Silvia Niccolai – “Repubblica con ‘altro’ al potere”. Una pagina di Vittorini riletta attraverso Hannah Arendt

A proposito del referendum costituzionale e di un male chiamato asimbolia

pubblicato su il costituzionalista.it,  19 giugno 2006

 

Perché una cosa rimane: dobbiamo lavorare duramente con la cattiva lingua che abbiamo ereditato, per arrivare a quella lingua che non ha ancora mai governato, e che pure governa la nostra intuizione e che noi imitiamo.

Ingeborg Bachmann*

 

Premessa. Il mio contributo alla discussione sul referendum del prossimo 25 giugno e sul rapporto tra esso e l’opinione pubblica non sarà che un collage di frasi e passaggi disposti attorno ad una pagina di Elio Vittorini apparsa nel “Politecnico” del giugno 1946. Trascriverò quelle righe di Vittorini perché mi sembra che abbiano molto a che vedere con la verità, con quel lavoro del senso che Hannah Arendt, in un celebre e controverso saggio chiama verità – e che è la poesia, la parola e la lingua. Un lavoro che è appunto un lavoro, non un processo produttivo che metta a disposizione risultati in termini di una sufficiente quantità di verità a richiesta, e per esempio in linea coi tempi di una campagna elettorale o referendaria. Qualche volta quel lavoro ci lascia in sospeso, è latente. Questo è uno dei rischi del lavoro. Sarà per questo che anche quella è una parola in disuso.

Quando sono stata invitata a scrivere questo contributo, il tema era quella certa indifferenza che l’opinione pubblica sembrava dimostrare rispetto alla campagna per l’indizione del referendum. Mi sono chiesta se quella indifferenza non sia il segnale che il lavoro del senso ha ancora bisogno di tempo, per molti cittadini di questa Repubblica, compresa me[1], e che esso non è facilitato, rinvigorito o aiutato dal discorso delle riforme, che è quello che ha preso sempre più corpo nel corso della campagna referendaria. Ho pensato a quell’indifferenza, e a quella così straniante sensazione di non essere felici abbastanza che io come molti che la pensano come me abbiamo provato all’esito delle elezioni d’aprile che pure ci hanno dato l’esito desiderato di mutare la maggioranza di governo, e mi sono chiesta se questi due segni non siano la manifestazione di un pesante, difficile momento di “non essere”, un momento di contraddizioni, di ambiguità, di discontinuità a cui si può rispondere, come sempre, esercitando un’ansia di riempimento (non la riforma della destra, ma un’altra sì, perché qualcosa si deve pure fare), oppure assumendoselo, attraversandolo, accettando di stargli al cospetto col poco da dire che lascia.

Penso perciò di dover dire con chiarezza che il mio no a questa riforma vorrebbe essere un no a tutte e per un bel po’. Per avere il tempo di sentire le nostre amarezze, la nostra contraddittoria eredità – che è ciò di cui parla Vittorini, che è ciò che si ripresenta oggi, che non ci pone una domanda di regole migliori o di più efficiente organizzazione, ma una domanda di etica e di responsabilità, che riporti la politica, se mai sarà possibile, alla sua dimensione di lavoro e di opera, non a quella, in cui essa sembra trovare tanto da fare, tanto da spartire, tanto da contare, di autoreferenziale processo produttivo di regole, e dove il diritto sappia esercitare quella sua attitudine che lo vede, come scienza dell’argomentazione, dell’elaborazione e della discussione, parte fondamentale del discorso, del racconto, dell’opera, che una esperienza sa costruire intorno a se stessa e lasciare di sé.

  1. La verità serve. Nonostante che Verità e politicasia dedicato alla necessità insopprimibile che la verità di fatto (“è la Germania che, nell’agosto 1914, ha invaso il Belgio, e non viceversa”) non venga dimenticata, né falsificata, ad Arendt il nudo fatto non interessa. I nudi fatti non servono a niente. La verità serve a molte cose. Un fatto è un fatto. La verità è un’opera. Per mostrarne l’essenza e il modo di avvenire Arendt la oppone ad una politica intesa come regno dell’opinione, e, all’occorrenza, della menzogna.

