Abstract
Servono nuove lenti per leggere il presente delle soggettività. Per fabbricarle abbiamo bisogno del lavorio paziente di artigiani-filosofi venuti dal passato, poiché non sempre un’idea ha nel suo tempo la misura adeguata del suo senso. L’attività molecolare e tenace di pensatrici e pensatori intrepidi rompe allora la rigidità della linea di Kronos, rivelando così la sua verità e la sua efficacia anche molti secoli dopo. Così Baruch Spinoza, l’eretico dei suoi giorni e di molti a venire, diventa mappa le cui coordinate filosofiche segnano diverse fra le attuali ricerche e sperimentazioni etico-politiche. Rosi Braidotti, Deleuze e Guattari, Foucault e Donna Haraway sembrano rifarsi al suo materialismo per rispondere a interrogativi oggi molto urgenti: cosa ne è dell’autonomia delle soggettività nel mondo in cui egoismo e proprietà regolano gran parte delle relazioni? Cosa c’è oltre l’isolamento del soggetto umanista razionale e liberale? Noi corpi anomali, lgbtq, migranti e precari, come possiamo aumentare in potenza, cooperare e valorizzare le differenze?Come creare nuovi mondi a partire dai nostri desideri soggettivi, liberi dai dispositivi del biocontrollo?
INDICE
INTRODUZIONE
Capitolo Primo – La prima idea della mente è il corpo
Singolarità molteplici invece che soggetti monolitici: l’Etica di Spinoza;
Per una genealogia dell’attualità: differenti materialismi in differenti contesti
Capitolo Secondo – I Corpi da rappresentati a normalizzati
Foucault: le tecnologie del sé e il governo degli altri;
I processi di soggettivazione tra dispositivi disciplinari e biopotere
Capitolo Terzo – Tecnocorpi. Per l’inefficacia del controllo
La cura di sé al tempo dell’autoterapia
Una possibile lettura delle nuove singolarità: tra tecnocorpi e soggettività incarnate
Capitolo Quarto – Controsoggettività incarnate. Per l’efficacia della liberazione
Macchine desideranti: per farla finita con il giudizio dell’io
La rivoluzione molecolare tra moderno e postmoderno
La potenza dei corpi e le possibilità di controsoggettivazione
Conclusione
INTRODUZIONE
La domanda che ci si impone è di natura etica prima che politica, poiché le forme classiche del politico sono fruste e le sue categorie ci vanno strette come i nostri abiti d’infanzia.
Tiqqun, La comunità terribile
Questa ricerca si propone di tracciare una genealogia, intesa come mappa delle interpretazioni e dei rapporti di forza, della categoria filosofica della soggettività, dalle sue prime concettualizzazioni alle attuali problematizzazioni.
Genealogia significa qui, secondo la lezione foucaultiana, metodo di ricerca che combina i saperi scientifici e la pluralità di luoghi in cui cogliere le dinamiche del reale, per poi far valere i saperi così liberati come indicatori tattici delle pratiche etiche contemporanee. C’è in questa genealogia una compresenza di due registri differenti, in prima istanza quello critico, in seconda quello politico.
La mappa delle interpretazioni si svilupperà intorno alla rilettura del filosofo che per primo ha affrontato la questione del rapporto tra corpi, soggettività e potenza: Baruch Spinoza. Le coordinate filosofiche della sua Etica ci aiuteranno a focalizzare l’attenzione sulla generazione filosofica detta del poststrutturalismo, che in particolare con Deleuze e Guattari per prima pensa la soggettività in termini non dialettici e in un’ottica postidentitaria. La soggettività ci si presenterà allora come molteplice e aperta, piuttosto che unica e chiusa in se stessa. Cercheremo quindi di capire la reale portata di questo mutamento e di spiegarne natura ed effetti materiali oltre che teorici: centrale sarà qui la critica al contributo del laboratorio politico italiano, soprattutto di Antonio Negri e Michel Hardt.
Per verificare, in aggiunta, che la categoria di soggettività, e non quella di soggetto, è una risposta etica e non relativistica alle sfide dell’attualità, si farà riferimento ai recenti apporti teorici del femminismo neomaterialista, in particolare a Rosi Braidotti e Donna Haraway.
Si tratterà, poi, di capire in che misura nella storia dei rapporti di forza la soggettività è stata catturata da differenti dispositivi di normazione e controllo, dalla comparsa delle prime tecnologie del sé al ruolo assegnatole dall’articolazione del biopotere. Fondamentale a proposito è l’opera di Michel Foucault, che spiega il doppio movimento del capitalismo avanzato: la presa in carico delle forme di vita, a partire dai corpi e dalle loro capacità. Foucault stesso ci suggerirà che alla soggettività non si chiede più di produrre beni e ricchezze, quanto affettività e comunicazione.
