di Arianna Porrone
Aprile 2020. Macerata, ma potrebbe essere un luogo qualunque. Spazio e tempo dilatati. Nasce Anna, in una camera al secondo piano sulla via dal nome di santo. Quattro mura non parallele. Dall’altro lato un’altra donna, una coinquilina.
Dentro, due piantine che non fioriscono mai. Libri e polvere e mesi che preannunciano una vita da trascorrere fra il letto e la sedia.
Nasce Anna. Lei é me, lei é l’altra me. Anna sperimenta il mondo dentro di sé. Seduta, immobile, la camera sempre la stessa in ogni luogo. Stessi libri e stessa polvere. Un gatto che entra dalla porta.
Anna passeggia nel proprio ecosistema. Che è il fuori ed è il dentro. Ed è entrambe le cose allo stesso tempo. Soppesa la vita. Semplicemente sta, in armonia. Fra il letto e la finestra. Lo specchio sbilenco e il quadro. Questa é la storia di una passeggiata in un ambiente tutto personale, che è dentro e fuori contemporaneamente. Il fuori che si riversa dentro e diventa uno spazio pace, tempesta e burrasca. Un refugia frutto dell’immaginazione, assolutamente reale, delicatamente fittizio. Pensieri semplici in un luogo da sondare. Lo spazio é infinito, é il mondo intero.
Anna se ne appropria e dal confinamento comincia un viaggio. Gli spazi sono abitati, larghi, vasti, sono tutti suoi. Ma al contempo così difficilmente domabili. Dalla sua stanza Anna compie un percorso lungo una vita, una camminata in cui tutto le sfugge – radure e foreste – e tutto allo stesso tempo le appartiene.
In un racconto in cui alla fine non è più possibile distinguere il corpo umano da quello animale, la capacità creativa dalla realtà, l’anima dal mondo vegetale.
E’ il 13 di aprile. Qualche raggio di sole timido, caldo, finalmente si palesa in città. Entra in camera attraverso i doppi vetri, disegna strisce di giallo sul tappeto, si adagia sul muro. Lo aspettavo da giorni, mesi. Forse l’ho aspettato per tutta la vita, quel raggio. Osservo i suoi contorni, così dritti e sicuri. Mi rigiro nel letto, da un lato all’altro per cercare il calore, con il libro chiuso in mano. I calzini ai miei piedi fanno un piccolo risvolto sulla caviglia. Di lato le coperte sono ammucchiate con la solita noncuranza di quando ci si alza di corsa la mattina. Respiro questo minuto d’ozio.
I puntini di polvere volano sparpagliati. Le mie cose accanto. Vedo questo mondo semplice, che mi riempie la vita, che mi è sufficiente. Sento la stabilità delle solite foto sulla scrivania, quelle che mi porto dietro ad ogni trasferimento. Il vasetto con la pianta dalle foglie tonde che non fiorisce da anni. Il sale grosso dell’Etiopia nella sua ciotolina a fiori. Gli orecchini sparpagliati in un piattino appoggiato al davanzale. La candela di miele che non oso accendere e l’olio di lavanda per le notti insonni. Respiro di azzurro, come mi ha insegnato Camilla, l’insegnante di yoga durante lo shavasana. Questo raro momento è il mio shavasana. La mente libera, grata, riconosce l’abitudine così faticosamente cercata.
Fuori sogno il Neckar, o uno qualsiasi dei fiumi con i quali ho fatto amicizia in ogni città. I corsi d’acqua sanno di pace e connessione. In questa città senz’acqua sento i pensieri solidificarsi, raggrumarsi assieme. Così perdo il flusso, mi perdo in angoli di cemento disperati e sogni che hanno troppi contorni, troppi dettagli e non funzionano più. Non sanno più scorrere verso mete sconosciute e luoghi che oltrepassano l’immaginazione.
Mi soffermo sul quadro accanto alla finestra. La donna con l’abito di foresta. Cammino dentro ai suoi sentieri. Sono così: una zingara di gonnellone e calzini a righe, gioielli dorati e anelli di pietre. Non mi fermo mai in questo cammino di cui ancora non ho mai visto la fine. La foresta è bella, accogliente.
Mi ama.
La amo.
Conosco solo alcuni alberi e so che ad ogni passo ne troverò altri. Un giorno sono nella foresta nera. Un altro, in una radura di bassa montagna. E poi ancora, nella foresta amazzonica. Nel giardino della casa accanto. Nel parco sul lago. Nel vivaio dei nonni. Nel frutteto di mio padre. In un campo di mais estivo. Una collettanea di scorci che sono tutti casa mia.
C’è l’odore intenso della terra bagnata, una sinergia di odori pungenti che danzano nelle narici ad ogni respiro. Vengono dalle radici e gli spiriti verdi li sparpagliano ovunque. Manciate di cannella, salvia e corteccia, sandalo, resina e limone. Mi viene voglia di mangiarli.
Alcune volte, però, mi perdo. Non trovo conforto. Non ci sono anime intorno, nessuno che colga la mia fame. Solo buio, impasse. Il corpo carico, pronto a balzare sulla sua preda. Sono lupo: sono sola, accompagnata dal senso di inadeguatezza e perdita. Rabbiosa, nera, ispida non trovo la via. Sono a casa, eppure è tutto così estraneo. Non una persona amica, non un fiore, nessun filo d’erba che tracci il cammino. Il sole non sorge più, come nei lunghi inverni del Nord. Cammino pigra, accecata dalla fame di qualcosa che non conosco. Eppure desidero quel qualcosa con tutta me stessa. Il cuore scende in basso, giù giù nelle tenebre uterine. E’ pesante come un sasso, duro e spigoloso. Si insinua nel centro del ventre e spinge tutto via. Via il fegato, via l’intestino e la cistifellea. Spostatevi di lato, fatevi lunghi, diventate corpo canino. Non sono più donna. Non sono più in cerca. Sono nero e ciottoli. Carestia.
Ho perso la parola. Come si dice “grazie”?
Poi è un ciclo. Sangue e rosso, acque e lacrime.
Sale.
Non è Cartagine. Ci sarà un nuovo inizio. Una nuova foresta, un nuovo percorso. L’istinto che guida ogni cosa.
La stanza è come sempre. Rivedo le cose al loro posto. E’ entrata la gatta e si è accoccolata sulla sedia. Anche lei è me, quando ricerco gli spazi del sole, la pace nel silenzio.