Sfidare il privilegio: solidarietà e autoriflessione

Introduzione

Uscito in traduzione italiana l’8 Maggio 2016, diffuso dal sito di Rete Kurdistan, questo articolo pone delle domande fondamentali per chiunque rifletta e agisca nei termini di una solidarietà transnazionale tra lotte. Con esempi concreti e l’esempio di fatti realmente accaduti, l’articolo denuncia forme caritatevoli e vittimistiche di solidarietà che mettono in campo atteggiamenti privi di posizionamento e privi di una messa in discussione dei propri privilegi, che possono sfociare in forme appropriative o liquidatorie, perpetuando in modo esplicito o inconsciamente modelli incentrati sulla compassione, piuttosto che sull’empatia; sulla violenza epistemica, piuttosto che sulle pratiche etiche della traduzione o sul confronto incentrato all’apprendimento e alla produzione condivisa di conoscenza. Solo se si superano gli ostacoli orientalisti di una tipica prassi eurocentrica-coloniale che ha anche portato talvolta i solidali a autodefinirsi romanticamente o a essere dipinti mediaticamente “come eroi, eroine e salvatori” allora la solidarietà potrà arrivare a essere un progetto che abbia il suo fine non nell’autoreferenzialità superficiale del clamore rappresentativo mediatico ma in una trasformazione reale e profonda della coscienza, nella prospettiva seria e relazionale di un’assunzione di responsabilità nei confronti dei differenti contesti che si attraversano. E’ proprio quando, anche sotto un’ottica intersezionale, le differenze vengono accettate e riconosciute senza livellamento e gerarchia che il nostro sentire e l’onesta esplorazione diventano luogo di coltura delle idee più radicali e audaci, necessarie al cambiamento e alla concettualizzazione di ogni azione significativa. Secondo le parole di Dilar Dirik la solidarietà è “un processo multidimensionale che contribuisce all’emancipazione di tutti i soggetti coinvolti.” Riconoscersi in una lotta che ha per fine la nostra comune sopravvivenza e determinazione porta infatti in sè la rottura delle dicotomie e degli schemi monodirezionali per eliminare ogni approccio gerarchico nei confronti dell’esistente. L’auto-riflessione però non può mai essere individuale, ma necessita di un lavoro collettivo di elaborazione e autocritica “un nuovo paradigma della solidarietà, all’interno del quale sfidare sistematicamente l’appropriazione e l’abuso di potere e assicurare meccanismi di educazione reciproca e un cambio di prospettiva.” Questo porta a costruire, in modo condiviso e pieno, una vita consapevole contro le fallaci sicurezze che ci vengono proposte, per cambiare in modo relazionale noi stesse e per costruire insieme un nuovo futuro.


La solidarietà non è carità a senso unico praticata da attivisti privilegiati, ma un processo multidimensionale che contribuisce all’emancipazione di tutti i soggetti coinvolti.L’autrice desidera ringraziare gli attivisti internazionalisti in Rojava, gli attivisti Kashmiri e Tamil, gli anarchici greci e in particolare Hawzhin Azeez per le loro reazioni, senza le quali l’articolo non sarebbe stato valido che a metà.Un uomo tedesco non si lascia impressionare dal progetto di democrazia di base del Rojava perché ha visto qualcosa di simile decenni fa in America Latina. Una donna francese rimprovera le donne curde per una mancanza di preparazione per la sua visita, in quanto non sarebbero così organizzate come le donne afgane che lei ha osservato nel 1970. Una persona passa da interno alla rivoluzione del Rojava dopo un viaggio di una settimana e senza avere accesso ai media e alla letteratura in una qualsiasi lingua mediorientale, ma la sua opinione è considerata come più legittima e autentica di quella delle persone in lotta.

Che cos’hanno in comune le esperienze di queste persone?