La verità, che nel corso del saggio si rivela a poco a poco concetto sintetico dell’intera filosofia arendtiana, emerge in primo luogo col suo carattere antiegualitario, col suo bisogno perentorio di essere riconosciuta.

“Considerata dal punto di vista della politica, la verità ha un carattere dispotico. Essa è per questo odiata dai tiranni, che giustamente temono la concorrenza di una forza coercitiva che non possono monopolizzare, e gode di uno status piuttosto precario agli occhi dei governi che si basano sul consenso e aborriscono la coercizione. I fatti sono al di là dell’accordo e del consenso, e ogni discorso riguardo ad essi – ogni scambio di opinione basato su una corretta informazione – non contribuirà minimamente al loro consolidamento. Una opinione sgradita può essere discussa, respinta, o si può giungere a un compromesso su di essa, ma i fatti sgraditi possiedono una esasperante ostinatezza che può essere scossa soltanto dalle pure e semplici menzogne. Il guaio è che la verità di fatto, come ogni altra verità, esige perentoriamente di essere riconosciuta e preclude il dibattito, il quale costituisce l’essenza stessa della vita politica”. [2]

La verità ha bisogno di essere riconosciuta. Poiché d’altronde dobbiamo supporre che la verità non provi sentimenti, delusioni, bisogni o frustrazioni (ma semmai la sua assenza ne provochi), il bisogno che la verità sia riconosciuta è un bisogno di altri o, di altro, che non della verità.

  1. La verità serve al potere. Arendt dice in primo luogo che il potere politico stesso ha bisogno di verità. L’opinione, base e alimento del potere politico, per la sua naturale mutevolezza non è sufficiente a dare al mondo, potere compreso, stabilità e permanenza:

“(…) il potere, per sua stessa natura, non può mai produrre un sostituto della solida stabilità della realtà fattuale, la quale, in quanto appartenente al passato, è diventata una dimensione che è al di fuori della nostra portata. I fatti si affermano per la loro ostinatezza, e la loro fragilità è stranamente combinata con una grande resilienza, la stessa irreversibilità che è il contrassegno di ogni azione umana. Nella loro ostinatezza i fatti sono superiori al potere; essi sono meno transitori delle formazioni di potere, che nascono quando gli uomini si riuniscono per un fine ma scompaiono quando il fine è raggiunto o mancato. Questo carattere transitorio rende il potere uno strumento assai inaffidabile per ottenere una permanenza di qualunque tipo, e, di conseguenza, non solo la verità e i fatti, ma anche le non-verità e non-fatti non sono al sicuro nelle sue mani”.[3]

  1. Istituzioni di verità. Perciò, lo stesso “ambito politico ha riconosciuto, anche in caso di conflitto, di avere interesse all’esistenza di uomini e istituzioni sui quali non ha potere”, istituzioni che hanno il compito di coltivare la verità e la sincerità, tra le quali Arendt menziona la magistratura e l’Accademia:

“Verità molto sgradite sono emerse dalle università, e sentenze molto sgradite sono state più volte emesse dalla magistratura; e queste istituzioni, così come altri rifugi della verità, sono rimaste esposte a tutti i pericoli che derivano dal potere sociale e politico. Eppure (…) è difficile negare il fatto che, almeno nei paesi con un governo costituzionale, l’ambito politico ha riconosciuto, anche in caso di conflitto, di avere interesse all’esistenza di uomini e istituzioni sui quali non ha potere”.[4]

Qui il costituzionalista potrebbe fermarsi. E’ un gratificante apprezzamento della democrazia costituzionale. Ma il succo del discorso non sta qui; e nemmeno il problema.

  1. 4. La verità serve agli esseri umani. La verità non serve solo al potere, non ha una mera funzione di legittimazione. Il potere – come complesso delle istituzioni – non interessa ad Hannah Arendt. La verità serve agli esseri umani, che le interessano; e serve alla politica, nel senso in cui ella la considera la più pregevole delle attività umane.

La verità serve agli esseri umani perché risponde al bisogno umano di permanenza del mondo, e di un mondo comune, a quel bisogno, intorno a cui Hannah Arendt ha costruito la sua filosofia. La verità riempie lo spazio dell’autorità, cui Arendt dedicò, nello stesso anno in cui compose Verità e politica, un saggio, Che cos’è l’autorità, che si trova con Verità e politica in un rapporto strettissimo di assonanza, tant’è che potremmo chiamare semplicemente verità ciò che nel secondo saggio Arendt chiama autorità, e viceversa.

