A proposito di Fare giustizia. Neoliberismo e diseguaglianze, a cura di Anna Simone e Federico Zappino, Mimesis, 2016, intervento in occasione della presentazione del volume, Roma, Fondazione Basso, Roma, 9 giugno 2016.
1.Un momento centrale nel diritto è il processo e quest’ultimo, ha scritto Alessandro Giuliani, “è la più complessa delle istituzioni, in quanto rinvia ad aspetti logici (il problema della verità e della prova); etici (l’obbligo di comunicare la verità), politico costituzionali (la posizione del giudice nei confronti del legislatore e delle stesse parti)”. Il diritto rinvia. Al modo in cui la sua funzione viene pensata, alle aspettative in esso riposte, alle mentalità e alle concezioni del mondo, della vita umana, del potere, che si alternano nel corso del tempo. Le sue diverse manifestazioni storiche rimandano, di volta in volta, a una idea di ordine e mettono in campo diverse forme della ragione, nella cornice di due grandi costanti dell’esperienza e delle aspirazioni umane, alle quali il diritto è connesso: l’ordine isonomico e l’ordine asimmetrico.
Queste costanti incorniciano il tema della giustizia.
L’ordine isonomico, ispirato all’eguaglianza tra governanti e governati, si riflette nella procedura orientata dalla logica del contraddittorio quale strumento di ricerca del giusto e del vero. La logica del contraddittorio “offre al giudice un sapere che nessuna mente individuale potrebbe pretendere di ricercare autonomamente”. Essa, che tende a conclusioni plausibili e ragionevoli, non a dimostrazioni matematiche, guida nella ricerca di una verità probabile ‘eticamente orientata e impegnata’ (Francesco Cerrone): dare a ciascuno il suo, agire secondo buona fede, non lucrare da un abuso. Riconosce come nociva e contraria alla giustizia l’argomentazione sofistica, abusiva, irrilevante e ogni alterazione della parità tra le parti. Per conoscere il giusto trattamento, la giusta retribuzione del torto, o la norma che è giusto applicare interroga, da diversi punti di vista, la natura della cosa, che è circostanziata, e per questo mutevole in diverse circostanze di spazio e di tempo.
Una forma della ragione dialettica e controversiale è quella presupposta dal contraddittorio; significa confidare nel confronto tra opposte alternative, ‘garanzia logica ed etica della ricerca della verità pratica’, e aspirare a una verità probabile, pertanto rivedibile. Nell’ordine isonomico, in cui il diritto risalta come pratica consistente nella ricerca del giusto, impresa collettiva, sociale: ‘la prova dei fatti rinvia alla funzione assiologica della ragione, che, a sua volta, è assicurata dall’intelletto inteso nel senso classico di intuizione, senso comune, sensus recti et iniusti’. In queste condizioni la quaestio iuris è di carattere qualitativo, il fatto è capace di problematizzare la norma: la giustizia rimanda alla sociabilitas.
L’ordine asimmetrico si riflette in un modello di razionalità formale e calcolante, in cui uno dei partecipanti al dialogo (il giudice o una delle parti o il legislatore) ‘ha una funzione privilegiata’; qui il contraddittorio è ‘un ostacolo alla ricerca della verità’, il processo è ‘indirizzato a un fine, a un risultato: il pentimento del reo, la difesa della società, la difesa dei diritti soggettivi’, e il processo si piega a fenomeno burocratico che svaluta il contributo delle parti perché ‘predilige la configurazione logico-scientifica della decisione giudiziale del fatto’.
Dove regna l’utopia autoritaria di un ordine ‘senza giudici e senza conflitti’ il diritto è la catena di prescrizioni strumentali al perseguimento dei fini di governo. Fare giustizia si confonde col problema di conquistare il potere di stabilire autoritativamente ciò che è giusto.
Ricordando le grandi costanti giulianee non ci sorprendiamo che il diritto sia pervaso dalla forma mentale dei nostri tempi, che gli chiedono di farsi strumento di una logica calcolante utile al perseguimento dei fini cari al potere. Oggi impera la logica della messa a valore, che subordina tutto a sé, a partire dallo spazio, come ricostruiscono Luca Daconto e Carolina Mudan Marelli nel loro saggio. L’ordine asimmetrico tende (nuovamente) a prevalere, alleato (nuovamente) agli abusi della razionalità economica·. Sotto pressioni di questa natura il diritto si riduce a strumento, a tecnica del potere, onde nessuna norma, prescrizione o regola conveniente all’ordine dato, ai governanti, possa essere discussa dal punto di vista della sua ragionevolezza, congruità, giustizia, da un altro punto di vista, dal punto di vista dei governati.
Mi interessa chiedermi se noi, gli intellettuali e le intellettuali critiche dello status quo, con le categorie d’analisi, culturali, di discorso che adoperiamo, con l’idea di diritto, e di giustizia, che abbiamo in mente, siamo in grado di, o vogliamo davvero, contestare l’ordine asimmetrico, o non tendiamo invece a convalidarlo.
