Sesso, lavoro, amicizia
Sesso al lavoro, il saggio-reportage sulla prostituzione di Roberta Tatafiore scritto nel 1994 e riproposto oggi da Bia Sarasini con un suo scritto introduttivo, è un libro che disarma. Attenzione: non “disarmante”, aggettivo che si usa per le imprese o le affermazioni che restano al di sotto delle aspettative, ma precisamente “che disarma”.
Disarma da cosa? Dalla filosofia, più o meno consapevole, che accompagna ognuno e ognuna di noi quando riflettiamo sulla prostituzione. Tendiamo a porci domande etiche: vendere il proprio corpo è una scelta come un’altra? Prostituirsi è immorale, degradante, banale, servile, emblema di mercificazione, oppure è un portato dello sfruttamento, una brutalità imposta? Ci viene altrettanto spontaneo formulare domande ontologiche: dove sta la causa prima del grande mercato dei corpi? Che spiegazione dare di quel desiderio maschile che ha in sé il peccato originale di stabilire relazioni con le merci più facilmente che con le persone?
Tutto questo a Roberta Tatafiore non interessa affatto. Come una brava fenomenologa osserva e descrive: non si preoccupa di confutare, mette le domande tra parentesi e lavora al suo affresco. “Non parlerò di ciò che è sbagliato nella prostituzione” – avverte fin dalle prime righe e tutto il suo argomentare è coerente con questa impostazione.
Vale la pena di chiedersi perché Bia Sarasini la ripropone a diciotto anni di distanza. Innanzitutto per la sua potenza anticipatrice (e anche immaginativa, benché nulla sia inventato e tutto costruito sul campo) nel cogliere le tendenze del mercato del sesso post-moderno: finita l’epoca della “prostituta massa”, i sex workers di ogni genere si adattano plastici alla domanda sempre nuova dei consumatori. In secondo luogo – e forse soprattutto – per la porosità della rappresentazione del corpo come merce tra merci in questo nostro momento italiano, per la scomparsa dello stigma sociale nei confronti della prostituzione, per l’ambiguità delle nuove figure – le escort e le trans – che, dalle tv e dalle pagine dei giornali, sembrano abbattere le barriere fra vizio e virtù. La vicenda delle olgettine lo ha insegnato: “il bordello non è altrove, è qui”. Tra noi. Si deve al gioco delle probabilità se tra gli “utilizzatori finali” prenda posto anche il presidente del Consiglio.
Sarasini teme che la rabbia di molte nostre ragazze – dall’apparentemente inutile curriculum studi di qualità, e forse legate a un’immagine linda della libertà sessuale – per lo stato di cose che le circonda, trovi nella prostituzione diffusa un obiettivo facile su cui riversare la propria frustrazione, una proiezione negativa che le solleva dalla riflessione. Io sarei con loro più generosa, cercherei le loro speranze nel bisogno di “dignità”, ma capisco che è proprio la distanza da qualsiasi “utopia buona” a rendere significativo il testo di Roberta.
La luce dell’obiettivo, infatti, è sul mercato e la sua irresistibile ascesa. Il mercato del sesso cambia dalla metà dell’Ottocento e raggiunge ai giorni nostri una frenesia economica incontenibile: si parla di nove milioni di clienti con profitti di oltre un miliardo di euro l’anno. Negli anni Novanta l’offerta è così alta che i prezzi calano e il prodotto-servizio si diversifica. E’ il momento del boom delle trans, Roberta Tatafiore descrive in anticipo quella che lei chiama “la strana mistura fra pazienza e seduzione da una parte, e complicità maschile dall’altra” che farà da leitmotiv di cronache e inchieste durante il caso Marrazzo. Ma è anche l’epoca della serialità: scompaiono le rassicuranti vetrine di Amsterdam, mentre Rotterdam inaugura il primo supermarket del sesso con centinaia di lavoratrici e una grande gamma di servizi inclusi. Il cliente è perverso e polimorfo. Il cliente non è mai contento. Il mercato gli va incontro.
Sulle politiche pratiche il libro di Tatafiore è del tutto liberal e ispirato a una linea antiproibizionista: abolizione del reato di adescamento e favoreggiamento, liceità delle cooperative di colleghe e colleghi, no al confinamento delle prostitute in zone a luci rosse. L’assunto è che molte sex workers già esercitano liberamente e molte altre potrebbero farlo se lo sfruttamento fosse davvero disincentivato. Una linea –Tatafiore fa in tempo a vederlo- sempre più difficile da praticare in un mondo in cui la globalizzazione incoraggia gli imprenditori della paura a mescolare la xenofobia alle politiche securitarie, l’immoralismo al perbenismo.
Resta ai margini del suo lavoro il tema della tratta. Volutamente e senza negarlo. Non è la brutalità dello sfruttamento che interessa l’autrice, ma la peste anarchica che attraversa la nostra società e la trasforma: “morto e sepolto il progetto politico della liberazione sessuale – scrive Tatafiore – resta dunque solo la sovversività sessuale del mercato del sesso”.
E’ un libro amaro e ribelle: alla ricerca di una faccia della prostituzione che sia anche libera, coraggiosa e oppositiva. Senza sentimentalismi. Ma il sentimento, quello dell’amicizia, non manca. Sarasini scrive con pudore che, dopo la morte di Roberta, con la sua cura del volume vuole dire anche che “nel tempo non si allevia la tristezza di un’amicizia violentemente interrotta”. Dall’amicizia, dal conversare fitto con i sex workers, da quella che nel gergo sociologico si chiamerebbe “osservazione partecipata”, prende vita ogni riga del testo di Tatafiore.
Roberta Tatafiore, Sesso al lavoro, a cura di Bia Sarasini, Il Saggiatore