L’autorità ha la stessa marca antiegualitaria e antipersuasiva della verità:

“Perché esige sempre l’obbedienza, l’autorità viene di solito scambiata con un modo di esercitare il potere o la violenza. Eppure essa esclude qualsiasi coercizione esteriore: dove s’impiega la forza, l’autorità ha fallito. D’altra parte l’autorità è incompatibile con la persuasione, che presuppone l’uguaglianza e richiede un processo di argomentazione: dove si impiegano argomenti di persuasione, l’autorità è messa a riposo. All’ordine egualitario della persuasione si contrappone l’ordine dell’autorità che è sempre gerarchico. Se si vuole definire l’autorità occorre dunque distinguerla sia dalla coercizione, sia dalla persuasione”.[5]

Come la verità coltiva la memoria, l’autorità è il legame coi fondamenti:

“Perdendo la tradizione abbiamo perduto il filo che ci guidava sicuri nel vasto dominio del passato. Ma questo filo era anche la catena che vincolava ogni generazione successiva ad un determinato aspetto del passato. Forse soltanto adesso il passato si apre davanti a noi con inattesa freschezza, per dirci cose che nessuno finora aveva orecchie per ascoltare. Ma non si può negare che, senza una tradizione saldamente radicata (e tale saldezza si è perduta già da alcune centinaia di anni) l’intera dimensione del passato risulta compromessa. Corriamo il rischio di dimenticare, e questo oblio, a parte i contenuti che potrebbero andar perduti, equivarrebbe, umanamente parlando, a restare privi della dimensione della profondità dell’esistenza umana. Infatti memoria e profondità sono la stessa cosa, o, meglio, l’uomo può raggiungere la profondità solo attraverso la memoria”. [6]

  1. La verità è un racconto. Nonostante Arendt scriva espressamente che le istituzioni di verità sono coltivate e mantenute da un governo saggio e costituzionale, la funzione che Arendt assegna alla coltivazione della verità non va nell’interesse delle istituzioni di governo, non è pregevole, cioè, per la sua capacità di conferire legittimazione, ma va nell’interesse della vita umana a mantenere e sviluppare una propria dimensione di senso.

Ciò che tiene insieme il mondo è la possibilità di farne discorso, è la narrazione, sicché tutta quella verità di fatto, irrimediabile e incoercibile, potrà anche portare al perdono, grazie alla riconciliazione con la realtà operata da un racconto della verità che, dalle sue basi oggettive, sappia diventare catarsi poetica.

“La realtà è differente ed è più della totalità dei fatti e degli eventi, la quale, ad ogni modo, non è verificabile. Colui che dice ciò che è racconta sempre una storia, e in questa storia i fatti particolari perdono la loro contingenza ed acquistano un significato umanamente comprensibile. E’ perfettamente vero che “tutti i dispiaceri possono essere sopportati se li si inserisce in una storia o se si racconta una storia su di essi” secondo le parole di Isak Dinesen, la quale, oltre ad essere una delle più grandi narratrici del nostro tempo, sapeva cosa stava facendo, e sotto questo aspetto fu quasi unica: avrebbe potuto aggiungere che anche la gioia e la felicità diventano sostenibili e significative per gli uomini soltanto quando questi possono parlarne e raccontarle come una storia. Colui che dice la verità di fatto, nella misura in cui è anche un narratore, compie quella “riconciliazione con la realtà” che Hegel, il filosofo della storia par excellence, considerò il fine ultimo di ogni pensiero filosofico e che, certamente, è stata il motore segreto di ogni storiografia che trascende la mera erudizione. La trasformazione della materia prima data dai semplici avvenimenti che lo storico, così come il romanziere, deve effettuare (un buon romanzo non è in alcun mood una semplice mistura o una invenzione di pura fantasia), è strettamente imparentata con la trasfigurazione poetica degli stati d’animo o dei moti del cuore, la trasfigurazione del dolore in lamentazione o del giubilo in lode. Nella funzione politica del poeta possiamo vedere, con Aristotele, l’azione di una catarsi, una purificazione o una purga da tutte le emozioni che potrebbero impedire all’uomo di agire. La funzione politica del narratore – storico o romanziere – è di insegnare ad accettare le cose così come sono. Da questa accettazione, che può anche essere chiamata sincerità, deriva la facoltà di giudizio, che, di nuovo secondo le parole di Isak Dinesen, “alla fine avremo il privilegio di vedere e di rivedere – ed è quello che viene chiamato il giorno del giudizio”.[7]

