome e riflettere sui fatti mediante gli strumenti offerti dalla nominazione. I nomi sono specchi.
Sono rimasta anche immensamente impressionata dall’idea che i cambiamenti devono avvenire su base comunale. Senza di loro nessuno stato può intraprendere il cammino che desideriamo. E qui ricordo una cosa che è stata già citata. Cioè che gli strumenti dei padroni, master tools, non possono servire a cambiare un mondo governato dai master, dai padroni. Considero che uno di questi strumenti sia lo stato. Lo stato rappresenta l’ultima era della storia degli uomini, della storia della mascolinità. La natura dello stato deriva dalla storia della mascolinità, dunque lo stato è uno strumento costruito dal padrone della società. Dobbiamo domandarci davvero se tutti gli sforzi che abbiamo fatto come movimento femminista per entrare nelle istituzioni, puntando tutte le nostre carte sulla trasformazione del mondo partendo dallo stato, dalle istituzioni, sono serviti a raggiungere i nostri obiettivi. Uno degli slogan degli anni ’60 e ‘70 era Il personale è politico, sono convinta che abbiamo cambiato tutto nel personale (cambiato la nostra sessualità, la nostra personalità, la nostra famiglia, la nostra forma di coniugalità, etc.) ma che ci siamo dimenticate dell’altro lato, di trasformare il politico. La domanda a cui dobbiamo rispondere e su cui dobbiamo dibattere oggi è: quale sarebbe la politicità in chiave femminile? Perché sono convinta che per molto tempo nella storia delle comunità c’è stata una politicità delle donne (l’ho capito anche ascoltando le curde parlare stamattina). C’è stata nel comunale un’altra forma di politica, come la stanno ricostruendo nel Confederalismo democratico. C’è stata però una censura, mediante il colonialismo, nel passaggio al mondo moderno. C’è stata una repressione, un ostacolo alla politicità delle donne del mondo indigeno delle comunità. In questa transizione ho visto perdere il potere politico delle donne. Dunque, credo che dobbiamo guardare indietro, come hanno detto anche le donne del Chiapas, recuperare uno stile di politicità e di gestione che è quello della cucina, che è quello dello spazio domestico, ma che al tempo non riguardava solo quello, non era né intimo né privato. Nel passaggio alla modernità coloniale lo spazio politico delle donne è stato privatizzato, trasformato quindi in “intimo” e in un residuo della politica. Dobbiamo recuperare le nostre forme di politicità che non sono burocratiche e che hanno altre caratteristiche, come la capacità di difendere la vita, la sensibilità, la facilità a vincolarsi e a relazionarsi, che son importanti caratteristiche che stanno sopra a “il burocratico”. Infine, dobbiamo indagare che cosa si è perso nel cammino di depoliticizzazione del mondo delle donne, con il passaggio dal comunale al cittadino, che è qualcosa a cui giammai saremmo dovute arrivare, perché lo stato è un master tools.