Note sullo spettacolo di e con Tony Allotta, La vita davanti, andato in scena presso il Teatro Argot Di Roma.
di Anna Simone
Se è vero che nella società della prestazione la dimensione performativa del sé risponde più al “dover essere” che al “come” desidereremmo vivere; se è vero che oggi la parola tende a trasformarsi sempre in comunicazione senza significazione; se è vero che la politica urlata, in grado solo di trasformare saperi e conoscenze in mere opinioni non ha più nulla da dirci; se è vero che il femminismo per potersi rigenerare continuamente necessita sempre di nuovi linguaggi, più prossimi ad un corpo che parla, gesticola, traduce e trasmette nuove emozioni affrontando temi cruciali come le relazioni, l’amore, la storia sociale incarnata da uomini e donne che l’hanno materialmente fatta; e se è vero che l’unico pensiero che vale si dà attraverso l’esperienza, allora “La vita davanti”, lo spettacolo bellissimo di e con Tony Allotta -andato in scena nei primi giorni di marzo presso il Teatro Argot Studio, nell’ambito della settimana “Sassolini. Perimetri, partiture, riscritture” a cura del collettivo Isola Teatro di Roma- può anche essere recensito da me, ovvero da una sociologa, anziché da una critica teatrale. E non solo perché Erving Goffman, un classico della sociologia, ci ha insegnato che ogni forma di interazione tra attori sociali si manifesta attraverso la cornice di una “scena”, esattamente come accade in teatro, ma anche e soprattutto perché per ricostruire un senso fondativo e denso in questa nostra società, un po’ malata, i linguaggi dell’arte risultano essere più che mai indispensabili, una sorta di nutrimento da cui partire per rigenerare immaginazione e simbolico. La scena dello spettacolo di Tony si presenta scarna: v’è una scala con uno striscione arrotolato, di fronte –all’altro capo del palcoscenico- v’è una poltrona, per terra tra i due poli una scritta fatta di tanti pannolini appallottolati su cui si legge “Love Mi”.
Le luci si accendono e l’attore-autore, con gli abiti di un ragazzino, appollaiato sulla scala comincia il suo monologo che si fa subito fittissimo, potente, come il suo corpo che comincia a transitare avanti e indietro tra la scala e la poltrona, toccando con gli occhi e la parola tutti gli spettatori. Corpi che contano e corpi che parlano, direbbe Judith Butler. E così comincia la storia iperbolica e complessa di Mohammed, altrimenti detto Totò, bambino-adolescente-ragazzo-uomo musulmano abbandonato dalla madre prostituta presso l’appartamento-orfanotrofio di Madame Emma (la poltrona è il suo trono). Tony Allotta, completamente solo in scena, non perde mai un colpo, parla perfettamente in un italiano arabizzato fantastico, una sorta di linguaggio senza lingua, districandosi con il suo corpo parlante tra un pezzo di storia e l’altro, al punto da non capire neanche più se sta raccontando pezzi della sua storia personale (“Sono cresciuto con tante donne” –mi ha detto poi-), pezzi della storia di Totò, pezzi della storia della madre biologica, pezzi della storia degli altri bambini che vivevano con lui, pezzi della storia di Madame Emma, pezzi di una storia sociale fatta di povertà e di una vitalità costretta a reinventarsi continuamente per non cedere alla disperazione, nella Parigi degli anni ottanta, pezzi di un mondo complesso, quello delle migrazioni. Pezzi che lui tiene assieme trasformandosi in simbiosi con essi in una vicenda complessa, eppure così semplice. Tra risate e lacrime, il tempo di questo spettacolo passa in fretta, e attraversa profondamente tutti gli spettatori e le spettatrici. Perché? Perchè trattasi, al fondo, di una grande storia d’amore. Una storia d’amore che Tony Allotta mutua, reinterpretandola e facendola sua, dal meraviglioso racconto -che leggerò grazie a lui-, “La vita davanti a sé” di Emil Ajar (Roman Gary). Un testo che parlandogli ha trasformato poi in parola per lui e per noi, direi per la società intera. E così, all’improvviso, nel bel mezzo della storia, si srotola lo striscione sulla scala e la domanda diventa più secca, quasi mozzafiato: “Si può vivere senza amore?”