La premessa che Simone De B. pone nell’affrontare la questione della sessualità è che le condizioni tra le quali si svolge la vita sessuale della donna non sono un destino tracciato dalla biologia, ma dipendono “dall’insieme della situazione sociale ed economica in cui la donna si trova” e che “è astratto continuare ad analizzare la sessualità prescindendo da tale contesto” p. 386.
Quest’idea del carattere storico, e oggi diremmo politicamente costruito, della sessualità è talmente dirompente che nel testo De B. non solo non riesce a portarla fino in fondo, ma spesso non riesce a mantenerla, anzi finisce per smentirla. E questo nonostante questa idea sia in linea con la tesi generale del suo libro, cioè che a collocare le donne in una condizione di marginalità sociale, di sottomissione o comunque di dipendenza, economica, emotiva etc, non siano mancanze, carenze già date, ma la relazione – per ciascuna singolare, ma per tutte presente – con un universo di valori e rapporti di potere che a priori delimitano potenzialità e limiti, individuano una gamma precisa di possibilità, accettabili e inaccettabili, virtuose o non virtuose, e anche una serie di spiegazioni – patologie, perversioni – per ogni deviazione dal campo di ciò che compete a una donna.
Secondo De B. i dati sulla biologia sono immediatamente catturati, selezionati e valorizzati, o sommersi, ai fini di precise costruzioni sociali, ed è per mezzo della funzione sociale che si attribuisce alle differenze fisiologiche che queste differenze fisiologiche acquistano il loro senso. p. 360; esempi sono la non coincidenza dell’organo deputato alla riproduzione e del piacere, che diventa cancellazione della clitoride e consegna delle donne all’alternativa tra una sessualità di servizio e quella che di volta viene definita devianza, infantilismo, etc; l’anatomia che diventa per l’uomo predestinazione all’essere iniziatore, cacciatore, dominatore, etc (p. 364); la polluzione di un essere da parte di un altro, che distribuisce facoltà di dominio e sottomissione, fierezza e umiliazione, etc.
Nonostante tutto questo, qualche passaggio più in là troviamo De B. rassicurarsi e rassicurarci che “tale differenza che troppo spesso li isola – uomini e donne – diventa per loro, quando veramente si uniscono, fonte di meraviglia…Tutte le ricchezze della virilità, della femminilità, riflettendosi e nutrendosi le une nelle altre, compongono un’unità immobile ed estatica”, cioè la troviamo a parlare della complementarietà di due principi che ha appena descritto come artifici funzionali ad esigenze di ordine, di potere.
I diversi valori attribuiti al sesso maschile e al sesso femminile sono sperimentati sin dall’infanzia: nella sezione Formazione De B. dice che l’intervento altrui nella vita infantile è pressocchè originario e da principio una precisa vocazione viene imperiosamente imposta alla bambina come al bambino (272). L’esperienza che ciascuna e ciascuno fa del proprio corpo è mediata, sin dall’educazione, addirittura dai giochi, in quanto passaggio verso il divenire uomini virili e donne femminili. I coetanei maschi possono correre, sporcarsi, possono mettere alla prova la propria forza, o in generale mettersi alla prova nel mondo, mentre le bambine sono generalmente chiamate a essere carine, pulite, quando sono appena un po’ più grandi a partecipare anche in piccola parte alle faccende domestiche e ricevono in dono bambole, oggetti passivi che raffigurano il corpo nella sua totalità, e le spingono “ad alienarsi nell’insieme del proprio corpo e a considerarlo con un dato inerte” p. 279.
L’uomo fatto che “guarda il proprio pene come un simbolo di trascendenza e di forza” (p. 80) e “assume il proprio sesso con orgoglio solo in quanto è un modo di far proprio l’altro” (p. 181) è stato un bambino che ha visto attenzioni attorno ai suoi genitali e ha imparato a esserne fiero, che è stato incoraggiato a diventare ‘un ometto’ e a un modo di esistere per gli altri che lo ha spinto ad affermarsi davanti a se stesso. p. 280.
La donna “che genera messi e fanciulli, ma non per un atto della volontà; perchè non è soggetto, trascendenza, energia creatrice, è un oggetto pregno di fluidi” è stata una bambina che ha ricevuto un’educazione per cui il corpo è qualcosa di cui vergognarsi, cui è stato consegnato da principio il corpo come oggetto di cura – nel doppio senso del prendersi cura, la bambola come figlia, e del curarsi, la bambola, la barbie, da vestire e pettinare -; o il corpo come strumento di seduzione; o il corpo più come suscettibile di influenze esterne, che come strumento di presa sul mondo.