 

  1. La verità serve affinché ci sia politica.Nonostante Arendt ammetta di avere utilizzato, ai fini della contrapposizione di verità a politica, una nozione di politica molto diversa da quella che la sua filosofia sviluppa, la verità che serve a creare uno spazio di discorso è essenziale perché la politica nel senso arendtiano possa esistere, ne è la condizione e la premessa:

“La verità di fatto si scontra con la sfera politica soltanto al livello più basso degli affari umani (…) In questa prospettiva, rimaniamo ignari del contenuto effettivo della vita politica, della gioia e della gratificazione che derivano dall’essere in compagnia dei nostri pari, dall’agire insieme e dall’apparire in pubblico, dall’inserirci nel mondo attraverso la parola e l’azione, acquisendo e sostenendo così la nostra identità personale e dando inizio a qualcosa di interamente nuovo”. [8]

  1. La verità ci tiene al mondo.E’ in questa dimensione che il saggio mi appare contemporaneo, vicino; esso non ci permette di rimanere in superficie, non possiamo allontanarne da noi la sfida ricorrendo a una sistematica del mondo che si pretende consolidata e come tale resistente al reale. Non è abbastanza chiederci se la politica dello stato costituzionale stia dalla parte della menzogna o dalla parte della verità, se lo stato costituzionale riesca ad essere fedele al suo modello, lo sia in Italia, o non; non è necessario né sufficiente compiere un atto di fede verso la classica dialettica antimaggioritaria che la giustizia costituzionale era nata per svolgere, o dal compiere su questo stesso tema un atto di ricredimento; è inutile innalzare un peana alla morte della funzione politica della università nell’Europa del Processo di Bologna. Tutti questi, e tanti altri, non sono prima di tutto che fatti, diversamente elaborati; fatti contrassegnati dal loro tasso incoercibile di accidentalità. E’ uno stato costituzionale come lo descriveva Arendt il nostro? E’ una giustizia costituzionale capace di costruire verità la nostra? E’ una vera Accademia la nostra? Questioni: prima di giudicarle, dobbiamo riuscire a rapportarci ad esse, e cioè dobbiamo farne discorso. Se sono drammi, occorre riconciliarci comunque. Non possiamo tirarci fuori dal mondo come è. Come candidate a un discorso di verità, non esistono una realtà cattiva e una buona, una migliore e una peggiore. Il mondo non degenera. Siamo noi che lo lasciamo andare.

Questo è il senso dell’appello arendtiano alla funzione politica della verità. Cercare la verità non significa solo ricostruire fatti; e tanto meno costruire una dogmatica in cui un fatto ha quel dato senso una volta per tutte; i fatti, ogni volta li incorniciamo in interpretazioni: è ovvio, altrimenti non ci servirebbero a niente; ogni fatto, nella sua contingenza, nella pluralità di interpretazioni a cui si apre, pone una sfida: quella di non poter essere dimenticato, di non poter essere messo da parte, di richiedere elaborazione, presenza, ricordo. Ogni fatto è vero. E ogni opinione è un fatto, è un fatto che si pensi in un modo o in un altro. Ogni passione è un fatto. E’ un fatto che ci siano passioni o non ci siano. Ogni fatto, opinione, passione, pone la sua domanda: di far parte del mondo Il giudizio, certo, serve – anche se è la più difficile delle facoltà – ma non è che un criterio nel nostro addentrarci nella costruzione di senso della realtà.

La verità è il bisogno di una realtà che abbia senso, perché nessun uomo può sopravvivere nella assenza del senso.