2.Le premesse dell’ordine isonomico sono riposte nell’idea che ciascuna persona abbia un suo senso del giusto e dell’ingiusto, sia essere ‘pensante e senziente’ (come direbbe un altro filosofo del diritto, Giuseppe Capograssi), capace cioè di dare un senso autonomo alla propria esperienza e che si riconosce dotato di una forza sufficiente a far valere le proprie ragioni in contrasto con quelle di altri, forza che è anche fiducia. E questo deve essere riconosciuto all’altro, all’antagonista.
L’ordine isonomico è innegabilmente ancorato a una idea forte del soggetto, che c’è, pensa, discute, giudica, a partire da sé, nel confronto con altri. La logica della controversia suppone che della verità, dunque della giustizia, nessuno dispone a priori: ma per lo stesso motivo suppone, anche, che siamo tutti e tutte in grado di attingerla un po’, dal nostro punto di vista, secondo la nostra esperienza.
Il pensiero che assume che la ‘soggettivazione altro non è che assoggettamento’, che ‘il giudizio non è altro che il segno attraverso cui l’assoggettamento diventa intelligibile e la soggettività si conforma’, che io, quando parlo, sono parlata (Zappino) è estraneo alle premesse dell’ordine isonomico. Quando risalta solo l’inesorabilità del dominio del potere sull’umano, per l’appunto assoggettato, non residua spazio per confidare nello ‘scambio del vero nel vero’ (Vico).
Gli strumenti concettuali in cui si radica la parola ‘biopolitica’ sono capaci di disegnare in modo molto eloquente la violenta cappa in cui ci chiudono le manifestazioni odierne dell’ordine asimmetrico, ma non offrono alternative epistemiche per uscirne, anzi, si traducono nel convalidare l’ordine asimmetrico. Solo si vorrebbe, forse, che a trionfare anziché le ragioni del potere biopolitico fossero altre ragioni, quelle di chi soffre, è subalterno, marginale.
Quale libertà, verità, o giustizia, senza il soggetto (o: l’individuo) capace di libertà, verità e giustizia? Consapevole di questo problema, di cui del resto sono consapevoli tanti autori ai quali fa riferimento, da Foucault a Butler, Federico Zappino stacca, per salvarlo, il giudizio dall’autodeterminazione, e àncora il giudizio al corpo (anziché al soggetto), che è comunque un modo per ancorarlo all’esperienza. Mi pare che sia la prova di come ragionando di giustizia, se vogliamo continuare ad aspirarvi come una cosa che nasce da noi e non come la volontà del potere che ci viene imposta, come una domanda aperta e concreta e non una risposta prefabbricata e astratta, non possiamo che rinunciare all’idea che l’essere umano sia interamente costrutto manipolato e manipolabile e dobbiamo presumere, invece, che sia capace di sentire il bene e il male.
3.Per combattere l’ordine asimmetrico e far valere l’aspirazione a un ordine isonomico non basta neppure recuperare l’idea che ciascuno sente il suo bisogno di giustizia, ma occorre fare i conti con la logica della controversia, che vincola a ascoltare l’altra parte, a replicare in modo congruo, ad attenersi ad argomenti rilevanti, evitare il sofisma e ogni abuso della parola e della razionalità.
Quando l’accento va solo sul grido di giustizia è mantenuta una visuale asimmetrica. Se sto già dalla parte di quel grido di giustizia, ho già individuato il fine giusto, e la giustizia si confonde con il fine cui tendo a cui do valore. Faccio dunque politica: confonderla col diritto è tipico dell’ordine asimmetrico. Il rischio è di ricadere nella tentazione del diritto dei poveri, così ben illustrato da Lorenzo Coccoli, “quale cornice di legittimazione che trasforma un atto di violenza in una domanda di equità”.
Quando il diritto viene fatto equivalere al ‘frutto di una sistemazione dei rapporti di forza’, cioè al potere, come fa Stefania Ferraro nel suo saggio, residua soltanto la vecchia esigenza di conquistarlo, conquistarlo per usarlo in nome e nell’interesse degli oppressi. E’ la politica, il potere e il governo, che premono e interessano. Per dettare il diritto, secondo le più pure premesse di ordine asimmetrico. Magari per imporre, onde contrastare un regime di ingiustizia epistemica, come quello che preoccupa Brunella Casalini, un modo di parlare, di nominare le cose e le esperienze, che non ne offenda alcune. Il disciplinamento è ordine asimmetrico anche quando (soprattutto quando?) è illuminato.
L’uso del processo, o in generale del diritto, per fare una politica che vittimizza e stereotipizza le donne (come nel campo dei diritti umani analizzato da Michela Fusaschi); la costruzione di categorie come la genitorialità, fatte per permetter a un “giudice-psichiatra che amministra la legge in modo terapeutico” (Gabriella Petti), la de-formalizzazione del diritto, che giustamente questa autrice contesta, sono cose disprezzabili e odiose, quando servono a veicolare atteggiamenti neocoloniali o a rivendicare i diritti dei padri.
Sono virtuosi, quando servono a rivendicare, invece, i diritti delle persone LGTBI, o di altre minoranze ‘discriminate’? In questi casi l’uso politico del processo è una strategia consolidata, e si loda la sentenza che in nome della tolleranza e del progresso fa giustizia, sacrificando a un fine politico il dovere di essere pensata in contraddittorio leale col diritto vigente, coi precedenti, con altri punti di vista.