Nel comprendere tali meccanismi di soggettivazione e assoggettamento sarà perciò opportuno focalizzare l’attenzione sulle linee d’intersezione delle nuove tecnologie disciplinari e dei disparati apparati di governance che operano in presa diretta sui corpi, intesi genericamente come portatori di vita. L’accento sarà posto sulle conseguenze, vissute dalle soggettività incarnate, dell’irrompere delle biotecnologie e dell’informatizzazione. Lungi dallo stigmatizzare come totalmente negativi i mutamenti in corso, si tenterà una differente lettura delle potenzialità che tale nuovo scenario offre alle singolarità in divenire.
Nei primi due capitoli, trattandosi di fare la genealogia della soggettività in quanto mappa delle interpretazioni, lo stile adottato sarà cartografico ma ancora espositivo: qui si cercherà pertanto di tracciare gli itinerari che nel postmoderno si diramano a partire dal nucleo concettuale della soggettività in Spinoza.
Negli ultimi due capitoli trattandosi, piuttosto, di fare la genealogia della soggettività in quanto mappa dei rapporti di forza, l’analisi non potrà che divenire trasversale, poiché dovrà render conto di molteplici e complessi fattori, e lo stile non potrà che essere allusivo, poiché dovrà creare categorie concettuali per capire e descrivere ciò che stiamo attualmente diventando, non solo ciò che siamo stati. Si cercherà, pertanto, di esplorare nuovi stili in quanto si ritiene tale ricerca stilistica fondamentale per una diversa concettualizzazione di una soggettività orientata all’etica della sostenibilità.
Lo stile non è, qui, elemento decorativo. Lo stile è una logistica per la concettualizzazione di nuove strutture del pensiero, condicio sine qua non per l’esistenza di altri modelli critici, per la possibilità di aprire nuovi orizzonti.
Qui la metodologia è informata e attivata dalla specificità dell’esposizione dei contenuti: non si potrebbero, infatti, concettualizzare l’autonomia e il nomadismo della soggettività adottando stile e metodi legati alla tradizione metafisica dualista, essendo essa votata alla definizione di un soggetto neutro e statico. Ecco perché nel capitolo finale e nella conclusione lo stile si farà figurativo e creativo, tentando di essere all’altezza della sfida etica aperta dal nuovo scenario. Ripensare la soggettività al tempo del biopotere richiede, infatti, l’elaborazione di nuovi stili filosofici in grado di creare nuovi concetti. L’adozione, dunque, di uno stile espressivo di tipo associativo e connettivo, piuttosto che dialettico e logico, è da intendersi come felice convivenza di forma e contenuto, al fine di avvicinarsi quanto più possibile a un’analisi che, non ricorrendo al simbolismo e alla logica della rappresentazione/interpretazione, sia essa stessa produttrice di nuovi contenuti, la cui enunciazione coinciderà con il loro stesso senso.
Si cercherà, infine, di rispondere agli interrogativi emersi nel corso della genealogia stessa. La soggettività è capace di divenire molecolare, ma anche di divenire molare. Bisognerà allora sincronizzare etica e politica per comprendere a pieno l’importanza del desiderio nel processo di costituzione di differenti sé, come attesta il lavoro comune di Deleuze e Guattari. Occorrerà al contempo mostrare la compatibilità di soggettività autonome e cooperazione sociale, evidenziando come entrambe siano contenuto e strumento dei processi di liberazione.
La rilevanza sociale della mia ricerca consiste nel sostenere la necessità di un’etica sostenibile per delle soggettività frammentate, colte nella loro costante relazione al sé e agli altri, inclusi gli altri non umani, allo scopo di evitare le derive antropomorfiche dell’individualismo liberalista.
La metodologia scelta nella stesura di questa genealogia è soprattutto quella della lettura, dell’analisi e del confronto tra i testi. Importante in questo processo è il lavoro di ricerca e selezione del materiale di studio, svoltosi tra l’Aletta Institute for Women’s History di Amsterdam Muiderport, la Utrecht Central Library e la Biblioteca Italiana delle donne a Bologna. Essendo il materiale reperito in lingua inglese, il lavoro di traduzione in lingua italiana ha svolto un importante ruolo nella comprensione di concetti e autori chiave.
Di primaria importanza è stata la partecipazione a cicli di seminari e dibattiti, come il Reading Deleuze promosso dal Centre for the Humanities della Utrecht University; il Programme Tutorial della Professoressa Rosi Braidotti intitolato Feminist Philosophies of the Subject; il ciclo Etica e Politica negli studi di genere promosso dall’associazione Orlando, presieduto dalla Professoressa Carla Faralli dell’Alma Mater di Bologna.