  1. La verità dell’indifferenza.Qualche volta si sente fortemente l’esigenza di lasciare andare il mondo, e anche questo è un gesto che diventa segno, fatto, frammento di quella realtà – nessuna realtà può essere espunta dalla ricerca della verità. Questo gesto di realtà, è quel che potremmo chiamare indifferenza. Ai tempi della raccolta di firme per il referendum sulla riforma costituzionale in molti si sono preoccupati per il modo lento e incerto in cui le firme affluivano. Indifferenza. Mentre si attenta alla costituzione, ai suoi valori essenziali, fondativi. Il segno dell’indifferenza è forte. E’ come non voler parlare, sentire che le parole a disposizione o il modo di usarle che si è appreso non hanno senso per noi, non servono a dire qualcosa di vero.

L’indifferenza è una cosa seria. Per me ha significato che nella costituzione come tale molte persone non vedono un testo vivente nel quale sia sensato iscrivere la propria verità. E’ colpa delle persone? Non credo. E’ una colpa? Non so.

Spogliata da rivestimenti comunicativi più elementari ed evidentemente tanto più efficaci (diamo più/meno potere a Berlusconi; conserviamo/aboliamo la costituzione “sovietica” del 1948 e la sua attuazione voluta dai “comunisti”) che hanno potuto riversare i loro effetti sulle elezioni politiche (trascinando ai seggi più dell’80% degli aventi diritto, il che significa sollevando molta passione, molta ascrizione di senso), il discorso sulla costituzione in sé è un tecnicismo quantomeno troppo arzigogolato e complesso (eccettuata forse quella norma sulla sanità regionale, più facile da comprendere nelle sue ricadute possibili e nelle sue implicazioni simboliche che non le disposizioni sul procedimento legislativo, il rapporto fiduciario, le istituzioni di garanzia o i poteri del presidente della repubblica), troppo indiretto nel suo messaggio, nelle sue conseguenze immediate, per appassionare. Troppo insincero, anche, forse, dato che, tradotto in regole, commi, proposizioni, il progetto ottunde, opacizza, nasconde, la sua portata autoritaria.

Il lavoro della verità è proprio difficile quando non si sa di che cosa si stia parlando.

  1. La verità è una lingua.La verità è un testo vivente in quanto capace di sviluppare un lavoro simbolico, un testo abbastanza appassionante che ciascuno avverta come sensato per sé parlarlo a sua volta, portarvi il proprio discorso, dirsi attraverso di esso. La verità è una lingua, che si spenge quando non è più parlata, quando non è più lingua comune. Quando diventa, a sua volta vorrei dire, Accademia. Quando si riduce a un uso strumentale. Quando si spoeticizza. Quando non aiuta più nessuno a “stare liberamente al mondo qui ed ora”.

“Quando si impara a parlare, si impara a parlare una lingua, si comincia a partecipare a quella straordinaria quantità di interazioni di persone che si ascoltano e parlano. La lingua si forma da una trama di relazioni inesauribili e continua a vivere nelle relazioni. La costituzione della soggettività non avviene al di qua della lingua, ma dentro la lingua stessa. E’ un fatto di relazione e procede con la possibilità stessa di significare la propria esistenza umana. L’io comincia ad esistere in una relazione a un tu, e questi due pronomi a differenza degli altri rimangono nella lingua proprio a inserire il contesto e l’esperienza, tutto ciò che non è lingua e non si esaurisce nella rappresentazione.

La lingua è profondamente relazionale. Un testo scritto è già ascoltato, è già nato nello scambio tra chi parla e chi ascolta, anche se non trova un ascoltatore. Ed è ancora l’ascolto che fa sì che abbia gran risonanza. Un testo vive se qualcuno lo legge, un discorso se qualcuno lo ascolta, e sarà chi legge o chi ascolta a determinare l’importanza delle parole dette o scritte. Sotto a ogni dire c’è una trama di relazioni che presiede alla stessa produzione del discorso e di cui il discorso si intesse. Le parole non vivono isolate nella testa della gente, vivono di continui rimandi alle parole di altri esseri umani, ed è questa trama che fa senso”.[9]

Se indifferenza vi è nei confronti della riforma costituzionale, significa che il testo costituzionale, o i linguaggi attraverso cui è parlato, faticano a istituirsi come strada sensata cui ciascuno possa riferire una propria significazione.