Certo, De B., nella premessa lo precisa, non si tratta di verità universali, ma piuttosto di una sorta di fondo comune di esperienze. Che io tradurrei in questo modo: se è vero, come lei dice, che nessun destino biologico definisce il mio posto nel mondo, quel corpo non smette di essere ciò con cui io primariamente faccio esperienza del mondo. E non posso trascurare che il mio corpo eredita, incrocia, le storie che attorno a quella biologia sono state costruite. Non tutte mi arriveranno o mi colpiranno, ma lo spazio in cui si giocano libertà e autodeterminazione non è uno spazio vuoto. Alcuni discorsi potranno arrivarmi come norma sociale, come aspettativa in ambito familiare, come legge dello stato, come strategia di difesa o di dominio che attivo quasi attivamente. Posso giocarmi ciascuno di questi incontri/scontri/incroci in libertà, ma difficilmente li aggirerò del tutto.
Io tendo a leggere in questo senso il testo di De B. e ho cercato in particolare sul tema della sessualità dove fossero possibili varchi per pensare che se la biologia non mi assegna un posto, e neanche la storia delle tante donne per cui la biologia si è fatta destino me ne assegna uno, e se è vero anche che non posso fare a meno di confrontarmi con entrambe, nel corpo a corpo come nella cattura apparentemente totale continuamente si danno punti di partenza per piste da seguire, per scovare un desiderio che, proprio per la complessità che abbiamo detto, se non è necessariamente dove ci si aspetta, non è neanche banalmente collocato sul versante opposto.
In più casi ho trovati passaggi interessanti in questo senso, e intendo momenti in cui De B. interpreta, ad esempio, parole e atteggiamenti che normalmente individuano stereotipi, in modi inattesi, e fa balenare di queste piste che poi ciascuna può seguire interrogando la propria esperienza.
In genere questi spunti vengono subito abbandonati. In alcuni casi, smentiti. Ma sono comunque credo interessanti per noi oggi.
Uno di questi varchi, io lo vedo in quello che lei definisce il narcisismo della fanciulla. De B. parte dall’osservare come mentre i ragazzi nell’adolescenza pensino alle ragazze e le desiderino, ma le vedano solo come un pezzo della loro esperienza – che non riassume destino e senso della loro vita (p. 320) -, le ragazze aspettino i ragazzi, l’essere volute dai ragazzi, come qualcosa che le conferma, in primo luogo della loro bellezza.
Lo stereotipo, il mito, il romanzo, una molteplicità di discorsi, parlano quindi della vanità femminile, da cui anche la vacuità femminile, le donne troppo attente al proprio aspetto, e via dicendo.
Quello che, però, De B. qua e là fa balenare è che, ammesso che la trascendenza erotica consista per le ragazze nel farsi accettare come preda, “attraverso l’omaggio degli uomini a cui il corpo è destinato”, la fanciulla punta soprattutto “alla glorificazione del proprio corpo”, in un movimento che parte da lei e torna a lei.
Non si tratta di volgere in positivo qualcosa a cui è assegnata una connotazione negativa. Ma qui una rappresentazione disabilitante diventa punto di partenza per dire che non si è tutta votata a un altro, quando l’altro sembra il perno di gesti e scelte. Che si può tessere un proprio racconto, anche distruttivo, anche autodistruttivo, che non riproduce come qualcuno mi vuole, ma come io mi voglio. E questo è un varco non in quanto apre una strada valida per tutte, ma perchè dando luce a un luogo prima oscuro, segnala che i luoghi del desiderio sono tanti.
Dove si chiude questo che a mio avviso è un varco? Quando alla fine di questo passaggio, De B. scrive: “Essa – la donna – non distingue il desiderio per l’uomo e l’amore per se stessa”. p. 328 . Di nuovo, ritorna la donna confusa, difettosa nel giudizio, che manca di lucidità. De B. non arriva a pensare che desiderio per sé e per l’altro magari non si distinguono, che l’uno alimenta l’altro, o lo blocca anche. E non pensa neanche che ne tragga un godimento, che ci sia un nocciolo di piacere dentro quell’apparente dedicarsi a, che è invece anche esercitare un potere. Eppure lo aveva appena riconosciuto.
Qualcosa di analogo mi chiedo attorno a un altro di questi passaggi, quello sul masochismo.