Lucidissima mi è sembrato il saggio di Olivia Fiorilli che, parlando del diversity management, coglie un punto nevralgico su cui occorrerebbe lavorare molto: sono i soggetti ‘eccentrici’ quelli che oggi, quando non sanno sottrarsi al ‘desiderio di governo’ (Petti) o di ‘riconoscimento’ (Fiorilli) fanno da puntello ai paradigmi dominanti ‘antropofaghi’ del modello neoliberista. L’ordine asimmetrico trionfa diventando, come direbbe Antonello Ciervo, nuovo senso comune, interiorizzato dai suoi oppositori, o anche dalle sue vittime, e così eretto a idolo.
Ancora. Il contratto è criticabile strumento di potere, perché ‘assoggetta il desiderio al credito posseduto da una istanza terza e autorevole, che si presenta come garante’ (Marco Tabacchini).
Che cosa possiamo dire allora del contratto usato come modo di realizzazione di diritti e desideri, o che sostituisce esperienze psico-corporee, come il contratto di maternità surrogata?
Se serve a realizzare il ‘desiderio di genitorialità’ il contratto va bene?
4.Spesso le analisi, e la critica, del neoliberismo assumono un carattere neutro, si mostrano refrattarie a tener conto che mangiarsi il pianeta, mangiare la vita, mangiare l’umano, è in primo luogo e sempre mangiare l’opera della madre, distruggerla, screditarla, e, la parola qui ci vuole, assoggettarla. Le tentazioni del neutro sono le tentazioni dell’ordine asimmetrico che rifugge la complessità di pensare la differenza. La sua più profonda, costitutiva ambizione, è sostituire all’equità, all’eguale secondo la natura delle cose, che si nutre di differenze, il paradigma astratto, universale, oggettivante dell’eguaglianza sotto la legge.
Scartare dal pensiero asimmetrico e recuperare le premesse dell’ordine isonomico ci fa riscoprire queste ultime come altrettanti valori della differenza, della pluralità, della articolazione dell’esperienza. Tutto ciò implica, oggi, una enorme revisione delle mentalità dominanti. Come suggerisce Anna Simone quando, contro i diritti di genere o le giustizie di genere di ogni sorta, paradigma neutralizzante e neutro, si appella all’idea del giusto per tutti e per tutte, riscopre l’equità classica. La quale è ‘trattare in modo eguale l’eguale e diverso il diverso’. E’ una grande risorsa. Che, come ripeto, presuppone: dar credito alla soggettività, e alla sua esperienza, alla capacità di ciascuna e ciascuno di sentire e dire il vero rispetto a sé.
Scartare dall’ordine asimmetrico significa, anche, scommettere sulle risorse della ragione prudenziale contro la ragione calcolante e strumentale.
E’ calzante la distinzione che Federica Giardini fa tra misurabilità, paradigma dell’ordine ordine asimmetrico, e misura, che rinvia all’ordine isonomico, alla logica del contraddittorio, logica del probabile e del ragionevole, perché rimanda all’esperienza, quindi alla testimonianza. Della misura Federica non si nasconde l’opacità: è una parola che richiama la giustizia ‘concetto oscuro’ tra Perelman e Marcuse, ma per questo concetto transitivo, capace di rinviare ad altro, di aprirsi al pensare per possibilità che alcuni considerano tipico della logica controversiale isonomica. Pregiare la ragione prudenziale contro la ragione autoritaria significa, in effetti, accettare che, quando ragioniamo di giustizia, ci muoviamo nel campo dell’opinabile. La lotta contro l’ordine asimmetrico comincia dal modo in cui pensiamo.
Ed è del resto, quello che corre lungo il volume che commentiamo, anche il tema dell’abuso della razionalità economica, della separazione tra diritto ed economia, e dello scambio tra potere economico e potere politico che Giuliani, nel suo Giustizia e ordine economico (Milano, 1997), ha analizzato per come si è presentato nei Comuni medievali italiani: Giuliani ragiona in quelle pagine su come l’alterazione dell’ordine etico dell’economia, fatta di guadagni abusivi ottenuti con monopoli e intese restrittive, e di sfruttamento del lavoro (risale ad allora la teoria dei salari bassi) sia inestricabilmente legata alla alterazione dell’ordine giuridico e politico (dispotismo, uso privato del potere pubblico). Furono i giuristi comunali a cogliere come il premere degli interessi economici significasse negazione di fondamentali libertà, a partire da quelle del commercio e dell’industria (monopoli), o la libertà di accesso al lavoro (corporazioni), o la libertà della ricerca e della tecnica (divieto di tessere la lana con la seta), cioè negazione del diritto. Portatori della cultura giurisdizionalistica del diritto comune, essi difendevano i valori isonomici in cui si erano formati contro l’ordine asimmetrico ispirato a ‘la difesa de li averi’ con cui si stava affermandola la razionalità calcolante della modernità, e, con essa, la tacitazione del diritto in strumento al servizio del potere.
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