Recensione di Ishvarananda Cucco
Nel panorama del pensiero femminile del secolo scorso spicca una figura originale e poliedrica. Un’autrice che già dai primi anni del suo impegno ha contribuito in maniera determinante allo sviluppo di tematiche poi confluite e sviluppate nell’ambito del pensiero femminista. Mi riferisco a María Zambrano, pensatrice il cui contributo teorico è stato condensato da Sara Del Bello in un denso ma agile saggio di recente uscita. Una monografia dalla quale emerge, oltre che l’impegno, l’autentica passione dedicata dall’autrice all’argomento. Di particolare interesse sono i passaggi del testo in cui María Zambrano è chiamata far luce, col suo contributo teoretico e teorico-politico, su delle premesse forse non ancora del tutto illuminate del pensiero femminista. Ed è proprio su questo aspetto che intendo concentrarmi. Lo farò attraverso il personaggio di Antigone osservato con gli occhi della pensatrice spagnola.
L’eroina tragica di Sofocle incarna infatti il prototipo umano in cui confluiscono tutte le tematiche su cui María Zambrano ha riflettuto. Appare del resto significativo il fatto che Del Bello collochi la lettura zambraniana dell’Antigone praticamente a metà del suo lavoro, costituendola implicitamente come uno snodo teorico necessario: raccordo in cui tutti i contenuti problematici affrontati in precedenza convergono, e da cui ne escono trasformati e in qualche modo rigenerati in una coloritura che sembra acquisire il tono di quella speranza che per Zambrano è un primo strumento della dotazione salvifica cui può ricorrere l’uomo europeo (p. 55). Ora, sperare significa disegnare un tragitto salvifico solo a patto di tornare a riconoscere “la propria condizione creaturale”, di “addentrarsi nelle viscere dell’umano”, nella sua finitezza corporea e nella sua indefinitezza/infinitezza interiore. Nulla a che vedere quindi col razionalismo occidentale che si situa nell’astrattezza dell’idea e che per Zambrano ha molte responsabilità nelle patologie dell’Europa della prima metà del Novecento. E Antigone? La sua vicenda per Zambrano rappresenta esattamente questo ritorno alle viscere dell’umano che il razionalismo ha obliterato rivolgendo lo sguardo all’Iperuranio. Lo rappresenta già nella sua dimensione simbolica: la discesa nella tomba, caverna, casa delle ombre, è un percorso inverso rispetto a quello compiuto da Platone, come giustamente rileva Del Bello (p. 122). La discesa nella tomba che è paradossalmente nascita (interiore), scoperta di sé, che si compie attraverso l’incontro con l’altro: “i fratelli Eteocle e Polinice, la sorella Ismene, la madre Giocasta, il padre Edipo, la nutrice Anna e l’Arpia” (p. 115). Questa nascita, scaturita dalla discesa nelle viscere dell’interiorità e dall’incontro con l’altro, si contrappone al “carattere mortifero”, autoreferenziale e solipsistico, del potere maschile, incarnato dalle figure di Creonte, Edipo, Eteocle e Polinice (p. 123). Tutti autori di azioni feconde solo di colpe e di sangue che, riversatesi sulle spalle di Antigone, attraverso di lei trovano redenzione in una morte che è aurora di nuova vita. La vita concreta però – contrapposta a quella astratta e ideale – smarrita dal pensiero e dall’uomo moderni non è rappresentata dalle viscere di per sé, ma dal loro contenuto: amore generatore, pietà, responsabilità, tutte articolazioni della norma più importante che Antigone oppone al decreto di Creonte: la legge di natura (p. 114). In una parola, potremmo dire: autocoscienza. Ma non si esaurisce in ciò la complessità dell’Antigone di Zambrano. Non è un caso che il suo profilo, il contenuto teorico che essa rappresenta e custodisce, ha interessato, direttamente o indirettamente, pensatrici di primo piano – e richiamate da Del Bello nella sua ricostruzione – come per esempio Adriana Cavarero, Luce Irigaray, Wanda Tommasi, Elena Laurenzi, Katja Tenenbaum. Pensatrici. Donne. Perché Antigone, proprio alla luce delle qualità qui solo sommariamente descritte, rappresenta innanzitutto un archetipo femminile: di conoscenza e saggezza. E ciò è evidente per esempio dal tipo di sapere che essa oppone al sapere logico, normativo