Tutte mostrano interesse e impegno sinceri, e i loro sforzi meritano il credito dovuto. Ma c’è qualcosa in più: l’elemento alla base di un sistema che permette alle persone di completare l’”equipaggiamento” del turismo rivoluzionario – negli ultimi dieci anni in particolare in Palestina e in Chiapas, ora in Rojava. Questo elemento è qualcosa che i rivoluzionari dovrebbero attivamente mettere in discussione: il privilegio.Per fare chiarezza dall’inizio: come chi scrive principalmente per un pubblico internazionale, facilita la comunicazione e incoraggia le delegazioni in Kurdistan, appartengo a chi fondamentalmente apprezza un tale scambio e lavoro. Ma le persone che si dichiarano solidali e che si trovano nella posizione privilegiata che permette loro di viaggiare e di essere ascoltate hanno l’obbligo morale di usare questo privilegio per il meglio. L’intenzione di questo articolo è quello di contribuire a una discussione sui problemi che emergono quando in nome della solidarietà vengono stabilite relazioni gerarchiche.

Sfidare i privilegi

In un mondo di stati nazione capitalisti e patriarcali, considerarsi cittadini del mondo e opporsi alle idee di nazione e di stato è un atto di sfida. Tuttavia, pensarsi come rivoluzionari internazionalisti non cancella le condizioni diseguali e i privilegi. Ci si deve spingere oltre.Prima di tutto, vi è una serie di privilegi e risorse materiali di cui uno beneficia: passaporti di stati che aiutano a viaggiare un po’ ovunque; parlare lingue internazionali e possedere un vocabolario teorico che permette di articolare e plasmare un discorso; padroneggiare strumenti intellettuali grazie a una formazione di base, così come il tempo sufficiente, la sicurezza e il denaro per provvedere alla maggior parte di queste cose. L’assenza di guerra, morte, distruzione, sfollamento, fame e traumi permettono di condurre una ricerca in maniera sicura e tranquilla, prendere decisioni e pianificare a lungo termine, e vivere secondo principi senza troppi ostacoli.Il solo fatto di potersi sedere davanti a un caffè, leggere su un argomento attraverso fonti scritte nella storiografia, teoria, lingua ed epistemologia occidentale-centrica, è un privilegio che la stragrande maggioranza delle persone di colore e dei lavoratori non ha. E anche se lo facessero, manca loro spesso il contesto politico sicuro nel quale discutere le loro conclusioni.

Il fatto stesso che sto scrivendo questo pezzo mostra anche il privilegio di qualcuno che proviene da un gruppo oppresso ed emarginato, ma che, rispetto al mio popolo, ha accesso ad alcune risorse e vantaggi. Ovunque ci sia privilegio, vi è una responsabilità implicita nel mettere in discussione tale privilegio. La mera esistenza del privilegio non è tanto il problema, visto che esso è il prodotto di relazioni gerarchiche e – involontariamente – del comportamento paternalistico e di appropriazione nel lavoro di solidarietà, il che distrugge la comprensione reciproca e il progresso.
Alcuni hanno espresso il loro stupore per l’ignoranza della popolazione locale riguardo lotte simili alle loro dall’altra parte del globo, e hanno tentato di stemperare il discorso delle vittime, perché la loro realtà quotidiana era troppo dura da sopportare per le delicate orecchie occidentali.

Altri hanno rifiutato qualsiasi forma di auto-riflessione nel momento in cui vengono criticati per stravolgere il discorso sulla lotta di un popolo attraverso l’imposizione di narrazioni in un modo che risulta alienante per le persone in questione, suggerendo invece che le persone oppresse dovrebbero solo essere contente di ricevere una qualsivoglia attenzione.Il problema risiede nella facilità con la quale una persona privilegiata si sente in diritto di scrivere interi libri su tutta una regione senza averla mai nemmeno visitata. E’ la “bianchitudine” maschile di intere sessioni di conferenze “radicali” sulle lotte condotte da persone di colore. E’ la famosa espressione di simpatia dei bianchi per una causa che dà un segnale ai loro seguaci per saltare sul carro alla moda. E’ la rapidità con la quale lotte per la vita e la morte vengono abbandonate come una patata bollente se sembrano essere più complicate del previsto.