Il progetto è in insanabile conflitto con la nostra costituzione? Perché qualcuno non dovrebbe chiedersi: e allora perché esistono procedure che ne rendono possibile la approvazione? Che differenza corre tra una modifica che fa cadere la costituzione in cocci, e le modifiche comunque necessarie su cui tutte le forze politiche concordano? E quanto può importare, alla fine, alle singole persone, nelle loro concrete vite, di revisioni ed aggiustamenti che il potere politico ha pensato per se stesso, per la propria stabilità, durata ed efficienza? In che relazione sta quello che avviene alla politica dei partiti e delle istituzioni con “i cambiamenti dei contesti in cui viviamo ed operiamo” e come si può mettere in relazione noi stessi con quella, chi domina il registro discorsivo, come si può inserire una parola che sia vera per una singola reale persona?

In opposizione a una riforma “cattiva” si preannunciano, si dicono inevitabili, riforme “buone” – buone nel merito, buone nel metodo. E’ facile che si insinui il dubbio di una strumentalizzazione del giudizio. O perfino il dubbio che la demonizzazione della riforma cattiva serva a legittimare qualunque altra riforma, che certo non sarà bestiale come questa del centrodestra, ma: in che misura sarà fedele alla nostra costituzione? Poiché non sarà questa di cui oggi si discute, per ciò solo avremo la conferma che sarà quella che ci voleva? Io stessa non amo alcuna legge di riforma, non ho mai amato il discorso delle riforme. E’ un discorso che ha logorato la nostra costituzione riducendola a un insieme di regolette che vanno più o meno strette alle necessità del presente, nemmeno alle necessità del futuro e che, in tal modo, non ha fatto che consolidare un senso di distanza dal passato, e ha svilito un nucleo di valore che non era nemmeno nei principi che la costituzione esprimeva ed esprime, ma nel motivo per cui li esprimeva: un motivo che sta nel passato, in un passato il cui lascito è ambiguo, doloroso, inquieto tanto quanto è stato nobile, appassionante, eroico.

“E’ una strana lezione di lettura contestare tutti i particolari di un libro, senza lasciar pensare neppure per un momento di averne colto il progetto d’insieme, e cioè semplicemente: il senso”.[10]

La riforma costituzionale si spoglia a regno dell’asimbolia: domina la malattia di coloro nei quali “la funzione simbolica generale che permette agli uomini di costruire idee, immagini e opere è turbata, limitata o censurata non appena si vada al di là degli usi strettamente razionali del linguaggio”[11]. La ragione per cui si confligge è rimossa. Non vale la pena di prendere la parola, di battersi.

  1. Che cosa accadde, che cosa accade.

“Noi dobbiamo contare che, se invece della monarchia fascista, avesse potuto presentarsi apertamente al popolo, per essere respinto o accettato, il fascismo stesso, non molto meno dei dieci milioni di voti andati al re di maggio sarebbero andati esplicitamente al fascismo, grazie alle stesse influenze e per gli stessi motivi che hanno determinato la votazione di parte monarchica.

La divisione esistente nel nostro paese è dunque, nella realtà, determinata dal fatto che una forte minoranza di italiani può ancora e potrebbe ancora accettare il fascismo. In qual modo colmare una divisione simile? Spingere gli italiani a chiudere reciprocamente gli occhi e abbracciarsi al di sopra delle contese, non è un modo di colmarla. Abbracciarsi al di sopra delle contese significa abbracciarsi al di sopra della realtà, cioè nascondere a noi stessi la realtà; e mentre indebolisce nei vincitori il sentimento di avere combattuto per la causa giusta, rafforza nei vinti l’impressione che essi debbono la loro sconfitta a mancanza di fortuna e non alla colpa, non all’errore, non all’ingiustizia impliciti nella causa loro. La moralità delle guerre (e così di ogni lotta) è che si produca, per via di esse, una situazione nuova; che del nuovo si affermi; che del vecchio scompaia; che vi siano, propriamente, dei vinti e dei vincitori…. Perché ora si vorrebbe che in Italia non ci fossero né vinti né vincitori? Vinto, in effetti, è solo il fascismo; vincitore l’antifascismo! E che l’antifascismo abbia potuto vincere per così poco, mostra solo come i disposti al fascismo siano ancora, in Italia, sotto l’impressione di una mancata fortuna e non già di una colpa commessa o di un torto professato. Non dir loro, nemmeno oggi, ch’essi sono dei vinti, è non dar loro, nemmeno oggi, l’occasione di ricredersi. E’ impedire che si formi una situazione nuova grazie alla quale i vincitori possono assorbire e assimilare i vinti. E permettere ai vinti di costituire all’infinito un tragico pericolo per la nuova unità necessaria al paese.