e astratto costituito dal razionalismo e portato avanti da generazioni di pensatori in gran parte uomini: un sapere dell’anima, che Antigone condivide con altre eroine (donne) dell’universo zambraniano, come Diotima, Eloisa, la Nina di Galdós, S. Teresa D’Avila. (pp. 106-107). Qui il sapere maschile (razionale, astratto, assertivo) non può che tacere e porsi in rispettoso ascolto di ciò che il femminile è in grado di annunciare. La messa in discussione della “ragione egemonica” (E. Laurenzi) è allora una messa in discussione di un intero “ordine simbolico”, falsamente neutrale ma in realtà declinato al maschile (A. Cavarero). Il rifiuto di Antigone di ottemperare al decreto di Creonte rappresenta allora anche quella “indipendenza simbolica” cui mira la stessa Zambrano (W. Tommasi). Ecco che Antigone, nella sua dimensione di prototipo antropologico, diviene per Zambrano – e per le pensatrici che su di lei hanno riflettuto – un faro sulla condizione femminile (p. 105).
Ora, un’interpretazione di Zambrano come autrice animata da intenti meramente critici, non coglie l’originalità dello sguardo della filosofa, come sottolinea Del Bello (nota 364, p. 109), la quale cita una frase emblematica e che mi ha colpito: «non fui femminista, fui femminile». Come interpretare questa affermazione? La risposta a questa domanda passa ancora una volta per Antigone. Antigone, che non nega la legge, oppone alla legge (dello Stato) un’altra norma, più forte: la legge di natura, “legge vera”, “legge del cuore, del sentire originario, delle viscere umane” (p. 121) di cui proprio la donna è custode; silenziosa sì, ma solo fino al momento della responsabilità della scelta. Dunque la dicotomia femminile/femminista enunciata da Zambrano è solo apparente. Il femminile rivendicato da Zambrano è per esempio il richiamo a una corretta interpretazione della differenza sessuale. Una differenza da una parte imposta (dal paradigma maschile) e quindi da confutare; dall’altra naturale, e in questo caso da rivendicare. Nel primo caso, Zambrano invita a osservare come tale differenza sia evidente in ciò che la donna dice e, soprattutto, in ciò che la donna tace, poiché costretta nelle limitazioni di una cultura sviluppata su paradigmi maschili (p. 109). La reazione a ciò passa per l’esortazione all’impegno politico e sociale delle donne, una teoria d’azione sviluppata da Zambrano in numerosi articoli pubblicati dal 1928 nella rubrica Mujeres della rivista El Liberal. Un impegno che deve essere non solo delle donne ma anche dei giovani e di tutte quelle “voci nuove” relegate fino a quel momento a ruoli passivi, chiamati a contribuire alla costruzione del futuro nell’ora più buia per la Spagna del Novecento. Fin qui, la presa d’atto della differenza imposta e le sue possibili soluzioni. Quanto alla differenza naturale, essa è invece rivendicata con forza da Zambrano: come fattore in grado di affermare le specificità della dimensione femminile. Donne e uomini infatti non si situano sullo stesso piano di realtà: ciò che la donna sente e vede è diverso da ciò che sente e vede l’uomo. Da qui l’incoraggiamento a non inseguire un’emancipazione che, nel replicare modelli maschili, allinea semplicemente il mondo femminile a quello maschile, ma a costruire un cammino emancipativo che attinga esclusivamente dal proprio deposito di potenzialità. Perciò non è lo scontro a rendersi necessario, ma l’equilibrio fra questi due mondi (p. 110). Neppure il rancore è più giustificato, dal momento che la presa di coscienza delle proprie possibilità implica nella donna l’uscita dalla sottomissione psicologica e dunque dallo schema del risentimento. Ciò che la donna deve rivendicare è il rispetto: della sua specificità di elemento autonomo, differente e paritario rispetto all’elemento maschile. Ora, per tutto questo, la sola emancipazione economica da sola è insufficiente. È necessaria piuttosto un’emancipazione politica, perseguita da una “donna politica” (p. 111) ancora assente nella Spagna del primo Novecento e fortemente invocata dalla Zambrano di Mujeres: una donna che riesca ad affermare la sua visibilità sociale e dunque la sua dignità.
