Lucertole

Lucertole

di Desirée Memme

«Per le salamandre, dopo una ferita, come per esempio la mutilazione di un arto, c’è una rigenerazione che comporta la ricrescita di una struttura e il recupero di una funzione. […] L’arto ricresciuto può essere mostruoso, doppio, potente. Siamo stati tutti feriti, in profondità. Abbiamo bisogno di rigenerazione, non di rinascita». 
D. Haraway, Manifesto Cyborg 

Giorno (?) sul Pianeta infetto. La luna è sempre lì, non è ancora caduta, anche se ultimamente mi sembra più pesante del solito. Io ho già vissuto così, anche se nessuno lo sa. Ci sono già stata in questo torpore pulviscolare, in questo mutismo dello spazio-tempo. Ho già sperimentato il vuoto delle mani, disabituate a sentire, raccogliere, farsi contenitori, gusci di carne che curano e proteggono, oppure mostruosi tentacoli che stringono dissestano feriscono. Ecco, ora sono di nuovo inutili, questi arnesi strani, di nuovo non so che farci. Proprio adesso che cominciavo a riabituarmi a loro, ripiombano nel timore di infilarsi nelle fessure del mondo, di aggrapparsi alla vita come rampicanti. E la paura viene proprio da lì, dalle mani, come se avessero un cervello proprio che ha registrato tutte le volte in cui si sono sentite inutili e quest’ultima sia solo l’ennesima di una lunga serie di mutilazioni, forse quella finale. 

Ogni sera vengo qui – a 25 passi esatti dalla mia stanza – in questa porzione di cemento sospeso nel vuoto che oggi si fa zattera e ponte di osservazione dell’universo in rovina, il nostro, universo umanissimo e umanizzato, mica quello vero. Quello se ne fotte altamente e sembra ricordarcelo ad ogni suo movimento, ramificazione, spostamento. E meno male. La vita in questo universo vero continua a vivere, con buona pace dei nostri programmi di sopravvivenza funzionali al mantenimento degli stessi sistemi che ci hanno portato alla catastrofe. È una sopravvivenza provvisoria, arrogante e ingenua allo stesso tempo. Da questo ponte nel buio, illuminato da una luna scorpionica, mi sembra di assistere alla disfatta della civiltà umana. Me compresa, non ho l’ipocrisia di non pensarmi invischiata in questa faccenda. 

Ci siamo voluti credere sempre più forti mentre, in realtà, non abbiamo fatto altro che depotenziarci, abbassando sempre di più la soglia di gioia massima a cui poter ancorare lo scheletro. A questo sto pensando ora, mentre osservo i pipistrelli danzare tra i palazzi schivando sapientemente lo schianto proprio quando sembrerebbe inevitabile. Chissà quando impareremo anche noi a farlo. Quali sensori dobbiamo ancora sviluppare per riuscirci? Quali modi di stare al mondo?  

Eppure questo luogo non è solo osservatorio della disfatta imminente, ma anche l’ultimo punto di contatto con la realtà – realtà non solo degli esseri umani, ma dell’esistenza, in qualunque forma abbia voluto organizzarsi. In questo momento mi sembra patetico operare distinzioni, discriminare e nominare. Me n’ero scordata. L’essere umano è scomparso dalle strade e dai luoghi che si è dato e che ha reputato importanti: si parla del silenzio che si è preso tutto, del vuoto incolmabile lasciato dai corpi umani. Sicuri? Chiudo gli occhi. Non è il silenzio a precipitarci nel terrore, ma ciò che l’ha riempito, perché ci ricorda che non siamo gli unici abitanti, qui, e che quando scompariamo il mondo continua ad esistere. A muoversi, strisciare, frusciare, rumoreggiare, articolarsi senza il nostro permesso. 

Da bambina questa cosa la sapevo, ora ricordo. Passavo le giornate a scavare nel terriccio umido, a parlare con gli alberi e osservare le lucertole. Il mio corpo si apriva in pose scomposte e annodate, senza paura di sporcarsi o rovinarsi, ed io avevo la consapevolezza di essere parte di quella fanghiglia che si intrappolava nei capelli e sotto le unghie, degli esseri che popolavano le cortecce i buchi le crepe gli angoli dove nessuno voleva guardare. A volte strisciavo come un bruco, altre carponi ero gatto o iguana, altre ancora, immobile, mi fingevo stelo o corolla, in un gioco d’amore tra me e il mondo. Nelle mie fantasie immaginavo di essere una qualche creatura, metà bambina metà altro. I compagni mi chiamavano strega e mi prendevano in giro, per dispetto mi portavano

code di lucertola guizzanti, pensando di spaventarmi, e fiori spezzati. Io tra me e me ridevo, che sciocchi, tanto la coda ricrescerà più forte di prima. E andavo a seppellire tutto sotto il mio albero preferito. Così ho imparato il senso della morte e come essa sia trasformazione, decomposizione e rigenerazione in formule nuove. Voglio essere seppellita qui quando sarò vecchia, dicevo a mamma, con le lucertole! Forse in qualche modo speravo di mischiarmi a quelle squame, rinascere con cento code e occhi di cristallo. 

Riapro gli occhi. La luna è ancora al suo posto e io chissà. Non riesco a pensare ad un futuro, adesso, che non sia come quel giardino in cui trascorrevo i pomeriggi. Lo spazio è diminuito ma in qualche modo sembra essersi allargato a dismisura, guardando fuori da questo balcone. Tutto mi sembra più grande e vero, ma denso, palpitante. Per il vuoto non c’è più spazio perché è una menzogna, come quando non c’erano bambini sotto casa e mamma diceva ma che scendi a fare che non c’è nessuno, ma io ero già corsa via. 

Forse dovremmo tornare a pensarci esistenze “marginali”, laterali, non necessarie ma sicuramente possibili. Dare nuove forme, meno lineari, a questa possibilità. Tornare a stare accanto e non davanti. Smettere di osservare con gli occhi di un dio, tornare a impastare fango code di lucertole e foglie, perché la vita è sporca e la biografia del mondo filastrocca scomposta, non preghiera. Ricordarci che non sempre gli angoli bui celano pericoli, spesso sono rifugi. O entrambe le cose, dipende da come impariamo a starci. Fare come le ostriche, trasformare in valore il trauma, strato dopo strato. Non limitarci a difenderci, creare qualcosa di nuovo nel processo. Giocare col mondo. 

Mi guardo le mani, agitandole piano. Qualche appendice mostruosa crescerà da queste ferite, ma sarà più potente. Chiama mia madre dall’ospedale. 

Nella prossima vita saremo lucertole, le dico.