 

Ma tutto questo non avviene per caso né per volontà di uomini singoli oggi al governo. Avviene per la falsa posizione che si trova ad aver assunto il partito uscito più forte dalle elezioni politiche. Forte di cosa? Parliamo del partito democristiano. E tutti sanno che la sua forza deriva: 1) dal fatto di non impegnare i suoi elettori su un terreno politico preciso come non li ha impegnati, di fronte al referendum, ad essere repubblicani piuttosto che monarchici; 2) dal fatto che il clero cattolico lavora per esso, e porta i voti di quella parte del popolo che ancora si affida, nel prendere decisioni, al giudizio dei preti. Deriva cioè da due fatti equivoci che compromettono la sua libertà di partito senza dargli in cambio una consistenza di militanti persuasi di avere in esso il loro partito. I repubblicani sinceri, che hanno visto dai risultati del referendum come l’ottanta e più per cento degli elettori repubblicani abbiano votato per la monarchia, potrebbero considerarlo un partito di traditori. Pure sappiamo che nei suoi quadri politici, stando alle decisioni del loro recente congresso, il partito è invece, per il settanta per cento, repubblicano. E’ dubbio dunque se dobbiamo considerarlo un partito traditore o non piuttosto un partito tradito. In ogni caso, ad averlo tradito sono stati proprio coloro (elettori non militanti e preti) che costituiscono la sua forza. E sono costoro che possono continuare a tradirlo. C’è una continua possibilità di tradimento nella sua forza. Ma per questa forza il partito democristiano è oggi il primo dell’Italia repubblicana. Per questa forza che è stata sconfitta nella monarchia il partito democristiano è oggi vincitore nella repubblica.

Per questa forza che ha votato pro-monarchia il partito democristiano governa nella repubblica. Dobbiamo dedurre che l’equivoco di un partito è diventato l’equivoco della repubblica? Certo, se non si vuole l’affermazione dei vincitori e l’assimilazione dei vinti, non possiamo pensare che sia proprio perché i vinti, nella pur vincitrice repubblica, hanno il controllo del più grande partito al potere e, di conseguenza, il controllo del potere stesso”.[12]

  1. Non abbiamo bisogno di una costituzione migliore. Elio Vittorini non cessava di essere narratore quando scriveva come pubblicista, e lo testimonia la bellezza di questa pagina.

Il conflitto che non si vede è il più difficile, il più ambiguo. E’ il conflitto con cui abbiamo sempre convissuto; è il conflitto rimosso che soggiace alla nostra identità costituzionale. E ciò che accadde e che accade, trascurato guardando in avanti.

Non abbiamo bisogno di una costituzione migliore. Abbiamo bisogno di sostenere il peso della nostra storia, che la nostra Costituzione – il suo testo, la sua vicenda – porta per intero. Abbiamo bisogno di sostare, di pensare, di parlare; di continuare, e qualche volta di cominciare, a interpretare, di sfruttare questa enorme possibilità del diritto; e di pensarci giuristi, e costituzionalisti, perché sappiamo fare questo e non per gli ingegnosi meccanismi che possiamo suggerire al potere. Dovremmo essere capaci di portare le parole del presente, le domande della realtà, i conflitti viventi, le trasformazioni in corso a intessersi con le parole ereditate, con il passato, compresi i suoi silenzi, le sue reticenze, la sua essenza ambigua ed enigmatica; capaci di dare alle trasformazioni del presente e a ciascuno di noi che ne è abitato e le abita, la possibilità di diventare parte di un senso comune, anziché i fenomeni scollati di un divenire che non ha origine né scopo, attorno al quale devono essere cucite, possibilmente in fretta e male, realtà contenitive piccole (una regola apposita) che durino quel tanto che bastaSarebbe importante, perché la verità non sarà mai più bella del racconto che siamo capaci di farne.