Estratto da Capitolo Terzo – Tecnocorpi. Per l’inefficacia del controllo
Il corpo è oggi interpretato da molte pensatrici come vero e proprio luogo del controllo sociale. In quest’accezione, secondo l’analisi che Susan Bordo conduce nel suo Il corpo e la riproduzione della femminilità[1], lo stesso Foucault ne aveva parlato. Ora attraverso il prendersi cura e l’abbandonare, l’indurre a differenti tipi di autoterapia piuttosto che di autoafflizione, si tenta di creare corpi a misura di norme, ritmi-tempi-non luoghi di produzione. Ecco perché ci troviamo come incastrate tra un unico modello di emancipazione possibile che riconferma la logica del Medesimo e una lunga lista di malattie pronte a esserci diagnosticate (nel caso non riuscissimo ad autodiagnosticarci). Bombardamento semiotico e contesto sociale continuano a propinarci la stessa immagine di donna perfettamente in forma, sempre cordiale e accomodante, qualsiasi ruolo ricopra: supermamma o supermanager che sorride cercando di nascondere la fatica che fa per rimanere, o diventare, come appare.
A tal proposito il saggio di Sandra Lee Bartky intitolato Foucault, femminilità e modernizzazione del potere patriarcale risulta particolarmente interessante. L’autrice vi sostiene, infatti, che esistono delle particolari tecnologie disciplinari volte alla produzione di un tipo di assoggettamento, per così dire, femminilizzante. Queste specifiche tecnologie del sé possono essere divise in tre tipologie con funzioni e obiettivi differenti: le pratiche disciplinari volte alla produzione di un corpo di una precisa forma e misura; quelle volte alla costituzione di gesti, comportamenti e movimenti definibili come femminili; quelle che rendono il nostro corpo una pura superficie decorabile. Attraverso l’analisi di queste, molto concrete e quotidiane pratiche che vanno dal body tone al make up, l’autrice arriva a comprendere come la donna, percependosi costantemente come difettosa, sia spronata a prendersi sempre più cura di sé, introiettando in tal modo gli stessi meccanismi di controllo sociale, ovvero diventando la guardiana di stessa. Secondo la sua analisi, infatti, il potere disciplinare non ha solo fondamenta istituzionali, dal momento che può basarsi sulle stesse abitudini diffuse, oggi molto velocemente grazie alle nuove tecnologie e al mercato globale, nel corpo sociale. In questo quadro è più facile capire perché molte donne pratichino queste tecniche di autoterapia nonostante siano in evidente contraddizione con il grado di realizzazione e libertà delle loro esistenze: «Perché non siamo tutte femministe? Qualcosa viene interiorizzato, qualcosa è incorporato alla struttura del sé. E con struttura del sé intendo tutti i modi di percezione e autoconsapevolezza che permettono a un sé di distinguersi sia dagli altri sé che dalle cose singole»[2].
In questo quadro va compreso il dilagare di forme di primitivo rifiuto dei corpi femminili: donne che impazziscono dentro le mura, troppo strette, delle casa, donne che digiunano per entrare nelle maglie, troppo strette, delle autoreggenti. Anoressia, bulimia, isteria, agorafobia: Susan Bordo e Rosi Braidotti ben individuano discorsi scientifici e pratiche mediche che tentano di circoscrivere l’anormalità di questi corpi per ricondurla all’efficacia dei dispositivi di controllo e disciplina. Anche Negri e Hardt, nel loro ultimo lavoro intitolato Comune, riconoscono che: «Il corpo femminile è l’oggetto delle restrizioni e dei controlli più rigidi, e tuttavia, nessun corpo è completamente esente da esami e controlli- il corpo maschile, il corpo di bambini e adolescenti, persino il corpo dei morti. Il corpo del fondamentalismo è potente, esplosivo, precario ed è per questo che richiede un’ininterrotta pratica di ispezione e cura»[3].
L’autoterapia non consiste, quindi, in un miglioramento generale delle prestazioni e della salute del corpo sociale, ma in una serie di pratiche comportamentali-mediche-alimentari-biotecnologiche-informatiche che differenziano i corpi per distinguerne il valore sul mercato globale politico ed economico. Lungi dal costituire una pratica che può condurre le donne, o altre soggettività incarnate, alla liberazione, essa dispiega le sue nefaste conseguenze lungo le diverse linee di etnie, sesso, generazione, status economico.