Com’è comodo per un rivoluzionario potersi scrollare via responsabilità e identità senza ulteriori complicazioni! Mentre molti esponenti della sinistra di paesi privilegiati spesso sottolineano in maniera militante che essi non rappresentano alcuno Stato, esercito, governo o cultura, sono in grado di analizzare facilmente milioni di persone come se fossero un gigantesco blocco monolitico. Nel rimuovere i propri contesti, spesso si permettono un agire individualista, complesso, sentendosi in tal modo piuttosto generosi e caritatevoli quando si parla tra di loro su chi “meriti” il loro sostegno, mentre l’altro viene offuscato in qualche astratta identità.

I veri compagni si vedono nella notte più scura

I modi in cui oggi la solidarietà è stata progettata per lo sguardo occidentale hanno un altro effetto devastante sui movimenti: la competizione tra le persone in lotta per aggiudicarsi attenzione e risorse. Invece di costruire legami di solidarietà tra di loro, le persone che lottano sono costrette prima di tutto a combattere per avere l’attenzione della sinistra occidentale, il che mette le comunità l’una contro l’altra ed è distruttivo per l’internazionalismo. Come fa notare Umar Lateef Misgar, un attivista del Kashmir: è come una forma evoluta del divide et impera coloniale.Soprattutto il maschio bianco istruito ha il lusso e il privilegio di poter visitare un luogo dove è in corso una rivoluzione, di appropriarsene come più gli piace, e quindi di fornirne la sua critica senza condizioni e senza mai sentire la necessità di guardare in casa propria. Spesso con un senso di possesso senza responsabilità, può lasciarsi coinvolgere a livello internazionale, distaccarsi a livello locale e viceversa.

La sua identità trascende l’etnia, la nazionalità, il genere, la classe, la sessualità, la fisicità, l’ideologia, perché è l’incarnazione dell’impostazione predefinita, dello status quo – a malapena vive o conosce il significato di devianza. Non sa che la maggior parte delle lotte inizia con una richiesta di riconoscimento, un posto nella storia, perché è lui a scriverla. Così spesso non riesce a cogliere le motivazioni rivoluzionarie oltre la teoria. Questo è il motivo per cui il purismo ideologico gli permette di lasciar cadere così facilmente la solidarietà con le lotte, il che è forse una delle più grandi espressioni del suo privilegio: può permettersi di essere dogmaticamente ideologicamente puro; può predicare consistenza teorica, perché la sua preoccupazione per una lotta non è una questione di sopravvivenza, ma di mero interesse per lui. Non ha bisogno di sporcarsi le mani. Può far scorrere gli occhi sulle persone che lottano per la vita, perché non è lui quello che deve bilanciare gli ideali contro tutti i tipi di geopolitica, realtà socio-economiche, conflitti etnici e religiosi, violenza, guerra, tradizione, trauma e povertà.

Ed è per questo che la gente può gettare via una causa tanto rapidamente quanto l’aveva adottata, perché risolvere gli errori, le carenze, e gli ostacoli che le rivoluzioni necessariamente devono affrontare richiederebbe uno sforzo che non sono disposti a fare – le discussioni teoriche o le conferenze con torta e caffè sono luoghi più adatti alle invettive radicali dell’inferno chiamato Mesopotamia.

Quando le persone non ricevono la gratificazione immediata che la loro mentalità capitalistica interiorizzata richiede nelle lotte reali, possono lasciar cadere in fretta momenti storici di rivoluzione. La possibilità di lasciare, di abbandonare la causa quando il fascino romantico iniziale passa e emerge la crudezza, semplicemente non è un’opzione disponibile per le persone che lottano per la vita o la morte. E i veri compagni, dopo tutto, non si vedono alla luce del sole, ma nella notte più scura.