“Se il passato e il presente vengono trattati come parti del futuro – cioè ricondotti al loro stato anteriore di potenzialità – l’ambito politico viene privato non solo della sua principale forza stabilizzatrice, ma anche del punto di partenza dal quale cambiare, cominciare qualcosa di nuovo. Ha inizio allora quel costante mutamento e spostamento nella completa sterilità, caratteristico di molte nuove nazioni che hanno avuto la sfortuna di essere nate in un’epoca di propaganda”. [13]

Riferimenti. Oltre alle opere citate in nota, ho tenuto presente: H. Arendt, Vita activa, 1958, trad. it. Milano 1964, 1988; Id., Teoria del giudizio politico, 1982, trad. it. Genova, 1992; F. Cerrone, Genealogia della cittadinanza, I greci. Dalla civiltà palaziale ai sofisti, Roma, 2004; A. Giuliani, Informazione e verità nello stato contemporaneo, Atti del X Congresso nazionale di filosofia giuridica e politica, Milano, 1975, p. 167 ss.; P. Häberle,Diritto e verità, 1995, trad. it. Torino, 2000; G. Zagrebelsky, Principi e voti, Torino, 2006.

* Ho trovato questa bellissima citazione di Bachmann in un altrettanto bello scritto di C. Zamboni, Quando il reale si crepa, in Diotima, La magica forza del negativo, Napoli, 2005, p. 99 ss., p. 111 e nota 31, dove la fonte è indicata in I. Bachmann, Non conosco mondo migliore, trad. it. di Silvia Bortoli, Milano, 2004.

[1] Una lettura che mi ha accompagnata è il volume di Diotima citato alla nota precedente, dedicato ad una riflessione su ciò che il negativo, che può anche chiamarsi “non essere”, può donare (è ispirato da questo volume il fraseggio che uso nel corso del paragrafo). Esso mi ha aiutata ad accettare la mia ambivalenza rispetto al tema in oggetto. La mia posizione è di odio triste, muto e senza passione verso la riforma berlusconiana, cui corrisponde una … devozione? verso la nostra costituzione – come testo, e come esperienza – intensa ma che non riesce a esprimersi in difese vibranti e appassionate, tutta concentrate alla condanna del berlusconismo. Peraltro l’ho fatto, in passato. “La posizione ambigua, per cui si è scettici e fedeli, conflittuali e relazionali, impedisce all’io il suo abituale modo di procedere, che va per contrapposizioni. E’ una posizione simbolica, che accetta che nelle nostre vite ci sia del non essere e dell’essere, e che i piani di esperienza rimangano sconnessi tra loro, senza cadere nell’illusione di riuscire a creare una falsa continuità d’essere. Così aiutiamo le modificazioni possibili, accogliendo la crepa tra sé e sé e tra sé e la realtà senza riempirla e contemporaneamente intensificando i luoghi d’essere che la realtà stessa ci offre”, C. Zamboni, Quando il reale si crepa, cit. alla nota prec., p.109-110.

[2] H.Arendt, Verità e politica (1954), trad. it. Torino, 1995, p. 27 ss., p. 47.

[3] Verità e politica, cit., p. 70.

[4] Verità e politica, cit., 73.

[5] H. Arendt, Che cos’è l’autorità (1954), in Ead., Tra passato e futuro, Milano, 1991, p, 130 ss., p. 132.

[6] Che cos’è l’autorità, cit., p. 133.

[7] Verità e politica, cit., p. 69-70.

[8] Verità e politica, cit., p. 76.

[9] V. Cosentino, Un’altra possibilità alla vita, in Ead. (cur.), Lingua bene comune, Troina (En), 2006, p. 19 ss., p. 26-27, da dove anche le parole citate tra virgolette in questo paragrafo e verso la fine del successivo.

[10] R. Barthes, Critica e verità, 1966, trad. it. Torino, 1969 e 2002, p. 37.

[11] R. Barthes, Critica e verità, cit., p. 35.

[12] Elio Vittorini, Repubblica con “altro” al potere, in Il Politecnico, n. 30, giugno 1946, p. 1-2, riprodotto in M. Ridolfi, N. Tranfaglia, 1946. La nascita della Repubblica, Bari, 1996, p. 230 ss., p. 231-232.

[13] Verità e politica, cit., p. 70.

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