Per chiarire questo punto fondamentale la Braidotti si riferisce alla ricerca sul cancro di Stacey[4], la quale analizza le attuali pratiche mediche che vertono sul corpo al tempo del biopotere. Dalla sua analisi risulta proprio che l’autoterapia ha la funzione particolare di spostare la gestione e la cura della salute privata – privata nel senso che inizia e finisce con il corpo della soggettività interessata – dalla responsabilità pubblica a quella del singolo. Ella sostiene che la malattia viaggia di pari passo all’autogestione di essa, è una sorta di presa in carico, di occupazione, della soggettività da parte di stessa. Questo si traduce in concreto in pratiche egoiste ed escludenti, dal momento che anche a una lettura superficiale si comprende come non tutti partiamo dalla stessa possibilità di autocurarci. La Stacey ci fa, pertanto, notare che questa individualizzazione della cura sotto forma di tecnologia del sé si sviluppa di pari passo al processo di privatizzazione della salute e demolizione del welfare state che caratterizza i nostri giorni. E le conseguenze, che prima dicevamo nefaste, consistono proprio nell’ossessiva prevenzione igienico-sanitaria, nella presunzione di una medicina che interpreta la malattia come stile di vita anormale e insano, che ci incita a organizzare il nostro corpo come un’impresa di pulizie, il tutto coronato dal successo finanziario di multinazionali biotech e lobby assicurative. Concorda su questo punto anche la Haraway di Biopolitica di corpi postmoderni nel quale si legge: «Il sistema immunitario è un piano per un’azione mirata alla costruzione di ciò che conta come sé e come altro negli ambiti cruciali del normale e del patologico. Il sistema immunitario è un territorio storicamente specifico dove interagiscono politica globale e locale[…]. Nella cultura dell’alta tecnologia il sistema immunitario è sia un mitico oggetto iconico, sia un soggetto di ricerca e pratica clinica di importanza primaria»[5].
C’è forse però un altro effetto che occorre non sottovalutare, del quale la Braidotti parla in un’altra opera, ma che ci sembra d’uopo riportare a questo proposito: sopprimere le immagini di bruttezza e malattia e al contempo indurci tramite la diffusione di tecniche e procedure disciplinari ad automedicarci costantemente – la cellulite è una malattia, un farmaco può curarla! Recita l’ultimo spot della nota Somatoline! – comporta la scomparsa delle impronte di “mortalità” del sé incarnato. Si arriva, almeno secondo quanto apprendiamo da Madri Mostri Macchine, alla sostituzione dello stato naturale del corpo con quello di tecnocorpo.
Questo non ci incute alcun timore, anzi ci affascina. Tratteremo delle fascinazioni cyborg dello scenario postmoderno nel prossimo paragrafo. Qui ci limitiamo solo a ribadire che gli scenari interessanti aperti da questi nuovi contributi femministi non sono di certo quelli delle beauty farm o dell’aromaterapia, bensì quelli delle nuove tecnologie informatiche, dell’uso partecipativo di alcuni media, delle possibilità di “spiazzarci” nel tempo e nello spazio e di superare i limiti biologici della riproduzione, di reinventare un’etica soprattutto a partire da quei corpi che non sono né bianchi né atletici.
Esistono anche, certo non nello spettacolo che ci sottopongono i media mainstream, corpi nella media, corpi grassi, corpi poveri e sporchi, corpi lesbici o queer, corpi anziani e sproporzionati. Questi sono minoranze solo nell’ordine del “mostrabile”. Per noi possono essere modelli di divenire, in quanto capaci di quella gratuità, responsabilità, sostenibilità di cui ci parla la Braidotti. Possono esserlo proprio perché esiste la possibilità della differenza in termini non peggiorativi, perché possiamo guardare a tutte quelle che non sono superdonne come a delle altre costitutive, nel senso immediato di “corpi che possono costituirsi come soggettività autonome” con affezioni, preoccupazioni, agende e desideri differenti.
Mentre cerchiamo di capire come questo sia possibile, atteniamoci a una piccola precauzione di metodo, che consiste nel ricordare che questo processo non è naturale né spontaneo, non si darà da sé se tutte noi altre restiamo “sole” nelle nostre differenze: l’etica è un processo, non un prodotto, quello che ha di importante sta nel mezzo.
[1] S. Bordo, Il corpo e la riproduzione della femminilità. Un’appropriazione femminista di Foucault, in Gender Body Knowledge. Feminist recostruction of being and Knowing, Rutgers university Press, New Brunswick, 1989.
[2] S. L. Bartky, Foucault, femminilità e modernizzazione del potere patriarcale, in Feminism and Foucault-Reflection in Resistence, North University Press, Boston, 1988, p. 77.
[3] A. Negri, M. Hardt, Comune, op. cit., p. 44.
[4] J. Stacey, Teratologies: a Cultural Study of Cancer, Routledge, London e New York, 1997.
[5] D. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, op. cit., p. 137.