Tornando ad Antigone, il suo valore per la pensatrice spagnola è anche quello di contribuire a schiudere un orizzonte teoretico che il pensiero occidentale non è ancora stato in grado di descrivere, formalizzare, concettualizzare. Zambrano azzarda questa impresa di dar nome, coniando la nozione di razón poética. Questa è innanzitutto l’esito della ricerca di un linguaggio filosofico che risponda al proprio essere donna (p. 106). Inoltre mostra la nuova direzione che il logos occidentale, ora cristallizzato nell’astratto, può intraprendere per riconoscere, e quindi nominare, elementi del sentire che un nome ancora non ce l’hanno e che solo la poesia, col suo lessico simbolico, è riuscita talvolta a catturare. La ragione poetica è il tentativo di confutare quello che Luisa Muraro definisce “il peggiore degli inganni” per il pensiero, ossia la dimenticanza dell’umano sentire (p. 224). È “una sorta di simbiosi” tra il sentire, proprio della sensibilità poetica, e il capire – nel suo senso etimologico di cogliere, trattenere – proprio della logica filosofica (p. 230). Questo connubio fa sì che la verità (qui propriamente intesa come ἀλήθεια) non sveli se stessa cedendo a un comando coercitivo del pensiero razionale (maschile), bensì attraverso un impulso autonomo di emersione lenta, graduale e continua, ma perennemente incompiuta, in grado di essere compresa solo dall’ascolto attento e paziente del pensiero femminile. Essa acquisisce così un “aspetto aurorale e continuamente nascente” (p. 221) che contribuisce a conferire al metodo razional-poetico di Zambrano il suo carattere visionario-onirico (p. 222), avvicinandolo così ad altri procedimenti egualmente orientati al sentire o al dire propri della poesia e sperimentati da altri filosofi del primo Novecento; si pensi per esempio ai riferimenti heideggeriani a Hölderlin o allo stesso metodo del filosofo di Meßkirch, volto a una “distruzione” critica e concettuale della tradizione filosofica europea; nessi che opportunamente Del Bello rileva (pp. 225 e ss.), colti anche da un grande studioso del pensiero tedesco come Massimo Cacciari (p. 227).
Se la proposta metodologica individuata da Zambrano nella ragione poetica sconta in termini concettuali l’indeterminatezza tipica delle filosofie che si allontanano dal rigore proprio del metodo teoretico, mantiene però intatto il suo valore di chiave ermeneutica per comprendere la parabola teorico-esistenziale della pensatrice spagnola (p. 246) e, in fondo, offre le coordinate per individuare quei depositi di verità rimasti oscuri al pensiero occidentale (maschile) e in grado di offrirsi a una visione nuova. Si tratta evidentemente di un percorso ancora tutto da compiere e su cui il pensiero femminista cerca di disegnare delle traiettorie. Come sempre, tornare indietro, alle premesse teoriche di un itinerario di pensiero, è il modo migliore per un incedere consapevole e spedito. Ecco che il saggio di Sara Del Bello ci offre una densa ma accessibile panoramica adatta proprio a un’operazione di questo tipo.