Io vedo qui il varco nel fatto che D. B., tracciando il legame tra il narcisismo e il masochismo, svincola quest’ultimo dall’essere rassegnazione o godimento di un dominio di fatto, dell’essere passiva, colei che subisce. Scrive: “Insieme al narcisismo e all’orgoglio si riscontra nella fanciulla un desiderio di essere dominata”, ma in questo annientarsi c’è “un’orgogliosa volontà di essere” p. 338, perchè “Farsi oggetto, farsi passiva è tutt’altra cosa dall’essere un oggetto passivo; un’innamorata non è una dormiente né una morta, c’è in lei uno slancio che senza posa cade e senza posa e si rinnova p. 363.
Da una parte, De B. dice “la maggior parte del tempo la fanciulla accetta nell’immaginario il dominio di un semidio, di un eroe, di un maschio; ma è solo un gioco narcisistico. Con ciò non è affatto disposta a subire nella realtà l’espressione carnale di questa autorità” E quindi è pronta a pensare il masochismo come scelta dell’individuo “di rappresentare soltanto un puro oggetto nella coscienza di altri, di mostrarsi a se stesso come cosa, di giocare a essere una cosa. p. 383
Né perversione, né sottomissione: nel masochisismo De B. riconosce una componente di gioco e la possibilità che mi ritorni un’immagine di me in cui io mi riconosco.
Mi viene in mente quanto Mario Mieli ha scritto in Elementi di critica omossessuale: “Chi sa di essere masoschista si adopera per far emergere il sadismo inibito del partner, o gli impulsi sadici-masochistici di colui/colei che non riconosce la propria disponibilità sado-masochistica. Il vero masochista induce abilmente il partner a liberare la propria aggressività e a prenderne coscienza”, tanto che Mieli si spinge a dire è “il carnefice complice della vittima” e non il contrario.
Nel caso di De B., non ci si spinge a ipotizzare un sadomasochismo cosciente, vissuto liberamente, ma sicuramente c’è un passaggio nel non rappresentarlo come perversione.
Dov’è, anche in questo caso, l’arretramento e la chiusura del varco? Quando De B. scrive: “Attribuire un valore erotico al dolore non costituisce affatto un atteggiamento di sottomissione passiva. Spesso il dolore serve a mattere in rilievo il tono dell’individuo che lo subisce, a risvegliare una sensibilità intorpidita dalla violenza stessa del turbamento e del piacere” p. 382. Di nuovo la sessualità delle donne è dormiente, deve essere risvegliata sull’onda di un impulso virile, la violenza dell’uomo attiva una sensibilità, che la violenza dell’esperienza del piacere, troppo da sopportare per una donna, aveva intorpidito.
Eppure lei stessa aveva scritto: “Non è vero che la vergine non conosca il desiderio e che sia l’uomo a destarne la sessualità; questo mito tradisce la volontà di potenza del maschio, che vuole che nella sua compagna nulla sia autonomo, nemmeno il desiderio ch’essa prova per lui” p. 361.
Queste due aperture insomma si chiudono frettolosamente, ma le parole sono state pronunciate, parole che rendono possibile un discorso non più sulla sessualità, immediatamente catturato in categorie, maschile o femminile, omosessuale o eterosessuale, sana o malata…ma sulle forze dalla cui interazione la sessualità scaturisce, le forze (investimenti, paesaggi, luoghi? ciò a partire da cui forse ancora non parlo e agisco consapevolmente, ma che sta sotto, sopra e attorno il mio parlare e agire) che, nel momento in cui le sperimentiamo – e sperimentiamo non è necessariamente in senso liberatorio, anche come fatica, come combattimento – la fanno essere.
Dico queste forze riferendomi a quelli che credo Preciado intenda quando parla “dei flussi di potere, libidinosi, economici, linguistici, che ti costituiscono”, flussi che non ti permettono mai di distinguere del tutto quanto del desiderio è risultato di costruzioni sociali, quanto resiste ed eccede collocazioni sia immaginarie che reali.
Chiuderei con quanto Preciado scrive in ‘Terrore anale’: Diffida del tuo desiderio, qualunque esso sia. Diffida della tua identità, qualunque essa sia. L’identità non esiste se non come illusione politica. Il desiderio non è un deposito di verità, ma un artefatto costruito culturalmente, modellato dalla violenza sociale, dagli incentivi e dalle ricompense, ma anche dalla paura all’esclusione. Non c’è desiderio omosessuale e desiderio eterosessuale, nello stesso modo in cui non c’è desiderio bisessuale: il desiderio è sempre un ritaglio arbitrario nel flusso ininterrotto e polivoco”.