Lotte legittime che devono passare un test

Qualche tempo fa, appartenenti all’estrema sinistra scrivevano articoli botta e risposta sul Rojava senza avere contatto con la realtà sul campo, attraverso ipotesi e temi che erano non-problemi per le persone coinvolte. Ben presto ciò si è trasformato in una discussione riservata alla sinistra occidentale e pesantemente orientalista, in cui un uomo bianco si rivolgeva all’altro, senza che nessuno dei due fosse stato nella regione coinvolta o non avendo letto che le opinioni di altri uomini bianchi su internet – con il Rojava semplicemente a fungere da metafora del terzo mondo sulla quale poter proiettare tutte le ideologie e le ipotesi.

Naturalmente le analisi e la prospettiva critica internazionale sono fondamentali per i processi rivoluzionari, ma il dogmatismo, lo sciovinismo e l’arroganza hanno un obiettivo contrario. Tralasciando il fatto che queste persone erano tutt’altro che impegnate a organizzare rivoluzioni nei propri paesi, ciononostante si sentivano ancora in grado di giudicare con autorità ciò che fa o no una rivoluzione e di dare consigli direttivi a persone che formano comuni di donne autonome mentre allo stesso tempo lottano contro l’ISIS.

In un certo senso, questa rappresentazione fuorviante e questo stravolgimento sono necessari per legittimare l’immaginario orientalista e l’intervento coloniale. Come argomenta Sitharthan Sriharan, un’attivista tamil, “gli appartenenti alla sinistra privilegiati spesso aiutano a produrre e riprodurre le stesse forze che sostengono di combattere con le loro azioni”.E’ interessante vedere come lotte che sono state legittimate nel corso dei decenni dalle migliaia di persone che vi partecipano, debbano superare un test di «sinistra» che deve superare il giudizio occidentale per aggiudicarsene l’attenzione. Tali ipotesi danneggiano i movimenti di liberazione, nel senso che si rifiutano di darne un’attenzione adeguata e una rappresentazione accurata; possono effettivamente causare significativi danni politici, sociali, economici ed emotivi, perpetuare la disinformazione, e delegittimare intere lotte attraverso il dominio del discorso da parte di gruppi distaccati.

Questi atteggiamenti derivano fondamentalmente da ideologie eurocentriche che hanno fondato il loro imperialismo culturale su colonialismo, dogmi modernisti e capitalismo. La violenza simbolica che dipinge la storia occidentale come moderna e universale si manifesta oggi sotto forma di orientalismo nelle scienze sociali e influenza ampiamente il modo in cui segmenti della sinistra occidentale intendono la solidarietà.

Sfidare il tuo privilegio

L’assunto che la solidarietà sia monodirezionale, qualcosa che uno “dà” e l’altro “prende”, è viziato fin dall’inizio. La solidarietà oggi, soprattutto nell’era dell’informazione e della tecnologia digitale, si esprime in un modo che articola una relazione dicotomica tra un soggetto attivo, pensante che “fornisce” solidarietà a una causa e un gruppo che può reagire solo come oggetto passivo, senza il diritto di dare un feedback critico su quale tipo di solidarietà sia richiesto.I “dispensatori” di solidarietà possono apparire dal nulla, rimuovere il proprio background e sentirsi autorizzati a dominare il discorso. Gli viene concessa una prospettiva a volo d’uccello, il che consente prospettive analitiche distanziate e autorità, dovuta presumibilmente all’essere “imparziale”. Questo crea immediatamente una gerarchia e l’aspettativa che il gruppo che riceve la solidarietà si supponga debba dimostrare gratitudine e deferenza al donatore di solidarietà, lasciando il gruppo che “riceve” solidarietà alla mercé della persona che concede aiuto. Questo marca spesso la fine della solidarietà e l’inizio della carità.