. Sempre all’improvviso, e nel bel mezzo della storia, quel “Love mi” scritto con i pannolini viene distrutto dallo stesso Tony-Totò trasformando gli stessi pannolini appollottolati in una sorta di arma soft, simbolicamente “merda” da lanciare contro gli spettatori, i quali a loro volta rilanciano. E’ la “merda” che c’è sempre, in ogni società che stigmatizza, giudica, riduce a corpi minori i migranti, e in ogni storia d’amore, specie se non canonica, regolare, borghese. Ma è anche la “merda” che inevitabilmente arriva persino nelle storie d’amore più belle, una sorta di significante –direbbero gli psicoanalisti- che attraversa le condizioni materiali di chi racconta e di chi è raccontato, della società, dei rapporti di coppia, dell’amicizia. Però, e qui c’è la vera grandezza di questo spettacolo, quella “merda”, quel significante, in questo spettacolo non diventa mai rancore, vendetta, cinismo, ma solo desiderio e voglia di fare comunque e in ogni caso della propria vita, di qualunque vita, anche di chi vive in uno slum, un’opera d’arte. Il piccolo grande Mohamed, cioè Totò, è un immigrato abbandonato da sua madre e Madame Emma, che lo alleva insieme ad altri bambini è un’anziana prostituta ebrea scampata ai campi di concentramento di Aushswitz. Due storie complesse, figlie del novecento e di tutti i mali del mondo, quantomeno negli effetti che hanno generato. Mentre la madre biologica, quella donna che ha abbandonato suo figlio, è una prostituta. Tecnicamente in sociologia potrebbero essere vite “devianti”, ma nella realtà e nella trama affettiva delle persone che non si incontrano mai per caso, così come Tony Allotta non ha incontrato per caso il racconto da cui ha tratto questo spettacolo, trattasi solo di biografie non conformi in una storia e in una società che esclude, stigmatizza e conforma. E allora torniamo alla domanda: “Si può vivere senza amore?”. Si può vivere d’amore anche se si ha una vita difficile, se si è musulmani a Parigi, se si vive in un orfanotrofio con una prostituta che diventa mamma comunque, anche se non è la madre biologica, si può vivere d’amore incontrando contingentemente personaggi curiosi, da bar, che però insegnano tanto della vita e si può amare anche un ombrello, quando l’umanità sembra sparire all’improvviso perché essa stessa impaurita dall’amore e da corpi non conformi? Sì, si può amare comunque, se non si cede al risentimento. Un racconto che, come si legge nel concept: “Ci pone davanti a scelte e domande universali: la scelta di quale sia la nostra età o se una nostra età esista; la scelta del nostro credo o se non sia meglio nessun credo e la conoscenza dell’altro come credo; la scelta di sapere chi sia veramente la nostra mamma o se serva saperlo; o se si possa rinunciare ad avere anche un’idea di Mamma e poi scegliere magari un ombrello come migliore amico”.
Uno spettacolo importante, denso, che ogni teatro dovrebbe mettere in calendario e che tante, tantissime persone, dovrebbero vedere per la sua originalità, per la sua forza, per la imponente tenuta scenica di Tony Allotta. Perché le migrazioni, il rapporto madre-figlio, non importa se biologico o no, le relazioni, lo stesso amore sono il nostro mondo. Un mondo che ha bisogno dei linguaggi dell’arte, di questi linguaggi dell’arte, per ritrovare la densità perduta nell’oceano delle narrazioni tossiche e prive di qualsivoglia forma di empatia, con sé e e con l’altro, che attraversano il presente. Dunque grazie a Tony Allotta.