Tuttavia, i gruppi oppressi non hanno alcun obbligo o responsabilità di fornire nulla in cambio. Come la mia cara amica Hawzhin Azeez sottolinea da Kobane: “Non dobbiamo ringraziare le persone privilegiate che mettono alla prova i loro privilegi e fanno la cosa giusta. Non dovremmo aspettarci niente di meno di questo da loro, perché ciò è l’implicito presupposto non detto della ‘solidarietà’”.Le persone che si dichiarano alleate devono essere disposte ad assumersi l’onere di un duro lavoro. Si dovrebbero ricordare i loro privilegi e costantemente sfidarli e annullarli, al fine di utilizzare se stessi come strumenti per amplificare le voci e i principi dei movimenti con i quali sostengono di essere solidali – invece di diventare la voce o l’incarnazione della lotta. Non devono aspettarsi gratitudine e medaglie d’onore per essere etici, non certo dagli esclusi che sono solo contenti che qualcuno stia parlando della loro lotta per l’esistenza.

Dalla carità alla solidarietà, dall’insegnare all’imparare

Il movimento di liberazione kurdo utilizza “la critica e l’autocritica” come meccanismi produttivi ed etici per migliorare se stessi, l’altro, e il gruppo. Criticare un altro vuol dire anche essere in grado di criticare se stessi. La critica non è intesa a danneggiare gli altri, ma si basa fondamentalmente su empatia, onestà e risoluzione dei problemi.Il lavoro di solidarietà certamente non rende immune nessuno dalle critiche. Al contrario, le richiede. Si basa fondamentalmente anche su questo, per poter essere etico. Ma, ad oggi, il lavoro di solidarietà della sinistra eurocentrica è stato in gran parte privo di questo tipo di critica, mettendo in evidenza gli ostacoli interni alla sinistra occidentale e la sua incapacità di organizzare o perfino di discutere a livello della base. Fondamentalmente un vero rivoluzionario è colui che inizia il processo rivoluzionario al suo interno cominciando da se stesso. La solidarietà non è un impegno di carità, ma un processo orizzontale, multidimensionale, educativo e multidirezionale che contribuisce all’emancipazione di tutti i soggetti coinvolti. Solidarietà significa essere allo stesso livello dell’altro, fianco a fianco. Significa condividere competenze, esperienze, conoscenze e idee senza perpetuare relazioni basate sul potere. La differenza tra la carità e la solidarietà è che il primo ti definisce “interessante” e ti vuole insegnare, mentre l’altro ti chiama “compagno” e vuole imparare.

Per affrontare questi problemi, non è sufficiente l’auto-riflessione individuale. Abbiamo davvero bisogno di un nuovo paradigma della solidarietà all’interno del quale sfidare sistematicamente l’appropriazione e l’abuso di potere e assicurare meccanismi di educazione reciproca e un cambio di prospettiva.Solidarietà significa fondamentalmente provare empatia e rispetto per le lotte altrui e concepire noi stessi come combattendo dalla stessa parte quando ci impegniamo in un processo di reciproca auto-liberazione, senza ignorare i diversi punti di partenza, le esperienze pregresse, le identità e i contesti. La più grande ricompensa alla solidarietà vera è che tutte le persone coinvolte imparino le une dalle altre come organizzarsi. Quindi, in definitiva, come sottolineano le persone provenienti da luoghi come il Chiapas o il Kurdistan, la solidarietà significa “andare a fare la rivoluzione nel proprio posto!”.Una politica di identità senza internazionalismo rimarrà sempre limitata, in quanto non può portare una più ampia emancipazione in un sistema globale di oppressione e di violenza, proprio come l’internazionalismo senza il rispetto per le lotte radicate a livello locale rimarrà superficiale e senza successo, in quanto non riconoscerà le profonde complessità dei diversi ritmi delle lotte per la libertà.

Rafforzare le mie spalle rafforzerà anche le vostre – e questa è l’unica compagine con la quale possiamo combattere contro un ordine mondiale sessista, razzista, imperialista, capitalista, assassino.

di Dilar Dirik*

* Dilar Dirik è un’attivista curda e dottoranda presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Cambridge. Il suo lavoro prende in esame il ruolo della lotta delle donne nello sviluppo e nella costruzione della libertà in Kurdistan. Scrive regolarmente sul movimento di liberazione curdo per diversi media internazionali.

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